Il Quattrocento: l’umanesimo e il disegno
di Marco Marinacci
L’intento di questo primo anno della rivista è quello di delineare le epoche e indicare i momenti nodali dell’arte moderna, nell’accezione etimologica di “ancora presente”, che include, quindi, e accorpa, mano a mano che si avanza, anche quella contemporanea, cioè di quell’arte alla quale siamo legati non da un interesse prevalentemente storico ed estetico, ma che si rivela essere ancor più di natura antropologica, perché ci riguarda e ci appartiene nel senso più ampio e profondo: quell’arte i cui confini vanno ricercati, per una serie di ragioni che questo numero tenterà di definire, nel momento dell’Umanesimo.
Cercando dunque di individuare i termini ultimi cui può essere ricondotto il grande arco artistico nel quale si proietta la stagione umanista, che trova nel Quattrocento la sua cornice, pensai in prima analisi a Firenze e la prospettiva: la città toscana perché consente di ricondurre al suo luogo d’elezione la natura ampia dell’Umanesimo, individuandone quindi un “registro stilistico”, e la prospettiva, in quanto permette di identificarne la chiave simbolica.
Ma sarebbe stata una lettura che avrebbe invertito i termini reali dell’intento, il cui obbiettivo consiste nell’afferrare “l’anima” di tutto un secolo. Unità temporale sfuggente, quella del “secolo”, in quanto, se da una parte ha una sua precisa identità e coerenza convenzionale in ambito storico artistico, che può essere individuata da una puntuale analisi iconografica e iconologica, come rivelano i due ambiti semantici che si vengono a comporre, riferendosi a stile e simbolo, nasconde spesso ulteriori caratteristiche, che si palesano solo a una lettura ermeneutica più attenta. Ed è proprio l’”anima” del Quattrocento, che s’intende qui indagare. Vietata quindi ogni concessione a termini che potrebbero in qualsiasi modo ridurre e orientare il significato del secolo a una idea astratta.
Lo stesso errore lo si commetterebbe identificando il Quattrocento con un artista come Pier della Francesca. Nonostante che Piero possa anche a ragione, essere considerato incarnazione del XV secolo, non solo se si guarda all’identificazione della sua figura di artista con il teorema della prospettiva, cardine stesso dell’Umanesimo, ma alle date che costellano la sua biografia: date che coincidono esattamente con quelle cruciali del XV secolo, fino alla più fatale, quella estrema del 1492.
Nel ‘92 si spegne, insieme a Piero, Lorenzo, il principe magnifico che aveva coronato il sogno dell’homo novus, sogno mediante il quale aveva schiuso la prima ferace stagione del Rinascimento. Ma il 1492 è soprattutto l’anno in cui cala il sipario sulle certezze che quell’uomo nuovo, così antico ma anche così giovane, cercava nelle leggi inverate da una prospettiva tanto a lungo perfezionata, e la cui volontà di dominio si deve scontrare ora con il grande “non-continente” oceano, che il viaggio di Colombo aveva rivelato.
Un territorio quindi non più riducibile allo spazio omogeneo e omomorfo della teoria euclidea, e, ancor peggio, da cui emergerà invece il vero e proprio Nuovo continente, fino allora invisibile insospettabile, che, come un grande magnete, sembrerà attirare tutte le linee e le forze in un nuovo orizzonte curvo, inghiottendo, oltre al sole, il sogno del Quattrocento.
E se Pier della Francesca può essere considerato propriamente incarnazione del Quattrocento, ne è l’incarnazione sublimata, che può esprimerne un canone, ma non il carattere. Un canone, che, troppo ingombrante per il secolo a venire, e quindi alacremente rimosso dalla memoria (basti pensare ai suoi affreschi per il Palazzo Apostolico a Roma, distrutti per far posto alla sorgiva e trionfante pittura di Raffaello), diventerà subliminale, ma ineludibile riferimento per tutta la pittura, che vorrà confrontarsi coi colori pastosi dell’Adriatico, e con quelli umidi delle “terre di mezzo”. Un canone consolidato nel nitore abbagliante della perfezione dei solidi puri, cui è ricondotto tutto il mondo delle raffigurazioni di Piero, e, davanti ai quali anche il tempo si arresta in una pausa di grazia attimale. Un canone che non può essere preso a diapason per fissare le frequenze del XV secolo, ma che diventa nota parallela, e sarà poi leit motiv, per quando la pittura si dovrà confrontare con le inquietudini dell’esistenza (basti pensare a Lotto, marchigiano d’adozione, o alla volontà meta-fisica di De Chirico). Un canone, che vanterà, dunque, necessariamente, una paternità enorme sul XX secolo, ma che non può per questo essere considerato unico carattere distintivo del Quattrocento: vale a dire quell’espressione che solo al Quattrocento appartiene, perché in esso germoglia, si schiude, matura e, infine, cade.
Piero non ne esprime il carattere perché è anche “luce”, quella idea di luce, che continuerà con l’astro di Venezia nel Cinquecento, così come non lo esprime nella sospensione del tempo, idea lontana dalla corte neoplatonica, dove il tempo invece passa impietoso (la “bella giovinezza” di Lorenzo, “che si fugge tuttavia”, ne è monito). Piero sembra quasi osservare la caducità del Quattrocento come da lontano, attraverso un cannocchiale che inquadra il mondo, e lo fissa, in una prospettiva distanziante e assoluta.
Il carattere dell’arte di Piero, se lo si vuole trovare, lo si deve cercare non nel Quattrocento, ma nella sua terra natale, montuosa e aspra, e da quella affiora sulla tavola, attraversando poi l’arte di tutta quella fascia della penisola, che scende nella valle tiberina, da una parte, e si distende sui dolci declivi delle modellate colline marchigiane, dall’altra. Il sigillo di questo carattere è una composizione trattenuta in un arroccamento turrito, quasi nel timore che possa rovinare a valle, incardinata da una sezione aurea, che si direbbe di origine militare, tanto appare creata a difesa.
Niente di tutto questo è necessario alla quieta vita della corte neoplatonica, che è invece la vera incarnazione dello spirito dell’Umanesimo, di cui Firenze diventa simbolo, e quindi termine implicito. Qui serve essere chiari: lo sarebbe anche Urbino, ma Urbino diventa luogo elettivo di un umanesimo in senso più aristocratico, come lo stesso nome sembra adombrare (urbs, e non civitas). O Padova, che però ha una inclinazione erudita, data dalla sua storia di centro universitario, che guarda all’antichità come a un testo da interpretare, in chiave filologica e archeologica, focalizzando la sua attenzione intorno agli studia humanitatis. In modo simile si potrebbe parlare anche di Mantova, delle corti lombarde, o delle altre minori, disseminate lungo la penisola, ma ci si dovrebbe calare, poi, nel racconto di un’idea più estraniata e incantata, per certi versi ancora “cortese”.
E’ invece proprio a Firenze, e solo a Firenze, che l’Umanesimo trova nell’uomo il suo centro di gravità: non l’uomo aristocratico, l’uomo d’arme, o l’erudito, ma l’uomo del popolo; debito alla lunga tradizione repubblicana della città, che già con Dante vide difeso il potere e la sovranità del popolo (seppur appoggiato dalle famiglie magnetizie), e che permetterà poi a un Leon Battista Alberti ancora in esilio, ma pronto a dar vita al nuovo spirito umanista della città, di affermare che un “uomo può fare ciò che vuole, purché lo voglia”.
Alla nascita di questo “uomo nuovo” deve corrispondere necessariamente un nuovo spazio pronto ad accoglierlo, lo spazio, che, umanisti come Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Vittorino da Feltre, si prodigano a costruirgli intorno, perché vi si possa un giorno accampare – ci riuscirà Leonardo, come sta a dimostrare il suo Homo ad circulum – e della cui conquista si incaricherà un apparato di regole e leggi che è prima simbolico che teorico, chiamato prospettiva.
Ecco perché Firenze e prospettiva sono due termini impliciti, diremmo tautologici, per definire la vasta natura del Quattrocento, ma che non ne esprimono il “carattere”. Primo termine, a priori, a cui va invece ricondotto tutto, e in cui vediamo convergere le varie “anime” del XV secolo, è chiaramente Umanesimo. Il secondo termine che si deve ora cercare è quello, che, oltre ad essere traccia storica, e stigmate del verbo umanista, riesce a offrire la chiave per interpretare la volontà artistica, il messaggio racchiuso in quel “segno prospettico” (semanticamente inteso), il quale, da forma simbolica del “carattere” umanista, diviene “forma” di tutto il secolo. Questa capacità euristica è racchiusa nel disegno.
Attraverso questi due termini ci poniamo, naturalmente all’interno dell’agone fiorentino, ma alla ricerca dell’anima di tutto il Quattrocento. Anima che trova prima, perfetta, consolidata forma nella cupola di Santa Maria del Fiore, progettata dal genio di Brunelleschi, cui, non a caso, viene tradizionalmente attribuita la scoperta della prospettiva. Un fiore con una corolla così “ampla da coprire con sua ombra tutti e’ popoli toscani” (L.B. Alberti, De Pictura), e i cui petali si distenderanno su tutta la città – non ci stupiremmo di scoprirli scanditi in sezione aurea, come quelli di una rosa antica – tanto che ogni nuovo edificio, dall’Ospedale degli Innocenti a San Lorenzo, dalla Cappella Pazzi a Santa Maria Novella, ogni nuova opera sbocciata lì vicino, dalla Cappella Brancacci alle sculture di Donatello, sembrerà germinare dal suo seme.
Che si tratti di una rosa o di un giglio, Firenze è città connaturata ai fiori – deve il suo etimo al profluvio di infiorescenze della sua valle – e il suo fiore più fecondo rigoglisce nel terreno dell’Umanesimo, e genera un seme, quello della prospettiva, che quando arriverà a maturazione darà per frutto il disegno: il canone stesso, il metro dell’Umanesimo, e, insieme, il distillato più raffinato del Quattrocento.
Per assaporare il gusto di questo frutto maturato all’ombra dell’Accademia Neoplatonica voluta da Cosimo de’ Medici, che affonda le radici nella terra soffice di una colta corte cittadina, e che assorbe dai tralci e dai racemi il succo di un lirico linearismo, marcato dalle note melanconiche della musica che si propaga dalla corte, dobbiamo saltare il muro di cinta che protegge l’hortus conclusus dell’arte più dolce e raffinata della Firenze del Quattrocento, ed entrare sommessamente nel giardino botanico che da un momento all’altro si apre intorno a noi. Lì ci accoglie, accompagnata dalle sue Grazie, e sotto le spoglie immortali e sempre rinascenti dell’Allegoria della Primavera, la più effimera ed elegante fanciulla che abbia calcato il suolo del secolo: Simonetta Vespucci, amante di Giuliano de’ Medici, che poco più in là, in veste di Mercurio, accarezza quel frutto. Loro, Giuliano (che col caduceo sembra già preannunciare la fragilità della vita, appena al di fuori di quel giardino) e Simonetta, il fiore di una giovinezza tesa e delicata, epifania serena e arcadica di una nuova età dell’uomo, che si raccoglie nell’”Eden” chiuso e difeso dalla forza del segno disegnativo.
Il segno è quello di Sandro Botticelli, ritenuto per questa sua forza mirabile il “maestro del Quattrocento”, ma anche per averne rappresentato iconicamente, più di ogni altro artista del secolo, il carattere: perché ha saputo elevare il disegno a simbolo – si legga forma simbolica – di un mondo incantato, e la sua linea “malinconica e lirica” è assurta così ad allegoria, capace, con un saettare di spada, di custodire e preservare il fiore e il frutto, altrimenti caduco, dell’Umanesimo.