La riflessione autoprodotta e l’illusione degli universali
Riccardo Panigada
Partire dal concetto significa partire da un soggetto attivo pensante: soggetto che può divenire quindi oggetto di riflessione per se stesso.
Ma, prima di analizzare l’eventuale difficoltà intrinseca al processo di “autosservazione”, il quale è caso più complesso del processo di osservazione di tutti gli altri oggetti esterni al soggetto, è fondamentale definire le caratteristiche dell’osservazione in generale.
La selezione naturale ha fatto in modo che le specie viventi fossero dotate di quegli organi di senso maggiormente vantaggiosi per le loro necessità esistenziali, considerato il biotopo in cui si sono evolute, e il loro ruolo rispetto agli altri animali del medesimo ambiente, sia per quanto riguarda il rapporto con altre specie competitive, sia per quanto riguarda la loro posizione nella catena alimentare.
Nell’uomo, e, in particolare, per la tradizione culturale occidentale, la vista è l’organo maggiormente importante. Heinrich Schliemann, lo scopritore della città di Troia, contò nei suoi amati poemi omerici ben 27 verbi denotanti altrettante connotazioni le quali esprimono diversi modi di vedere e guardare.
Da queste prime due considerazioni si può facilmente desumere che gli uomini siano dotati di sensi, e, in particolare, di proprietà degli organi della visione ideali per svolgere le normali attività che garantiscono alla comunità umana la sopravvivenza e la forma di esistenza migliore possibile.
Infatti è verosimile, che, sia a causa di un senso della vista particolarmente raffinato, sia per essere dotati di un cervello idoneo, e di sensibilità acquisite, dovute alla necessità di accudire la prole e di socializzare con i simili, gli uomini abbiano sviluppato una capacità di astrazione superiore rispetto a qualsiasi altro animale.
Tale capacità di astrazione, di cui non era dotato l’Homo neanderthalensis (motivo che ne ha causato l’estinzione) ha consentito invece al sapiens sapiens di sopravvivergli grazie alla capacità di previsione delle necessità future, e, in funzione di queste, di approvvigionarsi, e di programmare.
La capacità di astrazione che ha consentito l’aumento di complessità della organizzazione sociale e delle conoscenze fino al raggiungimento dell’attuale società tecnologica, ha fin dall’antichità permesso all’uomo anche di riflettere su se stesso, potendo prendere in considerazione il sé come oggetto d’indagine.
Ma tale attività speculativa del sé non è certo indispensabile alla sopravvivenza materiale della specie… quindi gli uomini sono dotati di capacità idonee a esercitare attività speculativa autoreferenziale, mentre si ritrovano forniti di strumenti sensoriali utili a raccogliere informazioni quasi esclusivamente orientate alla sopravvivenza biologica e alla vita pratica.
Dato che la conoscenza viene strutturata dal soggetto che la possiede in modo conforme alle esperienze raccolte dai mezzi sensoriali disponibili e alle caratteristiche di questi ultimi, è evidente allora, che, nel momento in cui si decide di partire alla scoperta di settori diversi rispetto a quelli per cui i sensi sono progettati, vi è quantomeno il forte rischio di essere condizionati da “pregiudizi” molto condizionati dalla esperienza raccolta attraverso gli organi di senso naturali che si possiede.
Un recente studio di Eric Courchesne ha dimostrato che la corteccia prefrontale dei bambini autistici presenta il 67 per cento di neuroni in più rispetto ai soggetti normali: c’è qualcosa che non funziona in loro al momento in cui il cervello affronta dopo la nascita il processo di “potatura delle sinapsi”. Infatti, tra le 10 e 20 settimane di gestazione, i neuroni delle aree cerebrali associate con l’elaborazione, e orientate al controllo dei comportamenti sociali, della comunicazione e dello sviluppo cognitivo, proliferano con andamento esponenziale, causando una sovrabbondanza di cellule. Tuttavia, durante il terzo trimestre di gravidanza e primi anni di vita, circa la metà di questi neuroni viene normalmente eliminata attraverso un processo di apoptosi (morte cellulare programmata), che, evidentemente, nel caso dell’autismo fallisce.
Potrebbe essere questa la causa per cui i pazienti autistici sono capaci di virtuosismi mnemonici e calcoli matematici che fanno pensare alle capacità dei computer?
Ma chi sceglierebbe di essere affetto da autismo pur di possedere tali abilità?
Evidentemente il prezzo della perdita di abilità ben più rilevanti per la vita pratica e sociale sarebbe iperbolicamente alto.
Ma quale aspetto d’insieme assume il mondo che tutte le persone con normale sviluppo cerebrale vedono, agli occhi delle persone affette da autismo? Se nel cervello normale prevalessero le vie preferenziali di approccio alla conoscenza tipiche dell’autismo quali aspetti della ricerca scientifica sarebbero stati privilegiati rispetto a quelli che risultano oggi prioritari?
È evidente quindi che non è la realtà del mondo fisico che si rivela con ordine, secondo un progredire di complessità, e alla cui globalità si può sperare di avvicinarsi; ma sono i nostri strumenti conoscitivi (sensi, psicologia e teorie della ricerca connesse all’umana esperienza) che condizionano totalmente l’approccio alla realtà. Nel tentativo di descriverla, si progredisce verso una conoscenza più ampia e dettagliata, ma comunque irrimediabilmente miope rispetto agli universi non percepibili, che sono attorno e che compenetrano il campo dell’umano sistema relazionale delle conoscenze possibili.
A più di un secolo di distanza dalla definizione di “radiazione quantica” di Planck e dalla presentazione della relatività ristretta da parte di Einstein, e a più di 24 secoli dall’inizio della speculazione filosofica sul rapporto tra soggetto pensante e mondo esterno sembra di essere costretti a muoversi sulle due rispettive vie di ricerca indossando abiti, guanti e calzature di almeno quattro taglie più grandi rispetto alla propria. E le difficoltà aumentano quanto più si tenta di ricondurre al rassicurante sistema interpretativo raggiunto mediante le esperienze umane i dati emergenti da “territori di confine”.
Ma, a questo punto (esclusa l’ipotesi di potersi proficuamente avvalere della via metafisica), bisognerà fare tabula rasa, anche per quanto riguarda le metodologie finora proposte dalla speculazione teoretica, tutte pur sempre condizionate dall’umana esperienza. Nondimeno una fenomenologia coerente presentata mediante una teoria condivisibile completamente affrancata dal limite delle procedure conoscitive indotta dall’esperienza, può esistere e riuscire a produrre un sistema interpretativo del reale forte quanto basta per caratterizzarsi ontologicamente, ed essere utile dal punto di vista epistemologico?
Finora gli studi sulla mente sono stati boicottati tanto dagli “integralismi riconducibili alle religioni (che non amano indagare la psiche perché i loro dogmi spiegano a priori l’esistenza e il funzionamento di mente e anima); quanto da quell’integralismo laico sottilmente antiscientifico e antiriduzionistico, che non ama ridurre la complessità della mente umana alle molecole e alle loro interazioni” ha recentemente osservato Edoardo Boncinelli. Concordando sulle motivazioni rilevate da Boncinelli sulla causa del ritardo, e circa l’indubbia esistenza degli integralismi da lui indicati, si rileva, a conclusione delle considerazioni apportate nel presente articolo, che lo studio della mente cosciente potrà rivelarsi tanto più promettente quanto più verranno abbandonati tutti i retaggi che hanno finora afflitto, e tuttora condizionano negativamente la ricerca, integralismo riduzionista incluso.
Infatti la ricerca sulla natura della mente e la fisica della coscienza non potranno emergere solo da un ulteriore avanzamento tecnologico e approfondimento delle conoscenze sulla neurofisiologia. Sembra infatti che si possano ottenere migliori risultati, semai, mediante la formulazione di nuovi paradigmi d’insieme, in grado di tenere conto di una realtà complessa, e formata da interno ed esterno al corpo, non scomponibile in parti. L’atteggiamento esclusivamente analitico dello “scienziato puro” radicato al metodo critico che tende a sezionare per indagare sempre più in profondità, risulterebbe allora, non solo limitante, ma totalmente inadeguato e controproducente per l’interpretazione di un “tutto” la cui identità non è pedissequamente riconducibile alla semplice sommatoria delle sue singole parti.