È utile dare la caccia alla mente?
Riccardo Panigada
Non vi è dubbio che i sintomi dei “moti dell’anima” si rivelino sul corpo, che tali segni siano correlati a dinamiche interne al corpo oggettivamente riscontrabili e misurabili, e che sia compito della semeiotica medica e psicoanalitica individuarne l’origine fisiologica. Resta invece un mistero il “motore immobile” che li produce.
La conoscenza della neurofisiologia risulta utile, infatti, per avere un’idea di quali distretti organici siano coinvolti nelle attività mentali, e di ciò che avviene al loro interno nel corso di queste, ma non certo spiega, né (siamo certi) potrà mai spiegare l’”origine” della mente.
È allora il caso di gettare la spugna, o scienziati e filosofi possono continuare a dare la caccia alla mente, senza che il loro lavoro sia considerato una perdita di tempo?
Se si considera il risultato sicuramente scoraggiante ottenuto a migliaia di anni dall’inizio di tale attività “venatoria”, e nonostante il prezioso ausilio delle moderne tecnologie di imaging a supporto dell’esplorazione del sistema nervoso centrale, meglio di certo lasciar perdere. Ma, se si valutano i prodotti che nel corso dei secoli sono derivati dagli studi filosofici, umanistici, artistici, e scientifici intenti a raggiungere l’obbiettivo, non pare esservi nulla di più promettente rispetto al perseverare nel dar la caccia alla mente.
E siccome il compito di questa sezione è quello di prendere in considerazione la problematica sotto il profilo epistemologico, verrà qui affrontato il dibattito sul metodo.
Falsificazioni, paradigmi,
sistemi progressivi e sistemi degenerativi…
Queste le principali ricette per valutare le procedure di ricerca scientifica proposte rispettivamente da Popper, Kuhn, Lakatos. Ma entro quali àmbiti valgono? Andiamo per gradi.
I più attuali strumenti teoretici utili alla formulazione di sistemi descrittivi della teoria della conoscenza, e alla definizione dei relativi limiti, restano quelli individuati dagli autori postkantiani tra fine settecento, e inizio novecento: è infatti postulando le Idee Pure di Anima, Mondo, Dio, che lo stesso Kant ne ha lanciato i semi.
Anima, Mondo, Dio, sono per Kant gli strumenti costitutivi innati del pensiero umano, e rispettivamente: – la facoltà teoretica mediante la quale ogni individuo è in grado di percepire la propria identità indipendentemente dalla propria corporeità, e quindi in senso astratto (indipendentemente dall’eventuale accezione metafisica e mistica del termine “Anima”, che Kant non prende mai in considerazione); – la facoltà di attribuire allo spazio esterno coordinate compatibili con quelle corporee, e con il movimento corporeo proprio e altrui (il termine Mondo utilizzato da Kant, di cui finora i filosofi non si sono mai troppo curati, risulta coerente con la facoltà appena descritta); – la facoltà di percepire la presenza di qualcosa che inevitabilmente supera qualsiasi possibilità di descrizione raggiungibile con gli strumenti del pensiero a disposizione dell’uomo, e da cui derivano appunto le Idee Pure, ovvero le tre facoltà teoretiche qui descritte (che Kant chiama Dio, indipendentemente dalle eventuali accezioni metafisica e fideistica del termine “Dio”, accezioni che Kant non prende mai in considerazione nei propri trattati).
Postulando le Idee Pure, Kant può inserire l’a-priori nei giudizi (che notoriamente definisce sintetici-a-priori) della matematica, poiché la rappresentazione astratta delle poche unità numeriche indicate nella somma 7+5=12 si può prefigurare in astrazione nella mente come l’insieme di 12 unità pitagoriche (i famosi sassolini) disposti con ordine diverso, a seconda che si guardi la parte sinistra o quella destra dell’equazione.
Tuttavia, come era già capitato a Euclide, che malvolentieri aveva accettato di aggiungere ai primi quattro postulati il quinto, molto meno intuitivo dei precedenti, anche Kant si renderà conto dei limiti della propria sistematica, al momento di trattare la “Critica del Giudizio”, ovvero nel momento in cui alcune facoltà intellettuali ineluttabilmente presenti alla mente del singolo individuo e collettivamente condivise, si ribellano però alla loro inclusione in qualsiasi eventuale sistema razionale empirico o teoretico.
Se è stato per Kant possibile stabilire “valori morali primari” socialmente condivisibili, e formulare mediante il metodo magistralmente esposto nella Critica della ragione pura anche la sua Critica della ragione pratica, non poté fare altrettanto nel momento in cui si accinse a occuparsi di estetica.
Infatti, la sensibilità estetica, e tutta la problematica inerente alla sua trattazione appare di per sé refrattaria alla possibilità di porre postulati iniziali plausibili in quanto generalmente condivisi, potendo, tuttalpiù, far riferimento a “canoni” estetici che si sono storicamente affermati all’interno di diverse culture (e che più tardi saranno da Jung ricondotti agli archetipi). Tanto che si potrebbe dire che la problematica estetica nel suo insieme, con la sua impossibilità di essere ricondotta ad alcunché di razionale, non fa altro che confermare la necessità di postulare le Idee Pure della prima critica kantiana; nonché la possibilità di seguirne gli impulsi sul piano puramente teoretico.
Così, se Kant sviluppa pienamente i successi raggiunti dal pensiero filosofico e scientifico a lui contemporaneo, nella convinzione che una sintesi di razionalismo, empirismo e giusnaturalismo potesse proporsi come la migliore ricetta possibile, punto fragile della sua teoretica è la necessità di ricorrere al Noumeno, al fine di ipotizzare la metafisica della cosa in sé, la quale resta inconoscibile.
Ma sul piano puramente epistemologico dell’indagine delle facoltà del pensiero umano l’atteggiamento analitico-critico (si preferisce per motivi etimologici e logici questo ordine rispetto alla più diffusa locuzione critico-analitico, in quanto è la distinzione che precede la scelta), non è l’unica opzione possibile. E non necessariamente ci si dovrà rivolgere allo studio delle filosofie orientali per riscontrare un approccio alternativo.
Gottlob Ernst Schulze, meritò lo pseudonimo di Enesidemo per il suo scritto dal titolo “Enesidemo, ovvero sui fondamenti della filosofia degli elementi sostenuta a Jena dal sig. prof. Reinhold, assieme a una difesa dello scetticismo contro le pretese della critica della ragione”. Già il filosofo precristiano aveva infatti messo in guardia dalla possibile fallacia dei sensi e della ragione, invitando ad adottare la sospensione del giudizio (ἐποχή).
Il limite invalicabile risulta essere infatti quello della coscienza soggettiva, oltre il quale è puramente arbitraria l’eventualità di individuare qualcosa definito con termini quali “Noumeno” o “cosa in sé”.
Per Jacob Friedrich Fries l’oggettività della conoscenza deriva dai fatti della percezione interna. “Alla base di ogni sintesi logica dell’intelletto è sempre e necessariamente una sintesi originaria della conoscenza immediata. Come dietro tutte le figure particolari di cui tratta la geometria sta lo schema uniforme dell’unico spazio omogeneo. Così dietro i singoli giudizi fondamentali metafisici, è simile a uno sfondo oscuro, la totalità della conoscenza metafisica intuitiva” (Metaphisik).
Ernst Cassirer osserva giustamente che “oltre questa constatazione effettiva, che un determinato principio fondamentale è contenuto come parte costitutiva integrante in tutti i nostri giudizi mediati, e che quindi rimanda alla conoscenza immediata come all’originale che esso riproduce, è ovvio che la metafisica e la gnoseologia di Fries non sono in grado di condurci”.
Ma non è certo cosa da poco, l’aver per la prima volta portato con chiarezza in evidenza nel contesto della filosofia occidentale quale fossero i limiti della speculazione razionalistica, indicando il metodo deduttivo come applicabile unicamente a un contesto sovrastrutturale rispetto a quello della conoscenza intuitiva immediata.
Nonostante il contributo di Fries (e quello di Bergson), i filosofi occidentali non sembrarono arrendersi alla ricerca di verità “ulteriori” basandosi sul metodo analitico-deduttivo, e diversi scienziati riduzionisti contemporanei non disperano di poter individuare con lo stesso metodo (senza che insorga in proposito il minimo dubbio sulla sua praticamente indiscussa universale affidabilità) il modo di superare il salto tra mente e materia.
Indubbiamente utilissimo “a chiarire meglio i concetti” come ha osservato lo stesso Fries, e all’indagine nel campo della fisica classica, e di vaste aree di altre scienze, il metodo analitico-deduttivo, invece non è forse meno impotente di quanto non possa essere quello intuitivo e induttivo nella ricerca di “verità ultime”.
Potrebbe infatti valere la pena di considerare che lo strumento mentale non sia altro che frutto dell’evoluzione dell’animale uomo, semplicemente funzionale alla sopravvivenza della specie, e quindi adatto alla interpretazione di una realtà sistematica limitata al contesto della vita biologica e sociale umana.
Non per questo significa che si debba rinunciare a utilizzare strumenti speculativi (che sfruttando anche la loro alea leggermente “superdimensionata” rispetto alle pure necessità pratiche) a disposizione dell’uomo, per rubare alla realtà nascosta qualche altro segreto. Ma, una volta inteso che si tratta di strumenti molto poco adatti per essere utilizzati direttamente a tale scopo (ovvero risulta che ci si trovi nelle condizioni di avere a disposizione una forchetta, quando invece servirebbe una chiave inglese) sarà più opportuno utilizzarli per studiare strategie finora mai prese in considerazione.
Gli epistemologi (tra cui anche quelli ai quali si è accennato sopra), finora si sono limitati a valutare metodi e teorie della ricerca consolidati dalla prassi, osservando dall’alto cosa stava succedendo, e formulando cosiddetti sistemi di validazione, ma senza mai intervenire nel merito, ovvero proponendo metodi innovativi.
Un radicale cambiamento di vedute, al quale bisognerebbe oggi rivolgere l’attenzione, si potrebbe basare invece sulla traccia di quello proposto nel corso della storia da diversi autori, i quali, hanno contribuito all’esplorazione di quei rapporti, che, avvenendo tra gli uomini e l’ambiente, definiscono la fisica della coscienza.
Essi non sempre (come ha invece puntualmente fatto Leonardo) hanno sentito la necessità di mettere in chiaro con la penna, oltre che con le opere d’arte, il loro pensiero, ma l’attenta quanto doverosa ermeneutica delle loro opere consente di raggiungere informazioni insospettabili.
È a queste emergenze, che, oggi, la scienza deve interessarsi, tenendo presenti i contributi del pensiero filosofico e artistico, ma, questa volta, più per tentare il superamento dei propri stessi metodi, invece di vedere nelle altre discipline solo il riflesso delle proprie conquiste.