La città del Genio. Leonardo a Milano
Marco Marinacci
Se l’evento principe che segna in ambito artistico il XVI secolo è l’emergere del Genio, la città che ne documenta la crescita e la maturità non è più Firenze, ma Milano.¹
I prodromi di questa “categoria critica”, più che nei Divin fanciulli – come Masaccio nel ‘400, ora Raffaello, e molti altri nei secoli che seguiranno, con astri che disegneranno rotte poetiche “parallele” nel firmamento artistico ² – va probabilmente ricercato nella figura di Donatello.
Lo scultore toscano, mentre a Firenze si presenta palese la natura plastica del suo genio, avverte però pressare intorno a sé i confini (culturali ed espressivi), che non gli consentono la fioritura piena delle sue qualità; sentendo pertanto ineluttabile la chiamata, dalla stretta cerchia medicea si trasferisce a Padova, dove il confronto coi maestri che hanno fatto già analoga esperienza – Giotto, Filippo Lippi, Paolo Uccello, Niccolò Baroncelli – fissa anche le coordinate di un viaggio. Un viaggio, quello del Genio, che però non arriva a compimento nel XV secolo, perché mancano due condizioni inderogabili: il tellus delle corti, aperto a influssi esterni e a tendenze eterogenee, e l’emancipazione dalla bottega.
A portare a maturazione il proprio genio sarà invece Leonardo, nei primi anni del secolo successivo, e la scena che si aprirà a questo nuovo corso dell’arte sarà quella della capitale sforzesca.
È il quadrato delle mura del Castello di Porta Giovia il perno sul quale si attesta il genio leonardesco, il luogo dal quale parte, per avventurarsi tra i meandri della città lombarda, non certo digiuno di pratica artistica (ancora però legata a un’attività artigianale di bottega che va in effetti – e sarebbe andata, se Leonardo non vi si fosse staccato – in un’altra direzione).
Quello del Genio non è solo il verificarsi di una precisa intenzionalità artistica, è il presentare al mondo un originale e autonomo orizzonte espressivo, che, solo a quello leonardesco, in quanto artefice e demiurgo, può essere ricondotto.
E’ così, infatti, che a Milano Leonardo supera le investigazioni del periodo fiorentino, attestate su un disegno – il primario del “pensiero in figura” nel ‘400 – di natura certamente indagativa, ma ancora lontano da quel linguaggio personale richiesto dalla vocazione poetica del Genio, per proiettarsi nell’orizzonte del ‘500.
Lontano da quel linguaggio era in particolare il segno interpretativo del primo Leonardo, in quanto mancante di una sua identificata connotazione e autonomia semiotica, ancora adeso com’era – in termini di indagine euristica – a una ricerca empirica derivata dall’attività di bottega, di lunga tradizione nella città toscana.
Quando si trasferisce a Milano, negli anni ottanta del XV secolo, Leonardo sviluppa un particolare interesse nei confronti della “scienza empirica”, che saprà trasformare questa prassi in vero e proprio metodo di ricerca sperimentale, dotato di una precisata semantica, talmente proiettiva, che, a giudizio di molti si dovrebbe parlare già di “metodo scientifico”.³
Con il passare degli anni Leonardo dedica sempre più tempo alle sue ricerche, e in particolare allo studio dell’anatomia. Il suo intento, infatti, è pubblicare un trattato illustrato su questa materia. Sarebbe stata l’opera di valore storico artistico (e probabilmente anche scientifico almeno per alcuni secoli) più importante mai scritta sull’anatomia. Ma il perfezionismo di Leonardo, le difficoltà incontrate nel conciliare l’osservazione empirica con le credenze tradizionali, e la sfortuna gli impediscono di portare a termine il lavoro. Alla sua morte, i suoi appunti sull’anatomia rimangono tra gli scritti privati.
Vediamo qui il verso del Foglio di Weimar v. (Schloss-Museum, Weimar), che rappresenta Studi del cranio e del cervello, appartenente originariamente al corpus dei disegni anatomici di Leonardo, il quale presenta una spettacolare veduta esplosa della scatola cranica, al fine di mostrare i diversi organi ivi ordinatamente alloggiati.
Il tutto è presentato come un’istruzione visiva per l’assemblaggio delle diverse parti di un dispositivo meccanico. Leonardo, con la scoperta del disegno esploso, non solo trasferisce un inesauribile potenziale di nuovi contenuti scientifici al campo del sapere medico – dobbiamo pensare anche a quanto il sapere tradizionale fosse ostile a tale genere di ricerche, tanto da tacciarlo addirittura di stregoneria -, ma si rivela attento come nessun altro all’Uomo, alla sua essenza, senza cadere nella trappola dei condizionamenti religiosi o normativi che investivano la cultura della sua epoca.
L’anatomia era tutt’altro, per lui, che una ricerca di canone riduzionista (e basti che siamo alla fine del XV secolo, non del XIX, con Freud, per intendere l’eccezionalità dell’atteggiamento Leonardesco), tanto che l’indagine leonardesca ha portato alla scoperta dei moti dell’animo.
Oggi la mostra su Leonardo a Palazzo Reale, curata da Pietro Marani, raccoglie l’indicazione del disegno come fondamento e “pensiero in figura” portante dell’opera di Leonardo, e tra le sue dodici sezioni espositive ⁴ indica come centrale il tema dell’anatomia, della fisiognomica e dei moti dell’animo, definito da Flavio Caroli.
È quindi sembrata necessaria a Flavio Caroli, in occasione dell’attenzione mondiale suscitata dall’Expo nei confronti dell’artista che più incarna l’ingegno della città sforzesca, una nuova pubblicazione sul genio fiorentino, legata all’ormai nota ricerca storico-artistica caroliana sulla fisiognomica. ⁵
Parafrasando H.G. Gadamer, la prima verità offerta dall’opera leonardesca è il suo metodo. E, prima ancora che nelle opere pittoriche, che si presentano quali “estratti”, o saggi autonomi dell’elaborazione euristica costante e indefessa del Nostro, l’innovazione metodologica si riscontra nei disegni, in quel Trattato della pittura che sarà il suo vero lascito all’umanità e alla cultura moderna.
Lascito che però subirà, come quasi tutto il resto dell’opera di Leonardo, un destino avverso: verso il 1580, lo scultore Pompeo Leoni acquista gli scritti di Leonardo, raccogliendoli in diversi album. Uno di questi contiene tutti gli studi anatomici, accanto a centinaia di altri disegni, che sono invece di stampo prettamente “artistico”. Nel 1690 quell’album entra nella Collezione Reale. La Biblioteca Reale del Castello di Windsor custodisce quindi quasi tutti i disegni anatomici di Leonardo giunti fino a noi. I disegni vengono quindi rimossi dall’album intorno al 1900.
Per uno strano gioco del destino, il secolo appena passato è così diventato detentore di una ricerca di sapere olistico, come quella leonardesca, divisa in fogli autonomi e settoriali, specchio inesorabilmente veritiero della parcellizzazione del sapere contemporaneo.
Ma, se la multidisciplinarietà (che, peraltro, nulla ha a che vedere con la interdisciplinarietà, la quale è l’unico atteggiamento scientifico cogente, mentre quasi sempre si confondono con grande leggerezza i termini), oggi è argomento nutrito e perorato da ampie fazioni istituzionali, Leonardo diventa ancor più attuale, nell’indicare l’importanza di un’opera di rilettura mereologica, la quale, per una comprensione corretta dell’intera produzione artistica e scientifica, deve entrare a far parte di un metodo contemporaneo di approccio critico ai tutti i campi del sapere. “Materie” che restano invece oggi miseramente ridotte a specialismi totalmente improduttivi sotto quel profilo ermeneutico, invece chiaramente indicato da Leonardo a Milano.
Basterà inoltrarsi nell’attuale paesaggio chiuso e aristocratico intorno a Porta Vercellina, per rendersi conto dello sfrangiamento fisico dei luoghi di Leonardo, che, invece, nei tanti taccuini di appunti quotidiani si ritrovano tenuti insieme e ricondotti a una visione organica della città, quale organismo autonomo e coerente.
I diversi fogli si presentano infatti come una sorta di “diario di bordo”, grazie al quale Leonardo riusciva a navigare attraverso le diverse “correnti” che lo portavano nei sestieri popolari, dove raccoglieva appunti fisiognomici, e in quelli della corte, dove prendevano vita le idee più complesse, come il Cenacolo.
Ed è appunto intorno all’edificio di Santa Maria, nel Borgo delle Grazie, che si trova una delle più ascoste e interessanti apparizioni del genius loci legate al Genio toscano: la vigna di Leonardo, un vigneto regalatogli da Ludovico il Moro come gesto di riconoscenza per «le svariate e mirabili opere da lui eseguite per il duca», mentre egli stava ancora lavorando all’Ultima Cena, situato sul terreno della vigna grande di San Vittore, secondo una direzione all’incirca parallela all’attuale via de Grassi.
Per visitarla, all’epoca, non essendo ancora aperta l’attuale via Zenale, si presume che Leonardo transitasse per il giardino della Casa degli Atellani. Oggi non è più possibile fare lo stesso percorso, ma l’occhio del flâneur che volesse scoprire e soffermarsi sugli stessi momenti ambientali per riceverne una impressione sensoriale simile a quella che possiamo immaginare cogliesse il Nostro, dovrebbe pensare di concedersi una pausa meditativa all’ombra del chiostro (dove è una parte della mostra dedicata all’opera grafica vinciana, che continua, all’Ambrosiana – depositaria del famoso Trattato – e a Palazzo Reale), per poi recarsi a quella che rimane come l’impressione in pittura di quelle lunghe giornate di vendemmia. Ovvero, non presso la Casa degli Atellani, la quale ormai riporta maldestramente il nome di “Vigna di Leonardo”, per il passante distratto o il city-user, che non riesce a metabolizzare l’indistinto paesaggio urbano, ma al Castello Sforzesco, dove, acclimatandosi all’ombra della Sala delle Asse, si potrà veder riformarsi davanti ai nostri occhi quel miraggio perduto nel tempo.
Si potrebbe dire che il Castello non presenta più il benché minimo accenno alla struttura originaria, al giro di mura, alle merlature, alle torri viste da Leonardo, ed è così. Però basta fare un salto alla Raccolta Vinciana, fotografare a mente alcuni dei suoi appunti, e riaffacciarsi alla corte, per comprendere che lì, in quella corte chiusa, e aperta al ricordo, sta tutto il senso del carattere ambientale della città, celato benissimo, ma scoperto da Leonardo.
E, seguendone la traccia, quei cortili, veri e propri horti conclusi in cui l’aristocrazia ritrovava la sua Arcadia, si aprono oggi alla comunità – in occasione dell’Expo – a celebrare il suo genio: dalle Stelline alla corte di Palazzo Reale, la città diventa accogliente, nel “ricordo”.
Allo stesso modo, grazie al ricordo (inteso come memoria), vediamo emergere la permanenza, la stabilitas del genius loci ⁶, che permette la ricostruzione. Ecco che nella torre centrale, la più alta del castello, la quale costituisce anche l’ingresso principale – detta Torre del Filarete, dal nome dell’architetto toscano chiamato a progettarla dal Duca Francesco I, distrutta da uno scoppio all’inizio del sedicesimo secolo, e ricostruita su progetto dell’architetto Luca Beltrami nei primi anni del Novecento -, vediamo ricomparire sorprendentemente l’antico genius loci… perché Beltrami, attento allo sguardo di Leonardo, riscopre le fattezze originarie della torre proprio nello sfondo di una Madonna con Bambino di scuola leonardesca ⁷, e in quella forma eidetica la riporta in vita.
Ma, Leonardo, oggi, è tutto qui: una ricostruzione a memoria, della sua opera; una ricostruzione che ci permette però, proprio per i meccanismi stessi che dobbiamo mettere in pratica per ritrovarne la totalità, di immergerci nel suo disegno, e operare integralmente, col nostro pensiero adeso al suo, a ricomporre l’unità d’intenti (d’intenzionalità artistica, diremmo in termini iconologici) del suo genio.
Cercare quella Milano, vuol dire mettersi in ascolto di quei “sussurri visivi”, di quei richiami silenziosi che la città lancia dalle sue quiete stanze, con garbata, gentile fascinazione verso il visitatore. Lui guardato, osservato continuamente da dietro una tenda, o da dietro la scena, che è il palazzo a cortina dell’isolato urbano milanese.
Uno dietro l’altro, infilando i passi nel solco dei tanti passi degli innumerevoli flâneures (Stendhal in primis), i quali hanno attraversato incantati gli scenari aperti e gli angoli bui della città lombarda, si ripercorre l’infinito eco che una passeggiata contemporanea può restituire. ⁸
Milano si presenta così come quella “città d’acque” che egli ha contribuito a costruire, e che simbolicamente torna a identificare, in termini iconologici di “immagine urbanistica” (tanto che si moltiplicano le iniziative in tale direzione, una per tutte: Riaprire i navigli, che da qualche anno riveste un ruolo attivo nel sensibilizzare la cittadinanza milanese verso una consapevolezza storica e fruitiva dell’ambiente urbano), tutto un pensiero che da Filarete a Bramante, fino ai BBPR, investe la capitale lombarda di un umanesimo di chiave moderna, e presente, in questa veste, solo in Occidente, ma in rarissime occasioni.
Oggi ci si continua a chiedere come mai Leonardo a ricordo di quei vent’anni milanesi ci abbia lasciato solo una riga, scritta velocemente di traverso in un foglio: «Il duca perse lo stato, la roba e la libertà, e nessuna opera si finì per lui».
Ma la spiegazione, a guardar bene, è lì davanti ai nostri occhi: nessuna parola può rendere veramente giustizia alla verità storica, la quale traspare solo all’occhio dello storiografo veramente attento da ogni singolo tratto di matita fissato in disegno, in quei venti anni di attività milanese.
Note:
1) Si veda l’editoriale n.2 dell’anno I. Come anticipato in altri articoli, la volontà dello sviluppo tematico di questo “secondo anno” – o ciclo editoriale – della rivista, è quella di creare una sorta di “stratigrafia ermeneutica”, sovrapponendo al primo livello di lettura storico-critica, collegata al contesto temporale delle tendenze artistiche primarie – definito in secoli – un secondo livello collegato al contesto ambientale, ovvero le città, le corti, i luoghi dell’arte, che diventano i catalizzatori di quei “primari”, di quei precisi e orientati “pensieri in figura”.
2) Si fa riferimento a Raffaello, Parmigianino, Valentin de Boulogne, Cantarini, Watteau, Van Gogh, Toulouse-Lautrec, Tancredi, Gnoli, Manai e tanti altri…quelli che, in un testo ormai celebre che delinea una ricerca affrontata da Flavio Caroli nell’inseguimento del Genio –Trentasette. Il mistero del genio adolescente, edito da Mondadori – vengono definiti divini fanciulli, fermatisi sulla soglia dei trentasette anni.
3) Locuzione che, inserendo il suffisso “proto” (e leggendo quindi proto-scientifico, sarebbe plausibile, secondo un criterio di indagine di impianto fenomenologico, in merito almeno al periodo lombardo della produzione leonardesca, e, non tanto per la certezza – che pure sembra fondata – di raggiungere termini critici predittivi, quanto per ipostatizzare una corretta lettura di ordine semiologico).
4) Il Disegno come fondamento; Natura e scienza della Pittura; Il Paragone delle Arti; Il Paragone con gli Antichi; Anatomia, fisiognomica e moti dell’animo; Invenzione e Meccanica; Il Sogno; Realtà e Utopia; L’unità del sapere; De coelo et mundo: immagini del divino; La diffusione e la fortuna: dai leonardeschi al Trattato della Pittura; Il Mito.
5) Flavio Caroli, Leonardo. Studi di Fisiognomica, Electa 2015.
6) per usare una delle categorie critiche adottate da Christian Norberg-Schulz nel definire il Genius Loci.
7) Madonna Lia del pittore leonardesco Francesco Napoletano.
8) Uno spunto in tal senso viene dal bell’articolo di Lodo Meneghetti:
http://www.eddyburg.it/2015/06/dove-la-bellezza-di-milano.html