Arte e scienza, non pretesti
Riccardo Panigada
A inventare un binomio magico fatto di due parole dotate di un significato talmente consistente come quello di “arte” e “scienza”, e fare in modo che diventi di moda si fa presto.
L’idea, nella fattispecie, sembra infatti nuova e geniale, e così nascono mille iniziative dappertutto con questo titolo così impegnativo. Troppo impegnativo. Infatti nessuno lo sa trattare, perché nessuno lo sa riempire di significato.
Gli scienziati parlano di arte ingenuamente quanto gli artisti sanno parlare di scienza, e non vi sono in circolazione filosofi che abbiano il valore di conoscere la scienza altrettanto bene quanto l’arte, o comunque è molto più comodo organizzare iniziative di successo, che richiamino tanto pubblico, ovvero di livello culturale mediocre, e quindi meglio non essere troppo profondi…
In ogni caso, le immagini che circolano, a questo proposito, non sono altro che immagini della scienza ritoccate particolarmente belle da venire spacciate per arte (ma con modestissimo intervento dell’umana intelligenza), o “artisti” che scimmiottano nei loro quadri quelle medesime immagini della scienza.
Il problema del rapporto tra arte e scienza è ben altro. L’utilità del binomio (per chi seriamente lo affronta, quindi con la padronanza intellettuale di entrambe le materie) si rivelerà solo mediante il confronto tra le ontologie dei concetti alla base dei due diversi campi disciplinari, attraverso l’indagine fenomenologica dell’osservatore, per chiudersi nella produzione di teorie epistemologiche descrittive di opere d’arte, o di scienza, perché, in fondo, la differenza non è tanta: è piuttosto la loro identità che nei secoli si è solo persa per strada…
A centodieci anni dalla scoperta della Relatività la scienza insegnata nelle scuole, e divulgata oggi, è ancora limitata a considerare esclusivamente i campi in cui si applica il rapporto causa-effetto.
Mentre il primo autore a prendere in seria considerazione la possibilità di indagare gli accadimenti, che avvengono attorno agli uomini, e che li riguardano talora con sorprendenti coincidenze casuali e acausali, con metodo scientifico, e con atteggiamento epistemologicamente corretto, ovvero senza ricercare la conferma o la sconferma di alcuna ipotesi eventuale, fu Carl G. Jung.
Colpito dal fatto che il radio iniziasse a disintegrarsi secondo un principio acausale, e forte dell’incoraggiamento di un fisico del calibro di Wolfang Pauli, Jung col saggio “La sincronicità”, ha lasciato testimonianza di quali stimolanti interrogativi si generassero nella mente di uno dei più importanti padri della psicanalisi di fronte alla complessa e aporetica informazione che la scoperta della relatività catapultava sul panorama dell’esistenza umana.
Drasticamente inserita nella propria dimensione euclidea la mente dell’uomo di cultura occidentale, salvo l’atteggiamento di accogliere nel contesto del proprio patrimonio piccole note di sapore esoterico come, per esempio, la sentenza di matrice orientale ἕν τὸ πᾶν, ha sempre cercato sicurezza nel principio di causalità, e mai accettato di buon grado l’inviolabilità dei segreti della natura. Mentre il pensiero orientale, considerando più saggio non porsi domande circa questioni destinate a rimanere misteriose, se indagate analiticamente, ricerca da sempre il raggiungimento dell’armonia riscontrabile nel semplice manifestarsi della natura mediante gli strumenti intuitivi a disposizione dell’uomo.
Il genio di Jung, per primo in occidente, dopo aver definito gli archetipi, convincendosi che la compresenza della natura fisica e psichica, nella realtà archetipica collettiva, riflettesse una matrice duale della natura (spirituale e organica), arrivò a postulare l’unità di psiche e materia.
Invece il primo scienziato delle scienze fisiche ad arrischiarsi sulla china sdrucciolevole del “nuovo”, proponendo un modello rivoluzionario della materia, fu Niels Bohr, che, formulando il principio di complementarità, riuscì a disegnare il suo modello dell’atomo, avvalendosi di due linguaggi distinti della fisica: quello che descrive la natura elettromagnetica della luce, e quello della fisica quantistica.
Come ha ricordato il Cassirer in “Simbolo, mito e cultura”, commentando proprio l’audace modello dell’atomo Bohr, osservò che “l’apparente contraddizione non è altro che la chiarissima e straordinaria riprova del carattere simbolico dei nostri concetti fisici fondamentali”.
Da quel momento il pensiero speculativo assunse una nuova consapevolezza: allo storico dualismo mente-corpo si aggiunse il “problema-opportunità” di aver individuato un ulteriore dualismo intrinseco alla mente umana.
Ogni fatto nuovo non compatibile con le descrizioni precedenti si presenta in modo problematico a chi fa ricerca, ma quello di riscontrare che c’è una fisica “oltre la fisica”, e che l’architettura simbolica della mente umana non possiede le facoltà per prenderne contezza, sembrava a molti una enormità, e tuttora, e verosimilmente per sempre resterà una questione irriducibile alle comuni facoltà umane di conoscere e capire.
In altre parole, la mente (la quale, già di per sé sembra scaturire miracolosamente dalla materia) arriva sorprendentemente a descrivere aspetti della fisica quantistica con l’intelligenza matematica, riuscendo a ignorare il suo prepotente istinto di negazione dell’inverosimile, e carpire alla materia segreti che superano il concetto fisico e filosofico di “mondo sensibile e intelligibile” (per parafrasare Kant).
Si può quindi tranquillamente dire che l’opportunità di potersi avventurare alla scoperta di una nuova e più ampia realtà che la mente ha riscontrato in sé, le ha contemporaneamente precluso la speranza di poter un giorno comprendere quella stessa nuova e promettente realtà.
A questo punto al dualismo mente-corpo si aggiungeva il dualismo mente capace di descrivere e capire la fisica classica, divisa dalla mente capace di descrivere ma senza la possibilità di capire la fisica quantistica.
Ma il commento di Bohr al proprio lavoro, laddove si riferisce al carattere simbolico dei concetti fisici, apriva anche una ulteriore opportunità di riflessione.
Dopo aver indicato opportunità e limiti della capacità simbolica della mente umana, si potranno infatti assumere gli archetipi nella loro “oggettività”, studiandoli nella loro valenza di operatori mentali connaturati, imprescindibili e prepotentemente condizionanti la struttura della mente e le sue funzioni.
E si tratta proprio di quegli archetipi, che dall’antichità si tentava di svelare completamente, al fine riscontrare in essi la valenza originaria e costitutiva della natura del pensiero; quella fertile e proficua matrice naturale, dalla quale sembrava fino a quel momento poter scaturire una spiegazione armonica, che, attraverso il familiare e confortante metodo analitico potesse riuscire, un giorno, a rendere conto del rapporto natura-cultura migliore possibile.
Archetipi quindi, non certo destinati a diventare marginali, ma la cui importanza potrà continuare a essere indagata (in sede diversa da quella psicanalitica) con diverso criterio di oggettivazione.
Ovvero mentre in passato il carattere necessitante, e al contempo arcano degli archetipi comportava inesorabilmente la loro mitizzazione, nel momento in cui nella mente umana venivano riscontrate capacità in grado di superare le proprie possibilità intuitive, senza dover perdere nulla rispetto alle proprie valenze specifiche collegate alla natura umana, gli archetipi erano tuttavia destinati a perdere la loro connotazione assolutizzante.
Infatti le facoltà intuitive e predittive emergono dall’esistenza attraverso la memoria delle esperienze individuali e sociali, le più rilevanti delle quali si consolidano appunto in archetipi.
Diventando quindi evidente che la simbolizzazione umana non poteva essere di alcun aiuto nella speculazione di realtà più ampie e non riducibili all’esperienza esistenziale dell’uomo inesorabilmente calata nello spazio e nel tempo, gli abituali simboli e archetipi concettuali non solo si dimostravano inutili all’indagine della fisica quantistica, ma senz’altro fuorvianti.
Rispetto al punto di vista esistenziale e fenomenologico umano il panorama della fisica quantistica appare una realtà ulteriore, una “correaltà” più ampia e inclusiva della realtà in cui si svolge l’esperienza del vivere umano.
Pertanto ogni strumento e caratteristica umana essendovi inclusa, non consente agli uomini altra facoltà se non di prendere atto di tale realtà ulteriore, prendere atto dell’aspetto “oggettivo” di se stesso, del pensiero e dei suoi contenuti, che potrebbero essere partecipati da una natura dotata di architettura ben diversa da quella che si è soliti intendere.
Prendere atto dell’aspetto oggettivo del pensiero e della coscienza nel contesto di una realtà più ampia di quella alla quale appartiene l’esperienza umana, non significa certo che pensiero e coscienza siano oggettivabili mediante esperimenti mentali che consentano al soggetto di “uscire da sé” ed esplorarsi dall’esterno (visto che uscire dalla realtà dell’esperienza umana, per entrare in quella della fisica quantistica si è appena evidenziato essere improponibile).
Potrebbe però significare che si possono raccogliere informazioni circa le capacità del pensiero (le percezioni, i contesti multipli, gli oggetti ideali, i modelli) dal punto di vista ontologico-fenomenologico-epistemologico, poiché ovviamente oggi non si può certo nascondere la testa sotto la sabbia asserendo con il puerile empirismo di Mach che “tanto nessuno s’imbatterà mai in un singolo atomo”, o con la presunzione intellettuale di Hilbert per cui una dimostrazione formale equivale a verità.
Tempo e Arte è invece dalla parte di Einstein, Minkowski, Gödel, Mandelbrot, e di tutti i veri grandi scienziati che hanno saputo dare una descrizione scientifica e filosofica di ciò che prima di loro si pensava impossibile anche lontanamente immaginare di poter gestire con intuito e ragione.
Attualmente sul panorama intellettuale italiano vi sono però ben pochi che siano in grado di occuparsi con la stessa dimestichezza di scienza e di filosofia, anche se ve ne sono molti che si arrogano il diritto di farlo, ma nella maniera più antifilosofica e antiscientifica che si possa immaginare, ovvero partendo da preconcetti culturali e ideologici, per cui, più che descrivere, o scoprire nuovi mondi speculativi, vengono operate continue e adiafore forzature.
Per non dire di quel che accade a livello divulgativo, ove, fatte pochissime eccezioni, per quanto riguarda l’arte, spiccano gli eruditi, che, in luogo di aumentare le capacità culturali di lettura delle opere d’arte da parte del loro pubblico, lo infarciscono di nozioni che non resteranno nella memoria di alcuno, tranne che nella loro.
Per chi volesse conoscere invece il metodo di studio che apprezziamo potrà seguirci sui prossimi numeri…