Il Cinquecento: la luce e la pittura

di Marco Marinacci

Se il Cinquecento si apre nel segno del genio, che porta all’apice il progetto umanistico, non si può altrettanto affermare che il secolo leghi la sua “natura storica” all’idea rinascimentale.

Il corso del Rinascimento infatti, pur continuando a fluire nelle periferie (verrà chiamata la “terza via”), per arrivare fino alle ultime decadi del secolo – quando giungono gli esiti pittorici del Moroni, di indubbia matrice rinascimentale – potrà passare direttamente il testimone ai maestri del Naturalismo. Ma, già nella sua terza decade, il sedicesimo secolo, con la morte di Raffaello e lo scacco fatale del Sacco, subisce un brusco arresto proprio in quello che nel ‘500 è diventato il cuore dell’”impero”: Roma.

E Roma si troverà allora esattamente nell’occhio del ciclone, dove, in un’apparente calma assoluta – la più pericolosa – i semi del Rinascimento subiranno una mutazione genetica, che darà origine a una pianta dai molti rami, tutti sterili (l’arte di “maniera”: quella, per intenderci, che riporterà pedissequamente in una raffigurazione “in formalina” del Testo Sacro le immagini strappate al segno vitale di Michelangelo).

Mentre intorno si alza un vento tanto potente da far crollare le mura alzate dall’Umanesimo nella sua prima fortezza, Firenze, per spargervi il seme di un’altra Maniera, ben più vitale e feconda, da cui derivano tutti i cromosomi dell’arte “ribelle” (quella di Rosso Fiorentino e Pontormo, per primi, potendo in questo senso essere identificati come progenitori dell’Espressionismo).

Ma appena il vento si placa, un cielo sgombro da ogni nube proietta sul mondo una luce mai vista, che fa apparire la vera natura del Cinquecento. Essa invererà il sogno cristallino della Serenissima, che attraverso il suo prisma darà vita a un nuovo spettro cromatico.

Per poterlo scorgere, dobbiamo però fare un passo indietro: mentre nel Quattrocento, in Toscana, si andava elaborando la prospettiva centrale, mediata dall’opera di Brunelleschi, Masaccio e Donatello, una diversa forma simbolica investiva il pensiero del Nord Europa, attraverso un’analoga volontà di “presa” e dominio del visibile, ma, fatta, diremmo, anziché di “valori spaziali”, di “qualità ambientali”. Tutto ciò voleva dire, in sintesi, non il chiaroscuro disegnativo, di matrice toscana, bensì una pittura fatta di luce¹.

Una pittura derivata da formulazione empirica, come quella toscana, la quale, però, anziché dare come risultato alchemico la prospettiva, produrrà la pittura ad olio. Il “gran maestro” detentore del segreto è Jan Van Eyck, e subito appresso “seguaci” come Robert Campin e Rogier van der Weyden, Petrus Christus e Hans Memling, Giusto di Gand e Hugo Van der Goes, lo porteranno già a vertici assoluti.

Costoro, però, qui serve essere chiari, non daranno origine a un “Rinascimento del Nord”, come spesso è stato affermato, semplicemente perché di differente genetica: il Rinascimento, momento secondo dell’Umanesimo, è un preciso, coerente, universo, che ha per centro l’uomo, e nient’altro.

La loro è invece una pittura che si stupisce del baluginio degli specchi e dei vetri, dello splendore delle posate e dei bicchieri, che si attarda sulla trama dei tessuti, sull’ordito dei tappeti, sul vigore del legno invecchiato, tanto da sentirne l’odore, e fin sulla polvere posata sui piccoli oggetti domestici, segno rassicurante del tempo che scorre. Una pittura che non dà corso all’idea umanistica, ma che certamente consegna alla vita una possibilità altrettanto unica e irripetibile di farsi visibile, attraverso una luce che sa intessere rapporti imprevisti e segreti, addirittura sonori e odorosi con l’ambiente, attraverso segnali uditivi e olfattivi che proiettano la rappresentazione in una magica unità sinestetica. Il primo grado dell’evoluzione della “pittura di colore”.

Ma nel Cinquecento lo scettro passa a Venezia. Qui il salso ambiente lagunare, l’umidità bassa e penetrante, impattano sull’anima, e formano un tutt’uno. Qui troverà primo terreno in cui attecchire l’idea fisiognomica dei “moti dell’anima” di Leonardo, immediatamente appresa da Giorgione, e trasferita alla Laguna attraverso il Ritratto di vecchia del 1506. Qui ha origine un incontro straordinario, che è un unicum assoluto e “primario” dell’arte occidentale: il radicamento dell’ambiente nell’uomo. Sarà per primo Giovanni Bellini a trasferire il segno ambientale in un cosmo omomorfo, un’idea di unità ambientale corrispondente a quella della prospettiva centrale nella sua forma simbolica, in cui l’uomo può trovare il suo spazio, ed esserne al centro. Ma sarà poi grazie ai grandi conoscitori dell’anima, Giorgione e Lotto in primis, che questa affinità tra ambiente e animo umano diventerà paesaggio interiore.

Il percorso che va dall’idea luministica quattrocentesca, catturata dalla pittura a olio, e giunge alla conquista del colore come impasto di materia vitale e luce, troverà però un altro definitivo approdo, che si chiama Tiziano. Non tanto per via dell’imprimatur dato da una fortuna critica estremamente favorevole, fortemente cercata e in gran parte derivante dall’attenta, a volte spietata, sapienza diplomatica messa in campo dallo stesso maestro cadorino, che ne decreta l’investitura ereditaria di tutta la genia di pittori del colore precedenti (e la paternità di tutti quelli a venire), ma grazie alla puntuale verifica in pittura del pensiero ancorato nel profondo al soggetto umano, prima cifra della meditazione veneziana. Verifica praticata attraverso una meticolosa e alacre ricerca delle diverse facce dell’animo umano (che porterà Tiziano a mettere in scena per primo il “teatro in pittura”, conquista che deve forse non poco alla diretta conoscenza giovanile dell’arte del Ruzzante), e consolidata da una ferina capacità tecnica di rapimento della figura umana.

Basta osservare un’opera del 1512 come Ragazza che si pettina allo specchio, di Giovanni Bellini, e poi guardare al testimone raccolto attraverso il modellato luminosamente plastico della Venere allo Specchio del 1555, dal pittore di Pieve, ormai maturo, per comprendere la primogenitura che Tiziano accampa di diritto sulla pittura veneziana. Sarà il ponte creato tra la Venere dormiente di Giorgione (1508) e la Venere di Urbino (1538), che consentirà di comprendere il dialogo costante che intesse la pittura dei due titani, ma anche l’immensa distanza volutamente frapposta dal secondo tra la propria e la “fattura” del “maestro”. Una distanza segnata appunto da un’idea di tecnica come segno, parola di una lingua cui solo il colore può dar vita, e che solo a Venezia può trovare fondamento.

Ma, se si vuole, c’è un ulteriore motivo per cui in Tiziano s’identifica la linea di continuità veneziana, dato dalla sua biografia. Un senso cronologico, si potrebbe dire, una circolarità di date, a partire dal suo approdo in Laguna nel 1499 (il pittore ha appena nove anni), che fa sì che da quel momento la sua biografia diventi tutt’uno con quella della Repubblica Marinara.

E’ quello l’anno che vede sbarcare Vasco de Gama nel porto della prossima avversaria della potenza marittima di Venezia, Lisbona, rendendola vincitrice appena consegnato il prezioso carico della conquista della Via delle Indie. E’ il momento in cui questo primo ma fatale scacco alla sua potenza economica, farà decidere alla Repubblica una mossa di arrocco inespugnabile, muovendo la torre del suo primato artistico, affidato alle esperte cure del Vecellio. A lui l’onere di preservare, come incantato, il lungo sogno in cui potrà sopravvivere l’idea stessa di Venezia, grazie al sortilegio di un segno cromatico carico di “memoria”².

Il primo incontro con la grande tradizione veneziana Tiziano lo avrà quando lo zio, Antonio Vecellio, che ricopre carica di prestigio nell’amministrazione pubblica della città, lo introduce nella bottega più rinomata e d’alto lignaggio che ci sia in Laguna, quella di Gentile Bellini (in realtà ve n’è un’altra altrettanto affermata in città: quella del fratello Giovanni, ma entrambe sono depositarie dell’eredità del padre Jacopo, considerato, a metà del Quattrocento, il vero fondatore dell’arte veneziana). La dinastia dei Bellini è nota e valica di molto gli angusti confini insulari, per aver introdotto, grazie anche al pieno dominio della tecnica a olio, una nuova chiave di lettura ambientale: il tonalismo. Conquista che si deve in realtà al pennello di Giovanni, il quale ne fisserà l’idea nella Pala di Pesaro (siamo intorno al 1475). Quando Tiziano entra nella bottega di Gentile, non trova però più l’aria avanguardistica che l’aveva caratterizzata tre decenni prima, e si rende conto che quella pittura di specie quasi miniata, calligraficamente descrittiva, non potrà reggere il passo del tempo che sopravanza. Quello sancito proprio dal fratello Giovanni, che il destino ha innalzato a involontario antagonista, appena avviato il dialogo col cognato Andrea Mantegna (uno dei più feraci autori che l’arte di tutti i secoli abbia mai conosciuto) e appreso il liquido segno di Antonello da Messina, che lo condurrà al “limpido tonalismo della pittura senza disegno”³.

Ciononostante acquisirà – complice il tratto distintivo del genio cadorino quale capacità rapace di apprendimento e conseguente superamento dei linguaggi dei maestri – una speciale sensibilità verso il genere del ritratto e dei grandi cicli narrativi (i “teleri”) allora richiesti dalle Scuole, e, grazie a questa, la solida e fedele committenza di Gentile. La qual cosa, unitamente all’acquisizione del canone belliniano, quello della luce tonale, cioè di uno spazio ambientale definito e pienamente verificato⁴  (che apprenderà questa volta direttamente dal suo demiurgo, Giovanni, presso la cui bottega andrà poco dopo), comporterà la nascita del “teatro in pittura”: basta guardare al ritratto di papa Paolo III Farnese con i nipoti, per accorgersi che Shakespere è dietro l’angolo.

E’ con Giorgione però che la formazione di Tiziano trova la svolta decisiva, tanto che i primi dieci anni di lavoro possono essere compresi solo alla luce del dialogo con le soluzioni cromatico-luministiche con cui il maestro di Castelfranco costruisce il suo melancolico ed effimero monumento al dio Pan⁵.

Un monumento (inteso letteralmente come “segno di memoria”) costruito su una base di complessità simbolica tale da formare un viluppo inestricabile⁶  con la contemporaneità, che lo risucchierà nella sua gora. Ma, a Giorgione, Tiziano deve molto di più: la profonda rimeditazione sull’uomo, che, alla prematura morte del maestro, consegna all’allievo quasi coetaneo (o almeno in questo modo si presenta lo stesso Tiziano, adombrando così un ruolo da comprimario e non da subalterno, il che basta a comprendere quale sia l’abilità del cadorino di costruirsi un ruolo a preciso uso e consumo del mercato) lo scettro del Rinascimento. E così, seppur abbeveratosi alla stessa fonte, per segnare la distanza col maestro, l’allievo userà tutti gli artifizi tecnici e inventivi a sua disposizione: quelle di Tiziano sono da subito figure spettacolari, che balzano dal muro appena affrescato per spingere nell’oblio della “normalità” le dimesse rappresentazioni di Giorgione (eloquente l’esempio della Giustizia e della Nuda del Fondaco dei Tedeschi).

Ma in realtà sarà il segno pittorico a spingere il più giovane verso il traguardo della storia con venti incollature di vantaggio (Flavio Caroli parla di una pittura che deve essere misurata “per metri”, diversamente da quella di Giorgione, che si misura invece “per centimetri”) a decretarne la vittoria.

Sarebbe troppo lungo discutere qui dell’abilità del maestro nel costituire una propria selezionata e fedele clientela, anche lasciandosi andare a qualche “premurosa” calunnia rivolta all’arte dei colleghi più dotati (sarà il caso di Lorenzo Lotto, che pagherà il prezzo più caro, del Pordenone, e perfino dell’allievo Paris Bordone), o della sua indefessa opera di creatore di un nuovo status per l’artista: d’ora in poi non più “mestierante”, ma “professionista” dell’arte, addirittura dell’origine di una rivoluzione copernicana all’interno della dinamica che lega artista e committenza. Dinamica che da ora si chiamerà “mercato” (cioè la nuova fase dell’arte moderna). Argomenti tutti che meritano una trattazione a parte. Possiamo semplicemente affermare che gli esiti figurativi costituiscono ulteriore riprova della duratura fortuna cui l’operazione era destinata⁷.

Ciò fino al momento in cui, mentre il maestro cadorino dimostra di cavalcare ancora con veemenza belluina il settimo decennio della sua lunga e prolifica vita (siamo intorno al 1566), si sente un’esigenza più profonda: il momento in cui (secoli più tardi, rivelerà magistralmente nei suoi film Bergman) giunge fatalmente il confronto con il senso stesso dell’esistenza. E’ allora che torna, salvifica, la pullulante simbologia di Giorgione, e la profonda meditazione sulla idea fisiognomica.

Si presenta così l’Allegoria della Prudenza, un sorprendente saggio che individua in una particolare e attenta lettura delle teorie fisiognomiche contemporanee, in particolare rispetto al tema dello zoomorfismo⁸,  la “chiave universale” della verità della vita umana⁹.

Nella parte bassa del dipinto trovano allora posto i volti di un lupo, di un leone e di un cane, con le fauci appena dischiuse, pronte a sbranare, al di sopra dei quali compaiono tre ritratti di proverbiale solidità (verrebbe da dire autoanalisi, se non fosse che a Freud mancano ancora tre secoli), raffiguranti rispettivamente un anziano, un uomo maturo e un giovane. Sopra figura il motto EX PRAETERITO / PRAESENS PRVDENTER AGIT / NI FVTVRA(M) ACTIONE(M) DETVRPET (sulla base del passato / il presente prudentemente agisce / per non guastare l’azione futura), un ammonimento che invita alla Prudenza, intesa come saggio agire, le cui parole “passato”, “presente” e “futuro”, quasi suggello iniziatico, incoronano ciascun volto di ulteriore significato.

L’interpretazione della Prudenza come capacità di “memoria, intelligenza e previsione”, è frutto di una complessa tradizione iconografica, diffusa in particolare tra XIV e XVI secolo, che affonda le radici ancora nella tradizione classica, e verrà ripresa dalla Scolastica in epoca medievale. La fonte antica per comprendere il significato dei tre animali, attributi della Prudenza, alla cui interpretazione lo storico tedesco Erwin Panofsky dedica un’approfondita analisi iconologica, che prende forma nel fondamentale saggio del 1926¹º, è da ricercarsi in una testimonianza presente nei Saturnalia di Macrobio, secondo la quale il lupo rapisce i ricordi come prede, il leone è fulmineo e violento, mentre il cane accarezza speranze future¹¹.

Secondo questa visione derivante dai Saturnalia, questo emblema tricefalo figura cinto da un serpente, simbolo del tempo ciclico. Aveva in questo modo origine la figura “mostruosa” che compare accanto a Serapide, divinità dell’Egitto ellenistico, nel santuario di Alessandria¹².

Tiziano si dimostra con ciò profondo conoscitore degli studi iconografici dell’epoca. Tra gli anni ’40 e ’70 del XV secolo nell’intera penisola si registra la fase di più intensa riflessione sulla philosophia naturalis, che continua a focalizzare i commenti scolastici al corpus aristotelico, con particolare attenzione ai Parva naturalia, tra cui il De memoria et reminiscentia, al quale si affianca significativamente il De animalibus¹³.

Proprio grazie a questa intima vicinanza alla riflessione fisiognomica, Tiziano potrà riversare, nelle tre teste maschili, anche un secondo grado di significato allegorico: quello delle Tre età dell’uomo. La visione dell’arco vitale umano secondo una suddivisione tripartita, la si ritrova già largamente diffusa nel mondo classico (basti pensare al famoso enigma posto dalla Sfinge a Edipo), e sarà adottata anche dallo stesso Aristotele, per essere ripresa in età medievale dalla tomistica, fino a giungere all’epoca moderna grazie, ancora una volta, al provvidenziale intervento dantesco, che nel Convivio (IV, 27), scrive: «Conviensi adunque essere prudente, cioè savio: e a ciò essere si richiede buona memoria delle vedute cose, e buona conoscenza delle presenti, e buona provvedenza delle future».

Lo stimolo interpretativo che suscita la scoperta di modelli iconografici antichi, o di linguaggi figurativi di diversa cultura, che appaiono allora ammantati di una misteriosa e affascinante complessità, come quello proveniente dall’oriente ellenistico, è uno degli impulsi che collaborano maggiormente alla nascita e allo sviluppo dell’Umanesimo. Non suscita stupore allora ritrovare anche in un testo di Petrarca (Africa) una simile attenzione al simbolo tricefalo, che descrive dettagliatamente avvinto dal serpente, ricavandone un simbolo di Apollo, posto in relazione con lo scorrere del tempo¹⁴.

Il superbo magistero di Tiziano sta nel dare perfetto esito formale attraverso tale complessità semantica attraverso un segno pittorico assolutamente coerente e pienamente adeso al significato proprio dell’opera. Basta prendere per esempio in esame quello “primario” della memoria.

Sappiamo che un legame concettuale fondato sulla memoria come termine medio, era stato definito già nel 1235 dal trattatista bolognese Boncompagno da Signa, come “glorioso e ammirevole dono di natura, per mezzo del quale rievochiamo le cose passate, abbracciamo le presenti e contempliamo le future”¹⁵.

Una codifica probabilmente nota anche ad Alberto Magno (cui si deve per primo l’esegesi medievale del “testo” aristotelico, e da cui deriverà un profondo insegnamento sull’opera di San Tommaso), che riporta nel suo De bono l’idea di un trasferimento dell’ars memoriae dal contesto retorico al piano morale, in quanto parte della virtù civile della prudenza, dichiaratamente ispirata al criterio della recta ratio¹⁶,  Alla luce dell’Ad Herennium (così chiamata allora la Rhetorica Nova, fino a tutto il XV secolo ritenuta autografa di Cicerone) la memoria viene da Alberto concepita come “luogo su cui si estende, e da cui trae alimento la proiezione dell’atto deliberativo”, rendendo possibile, in una chiave squisitamente intellettuale, “l’esercizio della providentia”¹⁷.

Facendo leva sulla differenziazione aristotelica tra memoria, connessa alla sfera della sensazione, e reminiscentia, cui razionalità e intenzionalità conferiscono il carattere di una specie di ricerca¹⁸, il domenicano tedesco perviene a identificare quest’ultima con “l’arte” esposta da Tullio, ed è quindi in grado di individuare nell’attività soggettiva del reminisci il processo di elaborazione e la corretta disposizione delle imagines agentes. L’auctoritas di Tommaso serve poi a confermare e avvalorare gli insegnamenti di Aristotele: se all’uomo non è dato intelligere «sine phantasmate», ovvero l’intento didascalico attinge pregnanza al supporto visivo nell’enfatizzare la rigida antitesi tra vizio e virtù, e l’inesplicabile verità del dogma, facilitandone la penetrazione nelle coscienze.

Ecce Allegoria Tiziani! La facoltà della memoria, che trova così un ruolo centrale nello spettro di concordanze tra lo Stagirita e l’anonimo autore dell’Ad Herennium, istituzionalizzato poi dall’Aquinate, stabilendo con ciò lo statuto paradigmatico della mnemotecnica scolastica, trova posto allo stesso modo, e con lo stesso ruolo di “chiave semantica”, come un incunabolo, all’interno della rappresentazione del maestro cadorino. Ma c’è di più: la gerarchia in cui viene così a porsi l’ars memoriae, conoscerà una radicale trasformazione allorquando il convergere di Kabbalah ed ermetismo, proprio di alcune espressioni del pensiero rinascimentale muterà la sua fisionomia in quella ben più ambiziosa di “clavis universalis”¹⁹.

E’ allora che tornerà fondamentale per Tiziano l’insegnamento e la vicinanza di Giorgione a tale complessa simbologia. Se vogliamo poi trovare un riscontro anche sulle fonti letterarie a cui il giovane allievo si sarà potuto abbeverare, figura senz’altro l’Ars memorativa di Iacopo Publicio, edita a Venezia nel 1482 in appendice alla Oratoriae artis epitome: è il primo trattato sulla memoria dato alle stampe, con ispirazione prevalentemente tomista. Nove anni dopo appare, sempre a Venezia, Phoenix, un testo con il quale Pietro da Ravenna consiglia di ritirarsi in un luogo intimo (nell’esempio una chiesetta semideserta) per consentire alla intensità dell’eccitazione prodotta dalle immagini il debito risalto. Testi entrambi che appartengono però ancora al versante conservatore della mnemotecnica tardo-quattrocentesca, lontano dalle grandi innovazioni che Pico della Mirandola prefigurava. Tuttavia risulta interessante un particolare aspetto, che traspare dalla tesi di Publicio nel presentare la questione di come l’intelletto renda la memoria “chiara e abile”: seppur attraverso una dinamica piuttosto complessa (che si dipana per quattro documenta, ciascuno analizzato per quattro fasi), la derivazione dal De memoria et reminiscentia di Aristotele suona immediata, ma ciò che colpisce è l’originale definizione che qui si dà della memoria: quella di “firma retentio et conservatio rerum imaginum”. Quella che il prensile segno pittorico di Tiziano verifica immediatamente, nell’autoritratto senile.

C’è infine un ultimo elemento probatorio, che giunge quando Panofsky riesce a dare nome ai tre volti: è lui ad indicare nella rappresentazione dell’anziano l’autoritratto di Tiziano, che in questo modo si presenta dichiaratamente in veste di progenitore di una nuova dinastia di pittori; in quella dell’uomo al centro il figlio Orazio; e in quella del giovane il pronipote Marco Vecellio, probabilmente l’erede dotato di maggior talento (anche se il vero erede di Tiziano resta unicamente Tintoretto, che infatti l’anziano maestro si premura avvedutamente di sconfessare).

Si coglie così, accanto al tema simbolico, l’emergere dell’intento autobiografico-familiare, che costituisce una delle caratteristiche della tarda produzione dell’artista. E ancor più forte in quest’opera, destinata a rimanere nella casa avita, a sigillo dell’intera famiglia, e a immagine della saggia prudenza con la quale l’anziano maestro aveva provveduto al suo futuro.

Al di là della complessa iconografia e degli intensi, sentiti, significati iconologici, ciò che non cessa di sorprenderci è però soprattutto la capacità del pittore di far aderire ciascuna figura animale al relativo volto umano, in una sorta di “armonia parallela” – così l’avrebbe definita Cezanne – grazie a una pittura tanto estrusiva quanto la forza lavica, che fa potentemente emergere il “carattere primigenio” segretamente custodito nell’animo umano.

Nella suggestione cromatica del segno tenuto e strisciato (definito spesso “non finito”, in lampante, quanto fuorviante analogia con quello michelangiolesco), che domina la sua ultima produzione pittorica, l’anziano maestro lega tra loro le due diverse triadi, quella umana e quella animale, derivate dalla iconografia antica, per farle diventare un emblema originale, mediante il quale induce a meditare sulla parabola temporale umana, e sulle virtù necessarie per affrontarne le sorti.

Ma è la luce la protagonista della scena, che presentifica l’allegoria, attraverso un lento sorgere da un tono spento, aurorale, che incornicia i capelli canuti appena debordanti dal rosso copricapo sulla testa del vecchio, per poi crescere in un pausato progresso chiaroscurale sul volto maturo di fronte, fino a stagliarsi aperta e meridiana sul profilo attento del giovane.

E’ così che “l’allegoria filosofica e letteraria può trovare un capillare inveramento nella forma figurativa”²º. Attenzione: “capillare” deve essere letto in senso letterale, sta per “sanguigno”. E’ questa la cifra per comprendere a fondo la pittura di Tiziano. Il famoso rosso che tutti ostentano di ammirare davanti alle sue tele in ogni museo del mondo, non è altro che la potenza vitale che fluisce nascosta nelle arterie, dando corpo all’anima, e appare poi sul volto di ciascuna figura, dopo essersi appunto ben imbevuta di vita.

Ne scaturisce, proprio nelle opere dell’ultimo periodo, in cui Tiziano sente la vita che sta per scemare, la più alta vertigine tecnica (così come in Michelangelo), una loquacità del segno che dà stupefacenti esiti di pittura quasi gestuale, in cui la prensilità del pigmento strisciato collabora dinamicamente a donare un ulteriore grado di forza espressivo all’immagine simbolica, che ne fissa il significato nell’intera allegoria: quella della memoria. Colore come memoria: nell’allegoria, non solo il soggetto, ma la tecnica stessa collabora a creare l’allegoria, e unendo segno pittorico a idea di prensilità, attraverso una pennellata allungata e avvinghiante, la pittura sublima se stessa in elemento di “memoria”.

Quindi il Cinquecento può a ragione trovare posto entro la teca di cristallo sotto cui, grazie al colore, si preserva il sogno e l’incanto di Venezia; ma solo quando, per colore, s’intenda: “luce in materia di pigmento”!

Note
1 Vorremmo qui sinteticamente precisare la differenza della dinamica visiva messa in campo dalla pittura del Nord rispetto a quella Toscana, di cui si è già parlato nell’editoriale del n.1, cui rimandiamo. Si può individuare, in questa rappresentazione nordica del visibile, un percorso di lettura ricorrente dell’opera “in diagonale”, ciò a dire una “direttrice narrativa” privilegiata, lungo la quale corre la luce, che guida come un deittico lo sguardo dell’osservatore. Questa direttrice (che muove nel comune senso di lettura da sinistra verso destra) è la linea lungo cui si dipana quella che potremmo metaforicamente definire (nella sua accezione di “forma simbolica”) “prospettiva luminosa” o “prospettiva narrativa”.
2 Come si è parlato di “memoria dell’acqua”, si può qui parlare di memoria del colore: inizia ora, con Tiziano, un nuovo ampissimo universo semantico tutto incluso nel corpo del colore, in quanto materia pittorica assoluta. Grazie a questa conquista il cui merito è davvero, per una volta, esclusivamente di Tiziano, Van Gogh spremendo il colore direttamente dal tubetto, potrà dire, tre secoli dopo, di poter così rappresentare le “terribili passioni umane”.
3 Cit. dalla monografia dedicata a Tiziano, di Flavio Caroli e Stefano Zuffi, RCS Libri, Milano, 2000, p.19
4 Il che può significare idea di realtà, come sarà intesa da tutta l’arte che avrà come principio primo la mimesis, fino all’ Impressionismo stesso, o anche l’esatto opposto, e questo sarà per Tiziano, ovvero la creazione di una realistica “finzione scenica”.
5 F. Caroli, e S. Zuffi, Tiziano, RCS Libri, Milano, 2000, p.20
6 I nodi critici nell’interpretazione dell’opera di Giorgione a oggi insoluti sono ancora moltissimi, anche per una non remota ipotesi che il pittore fosse di origine ebrea, e si presenterebbe quindi opportuna una adeguata rilettura del testo figurativo del maestro veneto in chiave Kabbalistica
7 La celebre leggenda che racconta del gesto dello stesso Carlo V – il più grande signore sulla terra, e una terra tanto vasta da non tramontarvi mai il sole – che, caduto il pennello di mano a Tiziano, si china a raccoglierlo, intende certamente consacrare il ruolo dell’artista, che domina con l’arte un potere assoluto, superiore a qualsiasi potere terreno. Ma, come in ogni leggenda che diventa “mito” – nel senso di mythos (contrapposto a lògos), in cui l’espressione è connaturata all’esserenza – c’è anche un secondo grado di lettura, un significato mitico, appunto, che si costruisce intorno agli elementi primari: l’artista, l’imperatore, cioè i due poteri, e il pennello. E’ questo il vero soggetto del mito, che assimila appunto il pennello a uno scettro, e coglie il dominio assoluto di Tiziano: quello sulla pittura. Un oggetto archetipico – basti pensare a come cambierebbe la cosa se si fosse trattato di una mina, o di un carboncino – che ricorre nell’immagine dell’arte di tutti i tempi, connotandola in maniera felice o drammatica, e consegnandocene così un’idea tragica o una volontà vitale: c’è un filmato paradigmatico in proposito, nel quale compare un anziano Renoir con i pennelli legati alle mani pesantemente colpite dall’artrite, nell’esigenza primaria e nella volontà ultima di continuare a dipingere, che è per sempre entrato nella storia, grazie a questa leggenda, “il pennello di Tiziano”.
8 Tema che tra breve troverà forma statuita nel trattato Humana physiognomonia di Giovan Battista Della Porta.
9 Per lo sviluppo approfondito di questo tema rimandiamo al saggio di Paolo Rossi, Clavis universalis, Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Il Mulino, Bologna, 1983.
10 E. Panofsky, «L’allegoria della prudenza» di Tiziano: poscritto, in Il significato delle arti visive, trad. it., Torino, 1962, pp.149-68.
11 Secondo l’interpretazione degli Hieroglyphica di Pierio Valeriano (1556), opera di vasta erudizione, il significato allegorico dell’emblema tricefalo è leggermente diverso, e presenta il lupo come figura che si nutre dei ricordi del passato; il leone come la forza con la quale occorre condurre le attività presenti; infine il cane, capace di adulare, come colui che guarda con spensieratezza al futuro.
12 Il motivo di un tricipite zoomorfo cui è avvinghiato un serpente ricorre anche in Valeriano, e in Ripa, nei cui manuali iconici si evidenzia il valore etico del rapporto tempo-prudenza.
13 Cesare Vasoli, La dialettica e la retorica dell’umanesimo. Invenzione e metodo nella cultura del XV e XVI secolo, Feltrinelli, Milano, 1968 e ss.
14 La popolarità di tale enigmatica raffigurazione, si diffonde poi con la scoperta degli “Hieroglyphica” di Horapollo (1419). Da allora le citazioni della misteriosa figura egizia descritta da Macrobio si moltiplicano: se ne parla nella Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna (1499), negli Emblemata di Andrea Alciati (1531), e in altre opere ancora. Se ne diffondono altresì raffigurazioni grafiche: citiamo solo la Allegoria del Tempo, incisione di Hans Holbein il Giovane, realizzata per il frontespizio di un libro (1521). Nei già citati Hieroglyphica di Pierio Valeriano (1556) – opera di vasta erudizione che riprende e amplia il testo di Horapollo – la figura tricipite, non più legata a quella del serpente, viene esplicitamente ricondotta al tema della Prudenza, e rappresentata attraverso il triplice emblema del lupo-leone-cane. Sotto questa forma si ritroverà anche nella celebre Iconologia di Cesare Ripa (1643), ove una delle immagini del Buon Consiglio è rappresentata con la figura tricipite nel palmo della mano sinistra. Inoltre un’ampia analisi di carattere storico-iconologico è stata dedicata alla rappresentazione del Tempo da Erwin Panofsky, a partire dagli archetipi di origine classica alla rielaborazione simbolica rinascimentale. Si veda per ciò E. Panofsky, Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento, trad. it., Torino, 1975, pp.89-134.
15 A. Gaudenzi, Rhetorica Novissima, Bologna, 1891, p.275.
16 Paolo Rossi, Immagini e memoria locale nei secoli XIV e XV, in «Rivista critica di Storia della Filosofia», XIII, 1958, f.3, p.176, nota 59. Qui si indica, accanto alle altre già menzionate dal Panofsky, anche il De bono nel novero delle probabili fonti del Vecellio.
17 Alberto Magno, Il bene, a cura di A. Tarabocchia Canavero, Milano, 1987, tr.IV, q.II, artt. 1 e 2, pp.522-25 e 525-39.
18 Aristotele, De memoria et reminiscentia, in Opere, vol.IV, trad. it. di A. Russo e R. Laurenti, Roma-Bari, 1972, p.252.
19 Ci riferiamo al titolo della monografia di Paolo Rossi, Clavis universalis, Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Il Mulino, Bologna, 1983, incentrata sulla riscoperta rinascimentale del sistema lulliano, in rapporto al quale si va configurando lo stretto legame tra Kabbalah, combinatoria e mnemotecnica nell’ideale della pansofia cinquecentesca.
20 F. Caroli, Storia della Fisiognomica, Mondadori Electa, Milano, 2002, p.56

Bibliografia di riferimento
F.A Yates, L’arte della memoria, Torino, 1972
E. Garin, L’umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento, Roma-Bari, 1978, in part. pp.119-129
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