L’estasi è pensiero?
Riccardo Panigada
Il tentativo della comprensione della propria natura costitutiva è per il pensiero una problematica che continua a spostarsi in avanti ogniqualvolta si guadagna terreno sul piano della logica. Ma quali sono le connessioni tra corpo e pensiero, e tra quest’ultimo e la metafisica?
Prima di affrontare, nei prossimi numeri, la parte dell’anatomia chiamata estesiologia (termine derivato dal greco antico αἰσθάνομαι, sovrapponibile al latino sentio), dandone qualche cenno, è necessario rilevare che, l’antichità avvertiva meno il bisogno di distinguere radicalmente il sentire con i sensi dal sentire con l’intelletto. Oggi, invece, i termini percezione, appercezione, e percetto, riferiti a qualcosa che riguarda una sfera intellettuale “superiore”, sembrano relegare il sentire a “semplice” fenomeno fisiologico, o all’uso corrente del termine in locuzioni del tipo “me lo sentivo che sarebbe successo” che indicano intuizioni o stati affettivi.
Percezione, appercezione, e percetto derivano appunto dal verbo latino percipio (composto da per-capio, rafforzativo di capio dal punto di vista semantico e teoretico) = intendere, accogliere in sé.
A questo punto si rende necessaria anche l’analisi della parola intelletto, che deriva dal latino intelligo (composto da intus/inter-legere = scegliere all’interno, scorrere con lo sguardo selezionando).
Evidentemente l’accogliere in sé, presume un’azione volontaria della quale anche gli autori dell’antichità erano perfettamente consapevoli. Ma, nella cultura greco-romana, in cui, ogni accadimento (comprese le umane sensazioni), erano inesorabilmente attribuite agli dei o al fato, sul quale gli stessi dei potevano intervenire solo in modo limitato, è il misterioso destino che rappresenta la massima, per quanto imperscrutabile, espressione della conoscenza.
Perciò nella letteratura antica, nel loro significato intrinseco i verbi sentio e αἰσθάνομαι sono collegati a una conoscenza “diretta”, che, in quanto tale, è indiscutibilmente superiore a quella che si può presupporre di raggiungere con l’intelletto umano.
Per cui le facoltà di percepire, e capire razionalizzando, sebbene “invenzione” della culla della cultura occidentale, possono servire solo in parte anche agli antichi filosofi, veri sapienti, che talora sono considerati alla stregua di semidivinità. Ma ciò solo quando rivelano il loro pensiero in modo apoftegmatico, quando si esprimono nei termini di quel tipo di conoscenza che dai pitagorici prende il nome di esoterica (poiché Pitagora rivelava solo alla più stretta cerchia di adepti – allievi esoterici – i più profondi significati misterici dei numeri).
Gli effetti di tale “conoscenza mistica”, di cui si diceva che gli antichi sapienti fossero dotati grazie a proprie qualità esclusive, si possono riscontrare anche in epoca contemporanea, in quelle espressioni di uso comune, in cui si avverte di avere sensazione di qualcosa, che empiricamente è impossibile da definire e dimostrare, ma da cui si sente di dipendere fortemente. Senza in questa sede voler trattare gli eventuali motivi di carattere superstizioso o psicologico per cui ciò avviene, è evidente che in tali situazioni il “sentire” risulta voler assumere una caratteristica gerarchicamente superiore al “percepire”. Questo tipo di sentire può derivare da esperienze pregresse di cui non si è più coscienti, ma anche da sensazioni “epidermiche”, “istintive”, e viene in questa sede trattato solo in quanto rivela una facoltà naturale di conoscenza.
La sensibilità, nella quale sono inclusi gli stati affettivi per il partner e i figli, è sviluppata in particolare negli animali che devono accudire la prole fino allo svezzamento, e soprattutto nell’uomo, che si è organizzato in società mediante la costituzione di nuclei famigliari.
La sensibilità, analogamente agli altri sensi, è quindi utile alla sopravvivenza individuale e alla conservazione della specie, e può essere considerata fonte di conoscenza per quanto riguarda le questioni maggiormente intime. Nella canzone della Vita Nova: “Donne ch’avete intelletto d’amore” Dante esprime la propria necessità di isfogar la mente comunicando a donne e donzelle amorose dotate appunto di tale sensibilità conoscitiva l’amore che sente per la sua donna quando il poeta pensa il suo valore.
Nella sensibilità c’è forse un rispecchiamento tra attività del conoscere e dato esterno che ne determina l’effetto, risvegliando la sensibilità.
Ipotizzando di descrivere la fisiologia dell’amore stilnovistico, si potrebbe dire allora che esso si esprime nel processo gnoseologico consistente nell’incontro tra i valori dell’amata e il riconoscimento dei medesimi da parte del poeta.
Ma se nella società occidentale, si può dire che solo in questi casi il sentire è inteso in relazione a una facoltà cognitiva-intellettiva, in oriente, è attraverso la sensibilità rivolta alla natura e al cosmo che si generano tanto le conoscenze riconducibili alle religioni apofatiche (1), quanto quelle utili all’indagine sulla realtà oggettiva e contingente.
In ogni caso, in occidente, in epoca moderna, la filosofia, e, in seguito, la psicologia, ma ancor più successivamente all’attuale descrizione analitica dei processi neurofisiologici, si è avvertita la necessità di distinguere il sentire dei nervi da quello dell’intelletto, indicando quest’ultimo esclusivamente con termini derivanti da percipio.
Il livello gerarchico dei verbi “sentire” e “percepire” si è dunque ribaltato rispetto all’epoca antica, indicando oggi il primo la semplice trasmissione di sensazioni circuitali, e il secondo i processi coscienti di selezione, memorizzazione ed elaborazione descritti nel capitolo precedente.
Se le neuroscienze non riescono quindi a spiegare il funzionamento di quanto gli uomini riescono ad avvertire dentro sé a livello definito “astratto”, per quanto indiscutibilmente in rapporto con i sensi (ovvero pensando, emozionandosi, comunicando e producendo cultura), non sembra ancora oggi di poter fare a meno, di indicare con un termine linguistico di intensione maggiormente forte l’operazione che individua a livello cosciente il dato sensibile. Forse al fine di accreditare sul piano della concretezza le prerogative irrinunciabili dell’autonomia dell’attività speculativa cosciente, e del libero arbitrio, le quali sfuggono totalmente all’analisi empirica. Attività speculativa cosciente, e libero arbitrio risultano infatti essere presupposti irrinunciabili per gli uomini appartenenti alla cultura occidentale, essendo eredi diretti del metodo speculativo della filosofia greca, e della tradizione ebraico-cristiana.
Resta un altro termine da analizzare: la parola estasi, che, pur assomigliando nel suono alla parola estesiologia, deriva etimologicamente da tuttaltra radice: ἐξ-ἵστημι, il cui significato è “uscire di sé”. Niente a che vedere, quindi, nemmeno con l’estetica. Paradossalmente anche quando si “va in estasi” si hanno delle sensazioni ben determinate, e si attivano delle aree del cervello perfettamente riconoscibili. Paradossalmente rispetto al significato del termine medesimo, perché se i sensi sono ciò che ci fa percepire di esserci, l’”uscire di sé” dovrebbe abolire le facoltà sensoriali. Ma è evidente quindi che ci si trova di fronte a una metafora.
In ogni caso, lo stato di estasi, a causa della sua stessa eccezionalità, non può certo essere considerato strumento conoscitivo di qualche percorso fisiologico-sensoriale normalmente iscritto nell’apparato funzionale umano.
Ma, prendendo spunto dall’aver utilizzato il termine “metafora”, è venuto il momento di osservare, che, se il dato sensoriale è il costituente primario del processo percettivo, la metafora (possibilità di trasporto del significato oltre quello primario) costituisce la base della libera attività del pensiero consapevole.
Pensiero consapevole, il quale è spontaneamente attivo in tutti gli individui umani, e che vive il paradosso di non essere interamente consapevole delle proprie qualità, delle proprie origini. Il pensiero possiede strumenti indubbiamente potenti, ma, sia cercando di ridurre a severa razionalizzazione i propri metodi d’indagine, sia cercando di liberarsi totalmente da vincoli, incontra limiti, di volta in volta, apparentemente insormontabili. Il tentativo della comprensione della propria natura costitutiva è per il pensiero una problematica che continua a spostarsi in avanti ogniqualvolta si guadagna terreno.
In molti casi in cui la ricerca scientifica si è trovata di fronte a situazioni analoghe, ci si è poi accorti, magari per pura serendipità (2), che si stava affrontando la questione dalla parte sbagliata, e che bisognava rovesciare completamente il metodo di approccio.
Se alla finitudine della mente umana non è dato di immaginare l’infinito, l’opportunità dello strumento matematico permette di operare su infiniti attuali di diverso ordine (infiniti che contengono altri infiniti), o di scrivere funzioni di parabole con comportamento asintotico, che descrivono l’effettiva esistenza di infiniti potenziali.
Ma anche la logica e la matematica in certe situazioni si devono arrendere: “il pensiero non è completamente riconducibile a un sistema formale; quali possono essere le conseguenze di ciò? Da un certo punto di vista la logica non viene minimamente intaccata, nel senso che rimane comunque lo stesso strumento di analisi rigorosa che è sempre stata; anche il suo ambito di azione viene solo minimamente ridimensionato, in quanto non rientra nella sua capacità descrittiva solo una piccola, anche se significativa, parte dell’attività della mente. Le conseguenze più interessanti, invece, riguardano le possibilità di apertura a qualcosa di altro rispetto al formalismo e al puro calcolo. Se una parte della nostra mente non può essere descritta dalla logica formale, allora sarà necessario utilizzare altri strumenti di analisi, che, a priori, non possano essere riducibili ad un sistema formale. In questo senso una fenomenologia rigorosa potrebbe essere uno strumento per indagare gli ambiti del mentale che sembrano sfuggire ad una modelizzazione totalmente oggettivante. Questo sarebbe un modo per estendere il significato di scienza, oppure per affiancare altre metodologie di indagine alla scienza intesa in modo tradizionale”, scrive Paolo Pendenza nell’articolo “I limiti della logica” (12-11-07; www.asia.it).
E proprio quella “piccola” ma significativa parte dell’attività della mente, potrebbe invece aprire un modo di conoscenza anche molto più vasto di quello attualmente esplorabile, tanto da far crollare in un sol colpo molte “traballanti certezze” scientifiche di oggi.
La forza descrittiva che si pretende normalmente per una teoria scientifica è infatti riferita alle qualità di cui la mente è dotata ed è consapevole.
Se Newton ha affermato con totale convinzione che l’universo sia stato scritto da Dio col linguaggio della matematica, è perché, da matematico del XVII secolo, aveva quello strumento a disposizione per indagare l’universo, e ha potuto indagare gli aspetti matematici dell’universo rilevabili da uno scienziato del suo tempo.
Condizionato dai successi della matematica anche Einstein affermò che “Dio non gioca a dadi con l’universo”, anche se cominciò a intravvedere il problema cognitivo a livello più profondo, confessando che ciò di cui ci si doveva maggiormente stupire era che si riuscisse a descrivere aspetti della fisica quantistica, talmente inaccettabili per la mente umana, piuttosto che di non avere gli strumenti mentali per comprenderla.
Ecco che analizzando questa osservazione, si può rilevare: le capacità di modellizzazione umana producono un raffinato (ma pur sempre limitato) alfabeto, quello matematico, utile a definire ciò che comunemente viene individuato come realtà esterna (sia essa manifesta oppure occulta all’esperienza sensibile), le cui caratteristiche sono in parte descrivibili utilizzando tale alfabeto, ma la cui ultima natura copre àmbiti più vasti rispetto a quelli intuibili attraverso l’architettura parallela del cervello umano.
Il pensiero non può far altro che prendere contezza della propria attività e dei propri limiti, l’esistenza del soggetto si risolve in uno stato privo di dimensioni, e composto unicamente dalle rappresentazioni legate alla logica di un universo cognitivo tridimensionale governato dal tempo: la rappresentazione del passato e quella del futuro.
In chiusura delle considerazioni in tema di consapevolezza si vuole ricordare un aneddoto riguardante Cartesio e la regina Cristina di Svezia. Quando il filosofo pretese di affermare “gli animali sono semplici macchine, essendo privi di coscienza”, la sovrana rispose: “veramente io non ho mai visto orologi riprodursi”.
Oggi racconti di fantascienza anticipano molto verosimilmente che l’intelligenza artificiale possa attribuire ai computer la facoltà di migliorarsi e riprodursi a una velocità molto superiore a quella umana.
Se ciò, ovviamente, era impensabile nel 1649 quando Cartesio accettò l’invito della regina Cristina di Svezia, quale sua discepola desiderosa di approfondire i contenuti della filosofia, attualmente, analizzando botta e risposta tra il filosofo e la regina, non si può che dar ragione a entrambi ancor più che in passato.
In primo luogo è chiaro che Cartesio esprimesse una iperbole, per cui negli animali i comportamenti sono molto più prevedibili rispetto a quanto non siano negli uomini. E questo fatto è oggi confermato dallo studio della neurologia e psicologia comparata.
Ma anche la regina intendeva sicuramente, con la sua sagace affermazione a difesa degli animali, far notare a Cartesio che avrebbe dovuto esser più cauto nelle similitudini prima di trarre conclusioni così categoriche, che finivano per negare loro totalmente la sensibilità.
Ora, ammettendo che i computer arrivino a riprodursi con hardware e software analoghi e maggiormente efficienti di quelli umani, e siano dotati della capacità tecnica di riprodursi, è difficile immaginare che in essi si possa sviluppare quel tipo di conoscenza prerogativa di molte specie animali e degli uomini, determinata da sensibilità emerse dalle necessità sociali indotte dal mondo naturale: è difficile immaginare “mamma computer” che nutra al seno il suo cucciolo, instaurando quel rapporto di fiducia ed emozioni indispensabile alla formazione psichica dell’umanoide in sintonia con quella di una eventuale copia autentica della specie umana riprodotta in artificiale.
Si tenga in considerazione, infatti, che il rapporto di accudimento e affetto è indispensabile alla formazione della personalità indotto da fattori biologici epigenetici, che, come è stato dimostrato da recenti studi, appartengono anche ai meccanismi che interessano l’espressione del codice genetico anche per quanto riguarda le caratteristiche della mente.
Tali scoperte suggeriscono che le esperienze contribuiscono, per esempio alla genesi delle malattie mentali, aggiungendo o rimuovendo “marcatori epigenetici” sui cromosomi. Si tratta di una sorta di etichette costituite da sostanze che influenzano l’attività dei geni, ma senza alterare l’informazione contenuta nei geni medesimi. Eric J.Nestler ha dimostrato il ruolo delle modifiche epigenetiche a lungo termine nell’insorgenza di disturbi mentali come la dipendenza o la depressione nei topi, e che i cambiamenti epigenetici influenzano anche il comportamento materno con modalità che riproducono gli stessi comportamenti nei figli, pur non venendo trasmessi nella linea germinale.
È chiaro quindi che non potrebbe certo essere la “mente” artificiale a poter offrire contributi utili all’indagine sulla natura del pensiero umano. L’illusione degli ingegneri di studiare la mente, producendo un suo simulacro attraverso la macchina pensante, è, all’inizio del terzo millennio, miseramente fallita. Resta invece aperta la diuturna ricerca, che inquisisce gli isomorfismi tra mente umana, mondo fisico comunemente percepibile, e metafisica, a caccia di stupefacenti sistemi, la cui ipotesi disperde in una miriade di nuovi indizi altrettanti insospettabili segreti, ogniqualvolta emerga una pur minima evidenza.
Resta preziosa la traccia perenne della grande arte la quale, dotata del potere di sublimare la tragedia, quanto di esprimere il divino ineffabile, sperimenta ogni stato mentale, rilevandone la fenomenologia somatica, quanto l’intima coesione teoretica o metafisica.
Note
(1) – religioni apofatiche: si basano su atteggiamenti teologici tipici dell’Oriente che procedono per negazioni, e che si contrappongono a quelle “catafatiche” che si manifestano mediante predicazioni affermative.
(2) – serendipità: è la contingenza in cui si trova in modo inatteso (anche se talora non del tutto fortuito) ciò che non si sta cercando, e che può rivelarsi anche molto più importante degli obiettivi originari della ricerca scientifica in atto.