Relatività e cubismo
m.m.
Vedere un mondo in un granello di sabbia,/
e un cielo in un fiore selvatico,/
contenere l’infinità nel palmo della mano/
e l’eternità in un’ora…/
William Blake
Nel medesimo momento in cui, nel ‘900, la teoria della relatività e la fisica quantistica hanno cambiato le possibilità d’interpretare il mondo, l’arte ha affinato da subito le proprie coordinate per porsi nella nuova prospettiva.
Molte delle correnti artistiche che hanno attraversato il XX secolo vedranno associato alla propria ricerca il termine “relativistico”, per coglierne i significati più innovativi, ma, se per la maggior parte è un uso improprio, per una di esse invece è assolutamente pertinente e inevitabile: il cubismo.
Il cubismo, in effetti, più che come corrente si presenta da subito come vero e proprio movimento artistico con una propria identità teoretica che trova indubbiamente nella teoria einsteiniana una corrispondenza esemplare. Precisamente nei medesimi anni in cui Einstein elaborava la teoria relativistica (1905-12), sembra non solo riproporne puntualmente gli assunti, ma anche ambire ad analoghi intenti speculativi.
Si può dire di più, e verificare un’affinità ideale che lega la ricerca cubista alla teoria einsteiniana anche nel metodo: infatti il percorso del cubismo prende forma attraverso “tentativi ed errori, con l’intuizione, con il genio, giungendo a scoprire i principi figurativi fondamentali della grammatica percettiva”. 1 E’ esattamente il percorso empirico su cui si basa qualsiasi modello scientifico, e in tal modo il cubismo si pone alla stessa stregua della teoria relativistica di fronte al primo postulato di valutazione scientifica: il criterio di falsificabilità.
L’ipotesi cubista presenta infine un’ultima, inattesa possibilità di verifica sperimentale, offerta solo di recente dalle neuroscienze. E’ infatti oggi possibile analizzare con tecniche di scansione i neuroni del giro fusiforme che reagiscono vivacemente quando, per esempio, si osservano dei volti: alcuni neuroni si attivano solo se i volti si presentano in una certa prospettiva, mentre altri, localizzati più in alto, rispondono ai volti in qualsiasi prospettiva si presentino. Tanto da far dire a uno scienziato attento alla neuroestetica come Ramachandran: “penso che se si mostrasse a una scimmia il ritratto cubista di una sua simile, per esempio due musi sovrapposti colti da prospettive diverse, quei neuroni cerebrali si superattiverebbero. Così si spiegano, sotto il profilo neurale, Picasso e il cubismo”. 2
Per poterci avvicinare adeguatamente all’opera cubista, dobbiamo prendere confidenza con tre termini che ricorrono nel linguaggio della percezione e della rappresentazione artistica che la indaga: ontologia, fenomenologia ed epistemologia. 3
Senza aver qui la pretesa di una argomentazione esaustiva in merito a tali termini, riprendiamo semplicemente le definizioni più condivise, intendendo con ontologia “lo studio di quello che esiste”; con fenomenologia assumiamo invece ciò che si riferisce all’esperienza immediata della realtà, un’esperienza prettamente soggettiva, dunque; con epistemologia, infine, nata nella sua accezione moderna con Kant, consideriamo lo studio della conoscenza del reale: il processo conoscitivo che il soggetto esperisce in relazione al mondo. Ne deriva quindi che i tre domìni corrispondono a tre ambiti ben distinti: il primo è il “mondo delle cose” (ontologico), il secondo quello “dell’esperienza” (fenomenologica), il terzo quello della “conoscenza” (epistemica). Un oggetto particolare, secondo queste categorie di senso, è il sogno, perché pur non essendo un oggetto fenomenico ma “percepito”, appartiene al mondo fenomenico, da cui deriva le sensazioni e le percezioni di cui è costituito.
Analisi iconografica e iconologica
Vediamo ora, attraverso tre opere emblematiche di Pablo Picasso, le diverse “aperture di senso” a cui porta la sua ricerca. 4 La prima è il celeberrimo Les Demoiselles d’Avignon, del 1907, l’opera “manifesto” con cui Picasso prenderà la leadership dell’arte contemporanea (l’avversario diretto, Matisse, dopo averlo visto, si ritirerà in un isolamento meditabondo da cui riuscirà a riscattarlo solo la vitale carica prorompente del colore) per condurla nei territori sconosciuti e ostili (tragici, diremo, dopo aver visto Guernica) della prima metà del Novecento.
Scrive Erwin Panofsky, il grande storico dell’arte, rivelatore del valore semantico della prospettiva nel linguaggio figurativo: “Nell’ordine della spazialità, concepita come una forma a priori della conoscenza, si sono succedute due diverse concezioni che hanno condizionato, nelle arti visive, diverse soluzioni prospettiche: quella discontinua, antitetica, finita, dell’oggettivismo classico, e quella omogenea e infinita del soggettivismo moderno. Quest’ultima si arresta di fronte alle Demoiselles d’Avignon di Picasso, che aprono la strada a un nuovo sentimento spaziale, proprio quando la teoria della relatività, quasi contemporanea nella sua prima formulazione (1905), apre una nuova concezione razionale dello spazio”. 5
Sarà l’incontro tra relatività e arte a generare la necessità di ancorarsi a una nuova “forma simbolica”. Non essendo più in grado di rispondervi la prospettiva, si troverà invece nell’archetipo un primo appiglio per comprendere la nuova realtà multiforme che si stava palesando. Un archetipo che prende forma nell’arte cubista, e trova nella maschera il riferimento fisiognomico immediato. “Si avverte uno scatto quasi meccanico… dietro questi volti sorpresi in una perenne e stabilizzata incomunicatività… dietro agli occhi da spiriti trapassati, dietro alle maschere africane che virano in grottesco “europeo” l’orrido di chissà quali riti misterici.” 6 Lo scatto meccanico è chiaramente la presa della maschera sull’archetipo, l’orrido invece deriva dal valore apotropaico che assume in Picasso la maschera nera. Una maschera che s’impone dunque come il nuovo volto cubista, e che la fisiognomica sembra indicare come un archetipo di “percezione temporale storica”, come un’immagine della memoria; ma una memoria collettiva, una memoria come si presenta appunto quella archetipica.
E’ così che “ai primi anni del secolo, su una scena parigina largamente incline al primitivismo e alla naïveté, la scomposizione della forma cézanniana incontra la scomposizione della forma praticata nella scultura negra. Il problema non è esattamente lo stesso: Cézanne scompone la forma per accostamenti di colore in chiave plastica e tonale; la scultura negra sintetizza in piani volumetrici le strutture semplificate di un volto o di un corpo. Ma, Picasso, da geniale formalista qual è, si concentra solo sull’aspetto morfologico dei due procedimenti (non sulle motivazioni realizzative che li sottendono; ne parleremo a proposito di Cezanne), e dipingendo nel 1907 le Demoiselles d’Avignon, getta le basi del movimento cubista.” 7
La domanda che si pone il cubismo è come dipingere non solo ciò che vediamo, ma anche ciò che “sappiamo” dell’oggetto. E la risposta è offerta da una rappresentazione pittorica che riprende l’oggetto da tutti i punti di vista, e non solo dal ristretto ventaglio di possibilità implicite nella visione binoculare. Un passo avanti definitivo che non solo scardina il sistema prospettico rinascimentale, ma che oltrepassa anche le intuizioni di Cézanne relative alla moltiplicazione del punto di vista, che sebbene rivoluzionarie, rimanevano ancorate ancora a una visione “realistica” e binoculare.
“Ciò che in Cézanne era induttivo, procedendo dal particolare, per piccole certezze progressive, verso una temporanea soluzione generale, in Picasso è deduttivo, e discende da una immediata consapevolezza dello spazio verso rapide soluzioni intonate con il progetto concettuale dell’insieme”.8 Un’intonazione di fondo, come un accordo del sistema teoretico, che ritroviamo nel dipinto, a partire da un’anti-tonalità: “non c’è luce naturale, nelle Demoiselles. C’è un colore locale anodino e diffuso, che concentra l’attenzione sulla coartazione disegnativa della forma. La quale, peraltro, è brillante e rapinosa, e fonda un nuovo modo di figurare.” 9
In Bottiglia di Bass, clarinetto, chitarra, violino, giornale, asso di fiori, del 1914, vediamo invece il passaggio dalla visione analitica a quella sintetica. Il cubismo analitico (1909-12) ha inizio subito dopo la dichiarazione fondativa fatta con le Demoiselles, e, con opere quasi “intercambiabili” di Picasso e di Braque (pensiamo alla serie dei violini), si concentra sull’idea centrale di Cézanne della moltiplicazione dei punti di vista, riportandosi a una rappresentazione della realtà derivata da meccanismi interpretativi sequenziali: l’oggetto fluisce attraverso un processo di visione che prevede una successione temporale nell’acquisizione delle relative immagini dai diversi punti di vista, come se si stesse ascoltando un brano musicale. E’ lecito ipotizzare, in tal senso, anche un ruolo evocativo di questa dinamica sensoriale, anche se forse inconscio, da parte degli stessi soggetti rappresentati, che sono per l’appunto in primis gli strumenti musicali.
Il cubismo sintetico (1912-21) punterà poi a rivoluzionare il concetto stesso di immagine pittorica, non più considerata rappresentazione della realtà, ma realtà essa stessa. Si percepisce ora, attraverso la rappresentazione pittorica, una visione sincronica del soggetto; si passa da una dinamica sensoriale uditiva a una visiva, in cui tutto viene ricondotto a una nuova visione della realtà, a una specie di “palingenesi del visibile”. E diventa chiaro quanto non si possa più prescindere in questo caso dal fattore tempo in senso relativistico. E’ infatti solo aggiungendo esplicitamente la “dimensione tempo” così come l’ha fatta conoscere la teoria della relatività ristretta, che il tempo all’interno della rappresentazione da “sequenziale” (o seriale), come era inteso nel cubismo analitico, può trasformarsi in “assoluto”, come verrà invece postulato dal cubismo sintetico.
Vediamo in questo modo, come indica Caroli, “lo strumento musicale e lo spazio che lo avvolge sottoposti a un processo di solidificazione, di plastificazione. Successivamente i piani cromatici, come figure solide disarticolate e riportate sulla superficie, vengono incatenati in una tarsia fitta e bidimensionale, dove gli originari piani si differenziano per sopravvissute distinzioni di chiaro e di scuro, un chiaro e uno scuro che non conoscono però sfumature disegnative, ma vengono scissi in superfici distinte e piane. Abbandonato ogni attracco con la gaietta pelle luministica della realtà, la pittura vive in una squisita orchestrazione mentale di terre, di beige, di bruni, di rare e intonatissime note verdi.” 10
Il “nuovo spazio” e il “nuovo tempo” che prendono campo sulla tela cubista propongono dunque una realtà nuova, in cui cambia di conseguenza radicalmente anche il ruolo del soggetto. “Braque e Picasso volevano smontare la realtà stessa, cercando di negare l’azione “ri-costruttiva” (o “ri-conoscente”) del soggetto percipiente. Non interessa loro la dimensione della sensazione pura (come invece agli Impressionisti, la cui ricomposizione del campo visivo in frammenti elementari di luce, rimanda a una visione prettamente fenomenica della realtà), quello che vogliono è giungere a rappresentare l’essenza stessa della realtà, nella sua chiave ontologica.” 11 Ma la realtà contiene ovviamente anche il soggetto. Ed è allora “rompendo” l’oggetto quotidiano che essi rompono, decostruiscono e riducono alla sua sintassi, ai suoi segni originari, anche la struttura percettiva del soggetto e quindi la struttura stessa della realtà. Nella bottiglia di Bass, nel clarinetto, nella chitarra, nel violino, nel giornale, nell’asso di fiori che conosciamo come oggetti quotidiani fatichiamo a distinguere le diverse parti, l’abitudine a vederli come “unità di senso” ce lo nega. Nel caso del quadro di Picasso possiamo invece soffermarci sui vari stadi del processo disgregativo, per poi ri-appropriarci, ora consapevolmente, della realtà. E’ proprio la consapevolezza del processo che porta dalla percezione alla decostruzione, alla rielaborazione e per ultimo alla ricomposizione finale, che secondo il Cubismo ci permette di prendere atto della realtà, di vederla quale essa veramente è.
Se infine consideriamo l’assunto filosofico secondo il quale requisito necessario per esistere è produrre effetti: gli oggetti rappresentati da Picasso non esistono finché non si trovano coinvolti in qualche processo. Essendo questi oggetti dotati di una struttura complessa, per poter “accadere”, richiedono la presenza di un sistema percettivo almeno altrettanto raffinato: un sistema percettivo e rielaborativo come quello umano.
E’ grazie all’esistenza di sistemi percettivi complessi quali quelli degli esseri umani che può esistere questo processo, ripresentando la formula cartesiana (cogito ergo sum), ma liberandola dall’aporia autoreferenziale, per verificarla sulla realtà visibile: l’opera cubista trova compimento nel momento in cui determina anche effetti nel mondo, superando Cartesio “per via di realismo”. “L’opera d’arte ci permette così di penetrare in un mondo di speculazioni e di trasformarlo in realtà. In quel momento vi è la contemporanea comparsa del creato e del creatore, e in questo processo di creazione, un’identità tra i due. Si abolisce la distanza tra soggetto e mondo.” 12
Picasso, Painter and Model, 1928, The Sidney and Harriet Janis Collection
E’ giunto ora il momento di vedere l’opera di Picasso anche da un’altra prospettiva rispetto a quella scientifica con cui abbiamo aperto questo breve saggio, ed è quella offerta dalla filosofia, e più nello specifico da pensiero di Merleau-Ponty; una ricerca che affronta le stesse categorie ontologiche, fenomenologiche ed epistemiche che si ritrovano in quella cubista.
Con Painter and Model Picasso ripropone uno dei topòi più ricorrenti di tutta l’arte rappresentativa: il rapporto tra l’artista e la sua modella. La modella corrisponde all’oggetto, alla realtà da catturare e rappresentare sulla tela. “Picasso esprime un punto di vista radicale: oggetto e soggetto non esistono così come sono stati tradizionalmente rappresentati. L’unica realtà convenzionale è rintracciabile sulla tela che divide (ma allo stesso tempo unisce) il pittore e la sua modella, il soggetto e l’oggetto.” 13 In effetti le due figure sono rappresentate divise dalla tela, al centro, che mostra una silhouette familiare, di “impressione fenomenologica”. Le vediamo inoltre decomposte in una serie di elementi astratti (ma concreti, secondo la prassi sintetica), che riporta alla visione “ontologica” del cubismo. Infine vediamo, nella totalità della tela, la comparsa della conoscenza del mondo convenzionale, l’epistéme (dal greco επιστήμη: epi = su e histamai = stare, porre, stabilire; si intende oggi soprattutto la conoscenza derivata dalla scienza sperimentale) rassicurante, ma anche riduttiva della complessità del mondo.
Una complessità che, per Merleau-Ponty, include necessariamente sia l’esperienza soggettiva, che ha in sé l’oggetto, sia l’apparire dell’oggetto stesso, che deriva comunque da operazioni soggettive. Non si può porre quindi un dualismo assoluto tra il soggetto e l’oggetto: “soggetto e oggetto sono uno nell’altro, e non è mai possibile separarli. […] Il soggetto non è un osservatore assoluto, distaccato dal mondo; l’oggetto non è una realtà trascendente, distaccata dal modo con cui gli uomini lo percepiscono.” 14
Un’esperienza che non può mai fissarsi né nel soggettivo né nell’oggettivo è, per Merleau-Ponty, un comportamento, cioè la modificazione dei miei rapporti con gli altri e col mondo.
I comportamenti sono alla base delle scienze umane, e originariamente le modalità di questi rapporti sono derivate dalla percezione. 15
La percezione è costituita da un insieme di rapporti che non possono essere esaminati senza considerare l’uomo nella sua interezza, cioè nelle sue modalità di agire nel mondo (si legga comportamenti). Inoltre la percezione, secondo Merleau-Ponty, non è una somma di dati visivi, tattili, uditivi: “io percepisco il mondo in modo indiviso col mio essere totale, colgo una struttura unica della cosa, un’unica maniera di esistere, che parla contemporaneamente ai miei sensi.” 16
Ecco Painter and Model, opera di Picasso del 1928. Ci appare ormai chiara la dinamica interna (quella del pittore) della percezione della realtà. Possiamo solo aggiungere che tale dinamica sembra anche prevedere tre diversi e successivi livelli interpretativi: una prima percezione fenomenologica, che rende conto della realtà così come essa appare, ed è rappresentata dal profilo riconoscibile in mezzo al quadro, che sembra dividere come il velo di Maya il pittore dalla sua modella. Un secondo “momento” interpretativo, che viene raggiunto dall’artista grazie alla conoscenza della realtà che egli può conquistare attraverso il processo ricompositivo fruito grazie all’opera, e che porta ad un’esperienza ontologica del reale: è la nuova conoscenza della realtà che era stata raggiunta già nella rappresentazione cubista sintetica, di cui rimane traccia nella decomposizione delle due figure. Ma ora il processo interpretativo va oltre, e porta a un ulteriore, definitivo grado di conoscenza: la conoscenza epistemica. Una conoscenza, una percezione della realtà certa e verificata, davanti alla quale appare un’opera ricomposta nella sua unità originaria, in una visione totale del mondo che concentra ora in sé sia la percezione fenomenica della realtà sia la sua essenza ontologica.
Si è detto, tre gradi successivi, sequenziali, ma questo è vero per l’artista che compone l’opera, per la dinamica interpretativa “interna”. Per l’osservatore, invece, il quale attiva un processo interpretativo “esterno” all’opera, la conoscenza dei tre livelli di realtà si presenta simultanea e immediata. E ciò avviene non appena l’opera cubista, dalla mente del pittore, si trasferisce nella realtà sensibile, trasformandola per sempre non solo come “evento”, un evento che sappiamo già da Heidegger essere capace di “originare un mondo”, ma anche, e soprattutto, come nuova opportunità ermeneutica, in grado di generare un nuovo orizzonte interpretativo della realtà. Questa l’eredità del Cubismo, di cui il mondo è oggi depositario.
Note bibliografiche:
Nota 1: Ramachandran V.S., Che cosa sappiamo della mente, Mondadori, Milano, 2006, p.50.
Nota 2: Ramachandran, ibid., p.50.
Nota 3: i concetti espressi dai termni ontologia, fenomenologia, epistemologia (coscienza dell’essere, dinamica ed emotività dell’esistere, e attività relazionale-conoscitiva razionale) sono stati compressi dai bioingegneri Vincenzo Tagliasco e Riccardo Manzotti nel termine Onfene, a dimostrarne la loro unitarietà intrinseca e imprescindibile all’esperienza cosciente, nella loro Teoria della mente allargata dell’uomo nel mondo (Tma). Cfr: “Coscienza e realtà – Una teoria della coscienza per costruttori e studiosi di menti e cervelli” R.Manzotti, V.Tagliasco, Il Mulino, Bologna, 2001.
Nota 4: più precisamente dovremmo dire: “i messaggi che ci consegna la sua volontà – o intenzionalità – artistica”, cioé la Kunstwollen così come espressa da Alois Riegl.
Nota 5: Panofsky E., La prospettiva “come forma simbolica”, Feltrinelli, Milano, 1961-2001, p.16-17.
Nota 6: Caroli F., La Pittura Contemporanea, Electa, Milano, 2001, p.89.
Nota 7: Caroli F., ibid., p.88.
Nota 8: Caroli F., ibid., p.89. Si veda anche la scheda 9.
Nota 9: Caroli F., ibid., p.89.
Nota 10: Caroli F., ibid., p.91.
Nota 11: Manzotti R., ibid., pp.360-366.
Nota 12: si veda Manzotti R., ibid., p.372.
Nota 13: Manzotti R., Psicologia della percezione artistica, Arcipelago Edizioni, Milano, 2007, p.29.
Nota 14: Merleau-Ponty M., Senso e non senso dall’introduzione di Enzo Paci, Garzanti, p.11.
Nota 15: da non confondere quest’approccio col comportamentismo di Watsor, che Merleau-Ponty rifiuta.
Nota 16: Merleau-Ponty, ibid., pp. 12-13.