Pietro Bembo artefice del rinascimento

Francesca Selvaggio Bottacin

Quando si decide di utilizzare il proprio tempo per andare a vedere una qualsiasi mostra, la domanda che la mente anticipa sempre è: “cosa ci sarà da vedere, e come la visita potrà essere proficua?”. Nel caso della mostra che Padova ha dedicato a uno dei suoi più illustri cittadini del passato (a quasi mezzo millennio di distanza dalla morte), Pietro Bembo, a visita conclusa, la risposta emerge assai soddisfacente e articolata.

Giulio Beltramini, Davide Gasparotto e Adolfo Tura, infatti, sono riusciti a mettere in scena la vita del Bembo (1470-1547) soffermandosi sul ruolo chiave che il Nostro ebbe a cavallo di due secoli per i quali la cultura italiana viene apprezzata ancora oggi in tutto il mondo, il Quattrocento e il Cinquecento.

Pietro Bembo e l'invenzione del Rinascimento

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Il viaggio che i curatori hanno progettato mostra la personalità poliedrica di Pietro, e il suo merito più grande, ovvero quello di riuscire a cogliere, e spesso anticipare, i grandi mutamenti storici e culturali che hanno fatto del Rinascimento italiano un momento magico per la cultura di tutta Europa.

All’interno delle sale del Palazzo del Monte di Pietà il racconto inizia e si sviluppa seguendo la vita stessa del Bembo, lasciando intuire, già dalle prime sale l’aria che Pietro respirava fin dalla sua infanzia. Figlio di Bernardo, patrizio e diplomatico veneziano, il giovane Bembo cresce immerso nella letteratura e nell’arte, grandi passioni del padre, il quale, pur rimanendo fedele alla più grande e nobile attività degli uomini del suo rango, la politica, non disdegna collezionare oggetti artistici di pregiata fattura. È il caso, per esempio, del dittico di Memling, riunito in occasione della mostra, o della copia di Terenzio che Angelo Poliziano, l’illustre letterato fiorentino, chiederà di visionare nel 1491.

Poliziano fu un vero e proprio mentore per il giovane Pietro, poco incline, a differenza del padre, a dedicare la sua vita al servizio della Repubblica, prediligendo, invece, gli studi letterari e umanistici, come lo stesso Poliziano ci racconta, in uno scritto datato 29 giugno 1491 nel quale descrive un giovane Bembo intento ad aiutarlo nello studio dell’opera di Terenzio. Sarà proprio la conoscenza del Poliziano che indurrà il Bembo a trasferirsi a Messina per approfondire i suoi studi letterari e imparare il greco. Il giovane patrizio oramai ha scelto la sua strada.

Nel Giovane con libro verde di Giorgione, che si apriva agli occhi nella sala successiva, si coglie un altro aspetto molto importante della vita di Bembo. Il Giovane ritratto dal Maestro va letto non tanto per la maestria pittorica, almeno in questa sede, quanto più per il particolare del libro verde, che rimanda ancora una volta all’anticipazione dei tempi che contraddistingue la vita di Pietro. Egli, infatti, con Aldo Manuzio, è l’autore di un’invenzione destinata a divenire parte integrante della vita degli uomini del suo tempo e di quelli a venire: il libro tascabile. Sino a quel momento, come noto, i testi della letteratura erano di grande formato, e, perlopiù, si trovavano nelle biblioteche delle università come volumi di studio collettivo. Manuzio e Bembo, il primo editore, il secondo consulente editoriale, si fanno firmatari di una vera e propria rivoluzione culturale. I due volumi esposti in mostra, un Petrarca e un Virgilio sono caratterizzati, non solo dal piccolo formato, ma anche dalla mancanza di note a cornice del testo dell’autore; la rivoluzione che ne consegue si identifica alla luce di due aspetti. Da una parte il libro diviene un oggetto intimo, da leggersi nella tranquillità più assoluta, un modo per evadere dalla vita quotidiana, dall’altra esso acquista una sua particolare veste grafica, e di design diremmo oggi, caratterizzata dall’impaginazione e dall’uso di una grafia pensate ad hoc.

Pietro Bembo e l'invenzione del Rinascimento

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La letteratura oramai è per il Bembo una vocazione di vita, e le opere che vedranno la luce sul finire del secolo si inseriscono a pieno titolo all’interno di uno spirito ben più vasto delle sole pagine scritte. Ci riferiamo agli Asolani, opera pubblicata a Venezia dallo stesso Manuzio nel 1505, nella quale si respira l’aria delle corti italiane di inizio secolo. L’opera letteraria di Bembo fa da specchio a ciò che negli stessi anni stava avvenendo in campo pittorico, in particolare nelle opere giorgionesche portate qui per l’occasione. Se da un lato il Bembo racconta di un amore cortese, “terreno”, Giorgione nel suo ambito ritrae personaggi i cui moti dell’anima si palesano nelle movenze e negli sguardi dei due giovani, anticipando le tematiche della celebre opera Amor Sacro Amor Profano di Tiziano, databile un decennio dopo. Si tratta, dunque, di un altro eccelso esempio di dialogo tra livelli artistici diversi, tra gli scritti e la vita stessa del Bembo e il suo tempo, che sottolinea ancora una volta come il Nostro riesce a farsi portavoce di una nuova cultura, di un cambio generazionale che si stava sviluppando in quegli anni. Come ben sottolineato da Campbell, infatti, le opere del Giorgione non sono da intendersi come corredo pittorico all’opera di Bembo, quanto piuttosto come sublimi rappresentazioni, ciascuna nel suo ambito, di quella cultura umanistica nella quale i due erano immersi e di cui si fanno oggi eccelsi rappresentanti.

Ma gli Asolani furono solo il primo dei successi che regalarono fama e notorietà a Pietro, aprendogli le porte di un mondo intriso di una fervida vivacità intellettuale, quello delle corti, all’interno delle quali grandi signori illuminati (emblematico è l’esempio di Lorenzo il Magnifico a Firenze che lo stesso Pietro avrà modo di conoscere durante uno dei viaggi del padre) diventavano committenti di artisti di cui ancora oggi si apprezza la magnificenza.

Percorrendo le sale della mostra ciò che si coglie, oltre alla splendida fattura delle opere esposte,  è sicuramente il tessuto di relazioni che soggiace alle opere stesse, e che vedono nel Bembo un denominatore comune.

I rapporti amicali che caratterizzeranno d’ora in avanti la vita di Pietro si consolidano già a partire dal 1506 quando abbandona la sua città natale, Venezia, per trasferirsi in una delle corti più fervide del tempo; egli, infatti, eleggerà a nuova dimora la corte di Guidobaldo di Montefeltro e di Elisabetta Gonzaga a Urbino. Qui assaporerà l’affascinante vita di corte contraddistinta da un gusto nuovo, elegante e sofisticato che troverà nelle opere del Perugino, come la Maddalena qui esposta, una delle sue massime espressioni. Ma anche le amicizie letterarie non vengono meno, come fu nel caso di Baldassarre Castiglione, conosciuto proprio negli anni di Urbino, che non mancherà di citarlo nella sua celebre opera  Il Cortegiano, che anche in questo caso si trova all’interno delle sale, in una mirabile versione, nell’esemplare finemente decorato da Grolier.

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Il ritratto marmoreo della marchesa d’Este consente però di fare un doveroso passo indietro collocando nel 1505 una visita del Bembo presso la corte di colei che venne definita «la prima donna al mondo» (Cfr. G. Beltramini, Audioguida della mostra, sala 3). Non si può certo tralasciare tale incontro, poiché è proprio alla corte d’Este, che Bembo avrà modo di vedere il celeberrimo Studiolo della marchesa, intriso di quel gusto dell’epoca, che prende vita nelle opere del già menzionato Perugino o del Mantegna.

Se la corte di Mantova caratterizzò solo una breve parentesi nella vita del Bembo, la sua permanenza alla già menzionata corte di Urbino fu più duratura (dal 1506 al 1511), e lo portò a conoscere colui che sarebbe diventato uno dei massimi esponenti del suo tempo in campo artistico, Raffaello. Già nel 1507, Pietro lo descriveva come «un gran maestro della pittura», nonostante fosse ancora agli esordi, e tale amicizia fosse destinata a rafforzarsi solo negli anni successivi, dopo che Bembo si trasferì nella Roma di Giovanni de’ Medici, papa Leone x, in qualità di segretario dello Stato Vaticano (Cfr. G. Beltramini, Audioguida della mostra, sala 3).

Salito al trono pontificio nel 1513, Leone x portò avanti l’età d’oro già iniziata con Giulio II, dandole rinnovata vivacità. Figlio di Lorenzo il Magnifico ed educato da Poliziano, il giovane Giovanni crebbe all’ombra dei grandi ideali di mecenatismo e di quel gusto tipico delle corti settentrionali che contraddistinguono l’intero suo papato.

Camminando lungo le sale dedicate agli anni romani, il visitatore era colpito dalla diversità degli oggetti che si fanno metafora dell’estetica del tempo, consentendogli di guardare con gli occhi di Pietro la bellezza che lo circondava, a partire dallo splendido aspersorio in quarzo, che porta la firma di Valerio Belli, passando per la maestosità dell’arazzo raffigurante la Conversione di Saulo, su disegno dell’amico Raffaello, sino a giungere alle piccole tavole dello stesso Raffaello, raffiguranti l’una la Madonna con Bambino, Santa Elisabetta e San Giovannino, e l’altra l’allegoria della dovizia.

Tutto concorre a costruire quella storia, soprattutto delle idee, di cui Bembo stesso è protagonista, e ancora una volta sono le opere a raccontarcelo. Come nel caso del doppio ritratto dell’amico Raffaello, che immortala Angelo Beazzano e Andrea Navagero colti nel vivo di una conversazione, nella quale, forse, l’argomento è quello che si apre poco dopo ai nostri occhi sotto forma di schizzi architettonici. Bembo, Raffaello, Beazzano, Navagero e Castiglione, infatti, sono i promotori di un concetto a noi contemporanei molto caro, ovvero la necessità di tutela del passato affinché esso possa trasmetterci degli insegnamenti da traghettare nel nostro futuro,  sia in campo artistico quanto linguistico. E se da un lato Raffaello e Castiglione propongono campagne di minuziosa catalogazione delle opere antiche al fine di costruire regole comuni per le architetture avvenire, lo stesso farà Bembo nel testo letterario che vede la luce proprio durante gli anni romani. Trattasi, infatti, delle Prose in volgar lingua, testo nel quale Pietro mette in atto lo stesso pensiero, ovvero quello della necessità di guardare all’antico per costruire una lingua comune in tutta Italia, che superi le differenze dei singoli stati in cui si divideva la penisola. Gli schizzi di Raffaello diventano metafora del testo di Bembo in quanto entrambi mirano a costruire una grammatica che stia alla base del pensiero futuro.

Il momento di straordinaria creatività che vede Bembo protagonista nella Roma di Leone x, però, è destinato a interrompersi presto, nei primissimi anni del 1520, quando sopraggiunge inaspettata la morte dell’amico Raffaello, prima, e del pontefice, poi. Pietro, oramai poco più che cinquantenne, intuisce che il suo soggiorno romano non ha più nulla da offrirgli. Decide quindi di ritirarsi a Padova, dove si dedicherà allo studio e agli ozi letterari, in una città avvezza, soprattutto nei primi decenni del Cinquecento, a tali attività.

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A Padova Pietro acquista una proprietà a ridosso di Santa Sofia, oggi via Altinate, e la trasforma in un vero e proprio luogo dedicato alle muse: il museo. La lezione appresa prima a Mantova e poi a Roma viene messa in atto nelle sale del palazzo patavino, che diventano la Mecca della stretta cerchia di amici eruditi di Bembo. Come lo Studiolo di Isabella, “la casa delle muse” di Pietro diviene luogo atto a ospitare eccelse forme d’arte, soprattutto arte antica, che aprono al dialogo continuo con la storia.

Passeggiando per le sale dedicate alle collezioni bembiane del suo studiolo, si respira appieno lo spirito che animava tali collezioni. Pietro nella sua raccolta riunisce oggetti tra i più disparati. Dalle monete ai dipinti, tra cui un magnifico san Sebastiano di Mantegna, passando per i busti e le statue di manifattura romana, tutto concorreva far rivivere l’atmosfera rinascimentale in casa di Pietro. Accolti dal testo di Marcantonio Michiel, che a cinque secoli di distanza permette di ricostruire la vasta collezione di Bembo, poiché ne fu testimone oculare in diverse occasioni (almeno due, la prima antecedente al luglio 1526 e la seconda attestata dopo il 1535), ci si ritrova immersi nel suo stesso mondo. È da sottolineare, infatti, che Bembo non costituì la sua raccolta solo per il gusto di circondarsi di splendidi manufatti, ma per intessere con loro un dialogo continuo, intimo e personale condiviso solo con pochi conoscenti che avevano la fortuna di poter frequentare il ristretto circolo culturale presso la sua casa.

Come era già avvenuto anni prima nella letteratura, che proprio con Pietro si era liberata del fardello delle note a cornice del testo scritto, a favore di un confronto personale tra autore e lettore, così le statue, le monete, i dipinti collezionati si facevano vivi davanti agli occhi di Bembo e dei suoi ospiti, raccontando loro in prima persona le vicissitudini degli antichi fasti di una Roma remota, la quale fu modello per l’autore della Prosa in volgar lingua. Strumento di studio, però, non era solo l’arte antica, ma anche una serie di altri oggetti, come, per esempio, dispositivi scientifici e tecnici, oggi perduti, quali globi, astrolabi, e la mensa isiaca. Quest’ultima è di particolare interesse poiché rappresenta un gusto per il mondo egizio che si andava diffondendo nella Roma di quegli anni, e che Bembo non poteva non rappresentare nella sua collezione.

Gli oggetti presenti nella raccolta vanno letti, dunque, in un’ottica di studio e conoscenza del mondo, tipica del pensiero rinascimentale, e che ancora oggi viene riconosciuto come verità assodata, che vede nel Bembo un eccelso capostipite. Essi, inoltre, facevano da cornice alla sua raccolta più preziosa, il suo più sincero amore, quello verso la letteratura, che si sviluppava nella vasta biblioteca ereditata dal padre Bernardo, e continuamente arricchita dallo stesso Pietro nel corso della sua vita. Va aggiunto, però, a onor del vero, che la letteratura deteneva ancora un vasto primato nei confronti delle arti applicate, anche nel caso del Nostro, ma, nonostante ciò egli era comunque particolarmente affezionato alla sua collezione (come ci suggerisce il testamento redatto nel 1544 nel quale obbliga il figlio Torquato a non vendere o donare nessuno degli oggetti ivi presenti).

Se nel 1521, con la morte di Leone x, Pietro vede svanire la sua possibilità di diventare cardinale, negli anni successivi, più precisamente nel 1539, tale opportunità gli verrà fornita da papa Paolo III Farnese. Le polemiche a seguito di tale decisione non mancano, ma il progetto del nuovo pontefice è di ampio respiro e consente, oggi, di sottolineare nuovamente l’importanza che Pietro aveva raggiunto in veste di letterato e umanista. Se da un lato, infatti, molti sostenevano l’ineleggibilità a cardinale di Bembo, visti i suoi trascorsi amorosi  (celebre è la liaison con Lucrezia Borgia nei primissimi anni del nuovo secolo, qui testimoniata dalla ciocca di capelli della giovane duchessa che lei stessa regalò al Nostro), altri, come lo stesso papa, miravano a risollevare le sorti dello Stato Pontificio grazie a personalità di riconosciuto spessore intellettuale.

Anche se ormai la vita di Pietro stava volgendo verso il tramonto, non mancano le grandi personalità con le quali sarà capace di intessere cospicui rapporti, o fortificarne altri. È il caso per esempio di Tiziano, che dedicherà all’anziano cardinale uno splendido ritratto che accoglieva il visitatore in una delle ultime sale. Il Maestro veneziano era già amico di Bembo, per merito del padre, come testimonia l’opera dal titolo Tobiolo e l’angelo, oggi alle Gallerie veneziane, nella quale compare lo stemma della famiglia Bembo: l’opera probabilmente si riferisce a un ex voto di Bernardo Bembo. Il ritratto del Tiziano coglie il cardinale quasi come fosse stato appena interrotto durante una sua orazione, si veda a tal proposito il gesto della mano, come a tramutarlo in uno di quei grandi oratori antichi tanto ammirati da Pietro. Nell’opera di Washington si coglie appieno il nuovo rigore della vita consacrata del Bembo, ed essa fa da contraltare al piccolo Cristo di Michelangelo e alle splendide pagine dell’opera in versi di Vittoria Colonna, esposte nella sala successiva. Queste ultime sono lo specchio delle nuove ideologie che si andavano sviluppando in quegli anni, all’interno del circolo spirituale animato dalla stessa nobildonna, di cui Pietro si faceva portavoce, e che miravano ad un rinnovamento spirituale all’interno della Chiesa, verso un maggiore rigore religioso.

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Alla fine della vita del Bembo si giunge davanti alla statua marmorea di Danese Cattaneo, scolpita per il cenotafio all’interno della Basilica del Santo.  Cercando di rispondere alla domanda posta all’inizio di questo articolo, non si può che concludere che il percorso della intera mostra ha proposto felicemente molteplici livelli di lettura, mediante opere di una bellezza straordinaria. Ma il loro vero fascino va al di là della fattura artistica. Entra in gioco infatti un sottile filo, anzi molteplici fili, che le mani e l’intelletto del Bembo hanno saputo tessere durante l’intero arco della sua vita. Una ragnatela di relazioni amicali, testimoniate attraverso l’attività intellettuale e le raccolte di Pietro Bembo. Relazioni che hanno generato quelle idee e quelle innovazioni che hanno reso grande il Rinascimento italiano, e che non possono essere scinte dalla personalità di Bembo, avendogli consentito di farsi egli stesso sintesi di un’intera epoca.

Fulcro del percorso erano infatti le sale della mostra dedicate alla sua tanto amata collezione del palazzo patavino, che si fa metafora dell’intera vita di Bembo, durante la quale lui stesso è riuscito a sintetizzare i diversi modi di vedere il mondo dell’epoca. Egli, infatti, nel corso della sua esistenza ha saputo raccogliere l’eredità intellettuale di culture molto diverse tra loro: quella della Serenissima, legata al culto della natura, e maggiormente incline ai “moti dell’anima”, e quella di Roma, più votata, invece, all’intellettualismo e allo studio dell’antico, e, anche per tale originalità, ancora oggi alla figura di Pietro Bembo si deve moltissimo.

Bibliografia

AA.VV., Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento, catalogo della mostra a cura di G. Beltramini, D. Gasparotto e A. Tura, Marsilio Editore, Palazzo del Monte di Pietà, Padova dal 2 febbraio al 9 maggio 2013, Padova 2013; in particolare si vedano i saggi di S.J. Campbell, Pietro Bembo e il ritratto del Rinascimento e di D. Gasparotto, Il mito della collezione.

A. Mottola Molfino, Il libro dei musei, Umberto Allemandi & C., Torino 1991.

«Padova e il suo territorio», anno XXVIII, fascicolo 161, febbraio 2013, Tipografia Veneta, Padova 2013, in particolare R. Lamon, Il palazzo del Bembo in via Altinate.

G. Beltramini, Audioguida della Mostra, Palazzo del Monte di Pietà, Padova dal 2 febbraio al 9 maggio 2013.