“Dalla natura al segno”: titolo perfetto, mostra splendida
Riccardo Panigada
FINO AL 29 MARZO A PORDENONE, NEL CENTENARIO DELLA NASCITA DI ARIETO BERTOIA
“L’inizio, se posso determinarlo con certezza, è stato quando ho messo un singolo filo metallico sul banco da lavoro con l’intenzione di curvarlo, e, mentre stavo facendo questo, ho sentito un suono […]; nel momento in cui, come dire, ho colto il nuovo elemento, immediatamente mi sono posto la domanda: – Bene, se un filo metallico produce un tale suono, che cosa potrebbero produrre due verghe metalliche, o dieci, o cento?” (cfr.Hbertoia, 1915-1978, “Decisi che una sedia non poteva bastare”).
Di solito, la mente umana, quando è concentrata su un compito da svolgere (anche se tale “compito” è completamente libero, come quello che un artista si è autoassegnato), resta fedele al controllo di ciò che si sta facendo, trascurando tutto il resto: bagliori e suoni di contorno vengono raccolti da una seconda attenzione, quasi inconscia, e capace di un bio-lavoro autonomo, che scrupolosamente confina in uno spazio dedicato ai “rumori sulla linea” tutto quanto non è strettamente pertinente al lavoro da svolgere: altri segnali potenzialmente significanti, distoglierebbero da ciò che, appunto, si sta facendo.
Si tratta di una difesa naturale, in quanto frutto dell’evoluzione, poiché, se, continuamente, durante un compito cruciale per la sopravvivenza, si fosse distolti da particolari inutili, il prezzo da pagare sarebbe evidentemente troppo alto.
Invece, per Arieto Bertoia, immerso nell’operosa tranquillità del suo laboratorio, i bagliori e rumori derivanti dalla sua attività non erano certo fastidiosi, ma piacevoli compagni, tanto che, a un certo punto, la serendipità del momento gli consentì di cogliere un prezioso suggerimento: tutto costituiva segnale, e potenziale motivazione artistica. Se un certo filo metallico produce un suono, e i musicisti sfruttano tale fenomeno da millenni, quale opportunità ciò può rappresentare per uno scultore, che avverta se stesso come particella sensibile e operativa dell’universo, la quale sperimeta le proprie facoltà espressive, cercando il limite costitutivo dei codici nel profondo dei propri sensi e del proprio intuito?
Già altri grandi artisti avevano intuito l’affinità tra linee, colori e note musicali, ma si trattava di maestri del segno sulla tela, come Kandinsky e Klee. Forse essi hanno immaginato di accompagnare la visione delle loro opere all’ascolto di una certa musica, ma non hanno certo rubato il mestiere ai musicisti mettendosi a comporla.
Ma l’aspetto più interessante della problematica è ancora a monte: non si tratta di mettersi a comporre musica, per associarla a un’opera d’arte non uditiva al fine di ottenere un effetto sinestesico ad hoc: si può forgiare un’opera e ascoltare i suoni che la natura delle sue forme e dei suoi materiali producono, quando sollecitate da un agente naturale, come la carezza di una mano, o magari del vento.
In sostanza non il semplice sfruttamento artistico della sinestesia, ma la consapevolezza che dimensioni sensoriali diverse sono semplicemente differenti declinazioni dello stesso fenomeno. Consapevolezza alla quale Bertoia è, con ogni probabilità, giunto attraverso la conoscenza delle diverse impostazioni dei grandi maestri del ‘900, che ha potuto più o meno direttamente conoscere o frequentare, e che egli ha saputo coniugare superando il puro atteggiamento sincretista: l’univocità espressiva caratteristica di ogni materiale, e di ogni tecnica doveva saltar fuori direttamente dal materiale e dalla tecnica utilizzata, così come dalla massima spontaneità e intuizione dello sperimentatore umano, non più “artefice-spettatore” dell’esperimento, ma fattore incluso, e, in quanto tale, condizionatore naturale del risultato dell’esperimento stesso. Ne scaturirono infinite possibilità, e sempre mirabili risultati, poiché puntualmente coerenti al rapporto uomo-universo.
Insomma, “Bertoia si dimostrava uno sperimentatore (forse in parte isolato, ma comunque informato), che sapeva essere in sintonia con le ricerche visuali più avanzate del proprio tempo” come osserva Angelo Bertani nel suo saggio all’interno dello splendido volume pubblicato in occasione della mostra.
Parimenti la fisica ormai da alcuni lustri aveva rilevato l’incolmabile paradossale distanza dell’uomo dalle stranezze del mondo quantistico, le quali “scompaiono nel mondo macroscopico” – come recentemente ha avuto modo di osservare il Nobel Serge Haroche, commentando il famoso esperimento mentale del gatto di Schrödinger, del 1935 -, mantenendo quindi viva l’inquietudine della ricerca nei confronti di un mondo inesorabilmente, e, ancora per diversi aspetti, incomprensibilmente, costituente primario di ogni altro.
Basti pensare che Gödel e Einstein sostenevano perfino che il tempo non esistesse, aprendo una nuova umanamente “inaccettabile” lettura della coincidentia oppositorum, che lasciava comunque aperta la problematica della inconciliabilità tra fisica quantistica e relatività, le quali teorie, ancora oggi, stentano a trovare una teoria unitaria.
Ma si tratta di una roblematica che per il taoismo, di cui anche Bertoia ha proficuamente subito l’influenza, rappresentava solo un’opportunità e non una preoccupazione. Infatti nel Tao l’unità del tutto non è messa in discussione dalle discrepanze, considerate invece semplicemente apparenti, e che indicano la finestra in cui si può ricercare intuitivamente l’intima natura di tutte le cose (che non necessariamente devono collimare), consentendo di esprimerla attraverso infiniti risultati, in luogo di tentare di eliminare le incongruenze razionali mediante risolutive equazioni.
L’idea dell’unitarietà del “Tutto”, oltre che la sua istintiva percezione, la profonda (e talora diretta) conoscenza dei grandi protagonisti della ricerca artistica e architetturale del ‘900 (tra cui Kandinsky, Moholy-Nagy, Picasso, Leger, Pollock, Saarinen, Eames, Gropius, Breuer, Mies van der Rohe, Breton, Ernst, Duchamp, Masson, Mondrian, Aalto), furono quindi gli ingredienti che consentirono ad Arieto Bertoia di giungere a una vera e propria scoperta, la quale portava l’arte alla facoltà di inquisire gli elementi nativi del sorprendente codice naturale unitario, esistente tra uomo, ambiente prossimo e universo.
Ogni opera di Bertoia, la sua Diamond, tutti i monotipi, i gioielli, e non solo le sculture sonore e i Fifty Drowings (cinquanta monotipi realizzati rapidamente uno dietro l’altro, quasi alla cieca, su fogli appoggiati all’incontrario su pannelli di masonite che trasferivano il colore), vanno dunque interpretati ricercando il risultato di quella visione pura, che lo stesso autore ha definito “visione interiore”, sulla quale lamentava che la ragione e la consapevolezza prendessero sempre e comunque almeno un po’ il sopravvento.
Ed è ancora una volta tale visione interiore, e l’esperienza raggiunta attraverso lo studio e i suoi fortunati incontri, che porta Bertoia a prediligere come forma espressiva la scultura, fino a interpretare come tale ogni espressione figurativa da lui creata: “Bertoia aveva dimostrato grande interesse per la ricerca di profondità, tanto che pensava di esporre alcune delle sue carte tra due vetri affinché la trasparenza a sua volta generasse spazio – rileva Bertani – e, nell’intervista del 1972, riferendosi alle sue opere degli anni ’40, egli stesso precisava: “la pittura è per sua natura sempre realizzata su un piano, e io ho iniziato a osservare, che, in qualunque modo fosse realizzata, si conformava a questo piano in quanto tale, o produceva un’illusione, e l’illusione è naturalmente parte dell’essenza della pittura stessa. Ma non era esattamente ciò che stavo cercando: tuttavia la supercie pittorica a sua volta mi ha portato a una concezione spaziale tridimensionale”. Inoltre, evocando il suo incontro con Gropius, al tempo degli studi presso l’Accademia di Cranbrook, ricorda la domanda cruciale che gli pose il celebre architetto: “che cosa sai fare con oggetti nello spazio?”.