Il Seicento: una luce di natura
di Marco Marinacci
Il XVII secolo mostra, (si veda anche l’editoriale del numero scorso), una natura proteiforme, un’anima che affiora attraverso una pluralità di sensi e moti, che ne rendono complessa l’identificazione in campo artistico. Spesso si è infatti preferito ricondurre la “concezione del mondo” legata al secolo (chiamata dalla filosofia estetica tedesca di tardo ‘800 Weltanshauung) a una questione meramente stilistica, fatta di arcaismi e classicismi, che avrebbero dovuto mediare la poetica barocca e il verbo naturalista all’interno di un astratto concetto di superiore “volontà artistica” (il cosiddetto Kunstwollen).
Forse tornerebbe utile seguire in tal senso, per rintracciare l’essenza del Seicento, l’indicazione fornita da Wilhelm Worringer, tesa a delineare un diverso concetto di idea del mondo, che passa attraverso il sentimento (Worringer, a fronte della Weltanshauung, la “concezione del mondo”, oppone il concetto di Weltgefühl, ossia “sentimento del mondo”), anziché una supposta razionalità, che troverebbe poi forma in canoni stilistici ben definiti e circoscritti.
E’ certamente vero che il secolo è influenzato da un forte senso razionalistico, in cui la filosofia assume nuovi connotati teoretici, ai quali si affianca un potente sviluppo tecnico e scientifico, che va dalle scoperte geografiche a una nuova concezione del cosmo. Tanto che Galileo Galilei non rientra solo tra i nuovi pensatori e scopritori del nuovo secolo, ma è senzaltro da considerare come il primo artefice del cambio di prospettiva ontologica, perché niente, dal razionalismo cartesiano alla filosofia spinoziana, presupponeva la nascita di una prassi empirico-sperimentale, quale quella fondata dallo scienziato pisano, e che ha segnato la nascita del metodo scientifico. Si affaccia al mondo un nuovo “sentimento” forte, che si riverberera nelle poetiche artistiche, non certo riconducibili né tantomeno circoscrivibili in una semplice questione stilistica.
Se le ricerche scientifiche offrirono la prova razionale di una realtà più ampia, non dominabile totalmente dai soli sensi, né più esprimibile in modo assoluto grazie alla capacità di intendere un volere superiore, che poteva derivare da un’attenta esegesi delle Sacre Scritture, quelle artistiche ne concessero la prova intuitiva più diretta e immediata. Ecco allora emergere una nuova attenzione per l’universo sensoriale, insieme a una visione che presupponeva un nuovo concetto di realtà, infinita come la conoscenza che ne poteva derivare, davanti alla quale l’uomo del Seicento poteva porsi solo in modo relativo, e procedere nel suo “entrare nel mondo” solo a tentoni, stabilendo nuove, sottili relazioni, tra sé e le cose. Per far ciò l’artista, come lo scienziato, non può permettersi di non confidare nel suo intuito e nel suo ingegno, ed ecco affermarsi l’epoca del Razionalismo.
Un Razionalismo che scansa il pensiero neoplatonico rinascimentale, in cui intorno al ruolo del “creatore” aleggiava un’aura mistica, che pose l’artista in una nuova posizione sociale, più sicura, e ormai ben compenetrata all’interno di quella nuova, complessa società.
L’arte non è più un sistema di regole statuite e consacrate, ma attraverso la nuova visione critico-sperimentale, assume nuovi valori, come la somiglianza “delle pitture alle cose naturali”, come scrive Ludovico Dolce, autore dell’epoca, o l’importanza della qualità atmosferica del colore veneto, come indica il teorico Giovan Paolo Lomazzo. Ecco allora apparire la “seconda anima” del Seicento, quella che, parallela e silente rispetto all’enfasi della poetica barocca, la anticipa già a partire dagli anni postconciliari del secolo precedente, l’accosta nelle prime due decadi e poi la sorpassa, dipanandosi lungo tutto il secolo, fino a raggiungere, per volontà estetica, quello dei Lumi (lei sì, come non potrà invece fare il Barocco, col Barocchetto e il Rococò). Un’anima tenacemente, intimamente adesa alla natura, così come ai sentimenti e all’interiorità umana, che troverà i suo massimi interpreti in territorio padano, nelle titaniche figure dei Carracci, Annibale in primis, e Caravaggio. Due diversi poli, attratti però entrambi dall’unico magnete che riesce a condensare intorno a sé tutte le maggiori energie creative del secolo: Roma.
Padani, perché padano è il nuovo verbo che indica la realtà trascendente, quella mediata attraverso una luce di natura (interiore) e una vocazione pauperista. Di luce e di vocazioni vivrà infatti l’arte di questa nuova rivelazione, che si chiama Naturalismo, e che avrà come suo massimo cantore Caravaggio.
Il pittore milanese (1571-1610) si forma sulla traccia di quella “terza via” del Rinascimento (si vedano in proposito le letture critiche integrative dei due numeri dedicati al ‘500), che vedrà in ambito padano, e nella fattispecie in Peterzano, il lungo abbrivio del magistero della luce veneta, intimamente coeso a una formidabile sensibilità per le “profondità” dell’animo umano.
Tanti gli stratagemmi che Caravaggio escogita per penetrare questa nuova realtà: un senso della finzione tanto sublime quanto effimero, che esplode in esplicita teatralità (pensiamo al Bacco degli Uffizi, disteso su un canapè nascosto sotto un candido lenzuolo dal richiamo mitico, tra le cui pieghe fa capolino sprezzante un lacerto di grezza tela); una tensione accortamente bilanciata tra l’idea di instabilità e caducità esistenziale (che si riverbera perfino sugli oggetti, come la celeberrima Canestra dell’Ambrosiana); un dialogo ininterrotto tra metafora e mito (che segnerà anche l’opera di Annibale Carracci, il quale però, più incline alla malinconia che all’ironia del lombardo, ne verrà rapito); il gioco della meraviglia, che non ha però volontà di stupore, ma di travolgente spinta alla meditazione (così nel riso dell’Amore vincitore, come nelle tante Vocazioni che passeranno il testimone all’altro grande pensatore in pittura che sarà Diego Velàzquez).
Ma non si può parlare di Barocco! Questi sono tutti elementi propri dell’estetica del Seicento, del suo “sentimento del mondo”, e, forse, tanto più, proprio in quanto secolo di un Razionalismo padre dell’Illuminismo. Tanto che bisognerebbe parlare ora anche del ruolo della tecnologia, che entra a far parte della ricerca artistica quanto di quella scientifica: si pensi al cannocchiale utilizzato da Galileo; nonché all’uso dello specchio, e perfino probabilmente di una antesignana “camera ottica”, da parte del Caravaggio. A questo punto la complessità del tema arriva a coinvolgere l’idea di mimesis, e anche il concetto di astrazione, all’origine di molta parte dell’arte contemporanea, per cui se ne rimanda la trattazione.
Tuttavia si può cogliere più intuitivamente la differenza tra le due poetiche rapportandosi a esse in termini semiotici: se il Barocco apprende dalla Controriforma il gesto, l’esaltazione, il vigore della Chiesa rinata e triumphans, che troverà in una forma di gloriosa natura il suo esito, il Naturalismo ne coglie l’anima purificata, quella di luce. Due diverse “verità”, diremmo, quelle cui pervengono la Chiesa romana e quella lombarda: la prima in cui l’anima mostra il legame con la sua parte terrena, il corpo, ed è Barocco; la seconda quella trascendente, di luce, ed è Naturalismo. Una scissione iconologica non lontana da quella vissuta nel quarto secolo tra chiesa romana e ortodossia bizantina, quando l’eresia monofisita mise a nudo l’aporia nel rappresentare un’unica natura divina; cosicché la romanità, vocata alla realtà, scelse quella umana (con tutta l’enorme messe figurativa che ne derivò, vale a dire l’arte occidentale), e i bizantini misero a punto un’immagine che rendesse ragione della trascendenza divina (un’istanza di visionarietà che ha dato linfa a uno dei rizomi primi dell’astrattismo).
Nel 1582 i Carracci fondano a Bologna l’Accademia del Naturale o del Disegno, nota anche come Accademia degli Incamminati. Ma è sui primi due termini che si deve concentrare l’attenzione.
Il naturale, è primariamente concetto mimetico, ma una mimesis attraversata dall’idea di luce. Il disegno è invece un segno compositivo al quale solo successivamente si lega la luce. Non di quello fiorentino si tratta, dunque, vocato a un’idea spaziale prospettica (in questo caso già fornita dall’unità luministica conquistata con il tonalismo di matrice veneta, di cui appunto i padani sono eredi), ma di una traccia per entrare nelle profondità dello spirito, che si raccoglie nei densi coni d’ombra di una stanza (lo capirà Rembrandt, che, con Velàzquez e Vermeer, sarà il vero erede di Caravaggio), come nel muto grido di un Golia appena decollato. E’ per questo che lo stesso Roberto Longhi dirà di aver capito Caravaggio attraverso la diagonale di Cezanne (una diagonale fatta per l’appunto non di forma, ma di luce).
E poi, la luce.