Il sublime “furto” dello scatto d’autore
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“Io sono il ladro più ladro di immagini del mondo” ha confessato a Tempo e Arte Giovanni Umicini (Firenze 1931, uno dei grandi maestri dell’immagine fotografica del ‘900), in una recente intervista presso il suo studio padovano: una passione nata per caso dalla sua curiosità di quindicenne, il quale, avendo vissuto e toccato con mano gli orrori della seconda grande guerra, si ritrova in una Siena postbellica, città straziata ma nel pieno tentativo di risorgere.
Siamo nel 1946, periodo che non offre certo molte distrazioni o divertimenti ai giovani; specialmente per quelli di modesta estrazione unica possibilità era il patronato. Nella fattispecie la chiesa di Sant’Antonio di Padova, a Siena. È qui che il giovane Giovanni, con l’incarico di aiutante di Fra Paolo nell’allestimento del cinema estivo, prese in mano per la prima volta una macchina fotografica, una Super Ikonta 6 x 9.
Citando il maestro: “da lì nacque la febbre”, una febbre che non passò mai, e che dai primi otto scatti disponibili allora nel rollino, acquistato con i risparmi di una settimana, mostrò senza la ben che minima ombra di dubbio la sua vocazione. L’innato talento di Giovanni venne immediatamente colto dal fotografo Grassi, che gli propose di svolgere un “lavoretto serale” come aiutante di camera oscura. Figuriamoci. Quelli furono per il giovane Umicini i primi passi iniziatici all’interno del mondo della fotografia.
Giovanni si orientò immediatamente alla street photography, perché il suo interesse era (ed è sempre rimasto) quello di ritrarre i suoi soggetti in contesti e situazioni reali, colti di sorpresa per mostrare il loro aspetto più intimo e spontaneo. Inquadrature rubate in luoghi pubblici, per estrapolare l’epifania psichica dell’umanità, di volta in volta ritratta in diversi contesti di vissuto.
Si tenga presente che in quegli stessi anni nasce la street photography americana, quando, nella downtown di Manhattan Pollock e Kooning “si frequentano e si ubriacano spesso insieme, dipingendo episodi da romanticismo del dopoguerra. Come trascorrere la notte a passarsi la bottiglia di whisky seduti sul marciapiede, davanti al solito bar, mentre si lasciano andare a lunghe chiacchierate sull’arte, e si lodano a vicenda della propria bravura: – Jackson sei tu il più grande pittore americano ; – No, Bill si tu! Per stramazzare alla fine come barboni per terra e dormire in strada fino al mattino” (cfr.: F.Caroli, “Le vite degli altri” Electa Mondadori, 2014).
Ma il termine “street photography” non implica necessariamente che la figura umana sia sempre protagonista dell’immagine: può farne parte in modo più o meno significativo, quasi marginale, o perfino non essere rappresentata. È allora il paesaggio e i suoi elementi costitutivi ad abbandonare il ruolo di bella cornice, per assurgere a quello di protagonista della scena. Infatti, per fotografare, come per dipingere i “moti dell’anima”, come si diceva nel ‘500, può essere sufficiente raffigurare il contesto che li produce.
In ogni caso la bravura di Umicini emerge sempre versatile, dalla sua capacità di cogliere lo sguardo introspettivo e pensieroso di una bambina, la felicità di una semplice merenda, la impalpabile foschia mattutina che si mischia all’intreccio dei rami di un albero creando texture senza pari, il volo di un uccello, o l’indifferenza dei passanti innanzi a un bambino che chiede l’elemosina. Tempismo, inquadratura, e una sensibilità colta, che permette di cogliere l’attimo, sono la combinazione perfetta che può trasformare uno scatto in un’opera d’arte.
Se si vuole andare alle origini, la nascita di questa corrente fotografica viene collocata nella Parigi di fine Ottocento, quindi in una città multiculturale, che di buon grado accetta, sviluppa ed esalta le nuove idee. Qui lavorò Eugene Atget (Liburne 1857 – Parigi 1927), al quale viene unanimemente attribuita la paternità della street photography, che egli riuscì a proporre come nuovi soggetti dell’immagine le vie di Parigi.
Scale, finestre e giardini non son più elementi costitutivi di un’immagine artificiosamente costruita, ma diventano i
veri protagonisti della scena. Suo predecessore, ma non egualmente noto, fu il fotografo scozzese John Thomson (1837 – 1921), al quale si deve il passaggio dalla fotografia, intesa come eleganti ed elaborati ritratti, a quella che immortalava la realtà come la si poteva vedere per strada.
Ma, nonostante Umicini conosca perfettamente la storia e diffusione della street photography europea; e nonostante la sua esperienza maturata all’interno dei laboratori di ricerca della Eastman Kodak di Rochester e Harrow, si sente maggiormente affine ai padri della fotografia americani, i quali esprimono con maggior forza il rapporto tra l’uomo e il suo ambiente.
La corrente americana della street photography nasce nello stesso periodo (anni ’40 – ’50) in cui, finalmente, la musica jazz viene ufficialmente riconosciuta e apprezzata accanto agli altri generi in campo musicale. E, non a caso, sia il jazz, sia la street photography, sono accomunati da autenticità ed estemporaneità creativa.
Tanto che si potrebbe perfino dire, cedendo a una sorprendente sinestesia, che entrambe le arti possano emblematicamente rappresentare alla pari la corrente di pensiero artistico-culturale alla base della New York School of Photography, istituzione non ufficiale sorta alla metà del XX secolo, coagulando al suo interno differenti gruppi di fotografi. Tra di loro Robert Louis Frank (Zurigo 1924) con i suoi scatti grezzi e sfocati, che ritraggono l’”America nera”: inedita opportunità per i giovani di dedicarsi a un’arte fotografica più autentica.
Tra le forti passioni di Umicini naturalmente non manca New York, metropoli alla quale egli ha rubato gli scatti di diverse mostre, tra cui: New York Polaroid (1991), due mostre analogiche alla “Di Tury & David Gallery” di New York (1995 e 1996), nonché New York People (2003). Inoltre, nel 1957 Modern Photography pubblicherà una serie di sue fotografie, definendo per la prima volta Giovanni Umicini “fotografo della solitudine”.
Epiteto perfetto per Umicini, data la scarsa presenza di sorrisi nelle sue foto, che non cedono mai alla tentazione di colpire mediante falsa allegria dipinta sul volto delle persone, ma neanche hanno mai ceduto al macabro voyeurismo intrinseco alla pubblicazione di scenari di guerra dove siano ancora presenti tracce delle spoglie delle vittime. A lui interessa “l’unico momento in cui l’uomo è libero di fare l’attore come desidera, per la strada, perché in quel momento è solo, ma nel mondo: noi facciamo di tutto per mascherare i nostri veri sentimenti a chi ci conosce, per dare l’immagine di noi che vogliamo, ma in quel momento di “solitudine tra la gente” mostriamo realmente noi stessi, ed è li che arriva lo scatto, a fermare l’anima sulla pellicola”.
Aspetti di noi che non ci accorgiamo di esternare, e non notiamo quando ci vengono rubati, moderni ritratti della nostra interiorità, “colorati” dalle tinte intense e vibranti di un bianco e nero labile e leggero come lo zucchero filato.
Le fotografie di Umicini coprono l’ampio spettro temporale che va dagli anni Sessanta del Novecento, ai giorni nostri; ma è sempre quella peculiare eleganza degli anni Sessanta, per cui un bambino anche per giocare con la sua automobilina era vestito e pettinato di tutto punto, che egli ancora cerca; dalle sue immagini esala oggi il sapore della ricerca della raffinatezza perduta, inquisita nei gesti delle persone ormai anziane, formatesi nella cultura della gentilezza, quasi estranea alla società attuale.
Che il “fotografo della solitudine” appartenga ai grandi interpreti dell’immagine del ‘900 è storicizzato anche dalla mostra permanente “Giovanni Umicini per Padova” del Centro Culturale San Gaetano con i suoi 162 scatti di street photography, eseguiti in città dal 1956 al 2006.
Osservando le immagini, il visitatore riceve l’insolito dono di trovarsi in uno stato d’animo di strana malinconia, che non rattrista, ma, al contrario, consente di recuperare la serenità, non nell’immediato istante in cui si guardano i ritratti, ma riaffiorante al ricordo di quegli sguardi, di quei gesti, e di quegli scorci del centro storico della città in cui per molti anni ha insegnato Galileo.
“Quelle persone che cosa stanno aspettando, o chi stanno aspettando”? “E io che cosa aspetto”? “Noi aspettiamo solo la grande livellatrice, e, nel lasso di tempo che ci è stato concesso ne passiamo di tutti i colori”. Quindi attraverso la sua arte Umicini insegna ad apprezzare anche quelli che sono i momenti più malinconici e solitari del nostro viaggio, indispensabili infatti per comprendere la gioia, necessari come le ombre per cogliere la luce. Gioia e tristezza, natura ancipite della vita.
La passione di Umicini per la città del Santo non si è espressa unicamente attraverso la fotografia, ma anche mediante riprese da cinepresa. Egli inizia a filmare la città e i suoi abitanti utilizzando una cinepresa da 16 mm e pellicola rigorosamente in bianco e nero. Nel 1993 viene così realizzata la “Walking Camera” un documentario su Padova; cui seguirà, nel 1995 quello sulla Grande Mela opere che lo porteranno a svolgere l’attività di fotografo di scena.
Conosce così Henry King, Sirio Luginbuhl, Maurizio Targhetta e Carlo Mazzacurati, con il quale si instaurerà quel feeling professionale che porterà a una collaborazione continuativa nel tempo (1979, 2000 e 2010). Il risultato fu un nuovo concetto di “foto di scena”, non più realizzata contemporaneamente, e con la stessa angolazione della macchina da presa, ovvero duplicando di fatto la pellicola, ma scardinando i “precetti di base”, si realizzeranno immagini autonome rispetto all’occhio della cinepresa controllata dal regista.
Anche per quanto riguarda l’immagine in movimento Umicini indica dove oggi, troppo spesso, si scada in una mediocre retorica, esagerando coi primi piani sui dettagli (che in un filmato non dovrebbero mai superare l’8% del contenuto totale). Infatti, cameraman, o sedicenti registi, impediscono, così, di fatto, la trasmissione di quelli che invece dovrebbero essere i contenuti da veicolare. Ne derivano cattivi prodotti, conseguenti all’abitudine alla pratica della ripresa in ambito commerciale, dove è talora utile per motivi tecnici soffermarsi molto sulla ripresa dei particolari. Nessuno può però improvvisarsi regista nel campo della rappresentazione delle opere d’arte, che sono finalizzare per natura alla trasmissione di valori, da individuare all’interno dei rapporti peculiari con il contesto, gli allestimenti, gli atelier, la figura degli artisti. In altre parole non basta essere bravi con la macchina da presa, bisogna conoscere i linguaggi della regia, e per questi ci vuole cultura.
E se Umicini ne sa qualcosa, è perché nella sua biografia si incontrano nomi come quello di Pasolini, di Hans Hartung, e di Emilio Vedova. In particolare tra Umicini e Vedova vi fu una storica e profonda amicizia, che riuscì a conciliare l’animo che produceva una pittura istintiva e caotica, fatta di gesti impulsivi, che generano forti contrasti tra bianco, nero e colori primari, e quello invece ispiratore di fotografie calme e malinconiche, colorate solo da sfumature di grigio.
Salutandoci Umicini non resiste a sottolineare che continua ad aver voglia di sperimentare e di insegnare ad amare la fotografia.