La storia allo specchio, generazioni anni Cinquanta-Settanta in conflitto*
Rolando Bellini
Limitiamoci a un unico rilievo nei riguardi dell’ultimo dopoguerra: da un lato si torna a Picasso,2 riconosciuto capofila dell’arte del XX secolo, dall’altro si consuma nel fuoco il resto estremo dell’eredità illuminista ch’era sopravvissuto fino a tutti gli anni Trenta, con conseguenze clamorose che si manifesteranno appieno solo allo scadere degli anni Settanta, attraverso lo spartiacque del Sessantotto.3 ) Parrebbe dunque affermarsi quanto enunciato in due celebri redazioni da un dipinto a tema sacro del Caravaggio, vibrante e attuale folgorante metafora pittorica dipinta in due indimenticabili versioni del Sacrificio di Isacco, l’una più cristallina e complessa, oggi conservata a Princeton, l’altra, oggi agli Uffizi, forse denunciante un qualche intervento altrui che abbisognerebbe d’una indagine nella cerchia degli amici del Merisi per essere identificato;4 un’opera che presenta in ogni caso più d’una interpretazione possibile.5 Uno dei possibili significati “moderni” di queste due pitture dedicate a un unico “sacrificio” o tema parrebbe altresì alludere a una problematica che guadagnerà in crescendo, nei decenni che seguono, attualità: il tema del passaggio generazionale soggiacente alla messa in crisi del nome del padre secondo la “lezione” dello psicoanalista francese Jacques Lacan, frequentatore della cerchia surrealista di André Breton e prim’ancora degli artisti parigini della scuderia Kahnweiler, capintesta i cubisti e poi ancora frequentatore, pure, dei caffè parigini animati dalla nouvelle vague, con qualche concessione pure verso gli esistenzialisti capitanati da Jean-Paul Sartre e Albert Camus. Viene svelata così una possibile vicinanza e cioè un qualche interesse per il Merisi da parte dell’eroe del giorno, Pablo Picasso, colui a cui tutti guardano per un reinizio attorno al 1947-48. L’ossimoro indicibile (richiamante il settimo enunciato che governa il Tractatus logico philosophicus di Ludwig Wittgenstein) testé dichiarato implicitamente – per tornare al nostro incipit – e a cui parrebbe legarsi in qualche modo anche l’esito di quanto sovverrà dà conferma del fatto che gli effettivi riscontri, il definitivo resto di una tale fenomenologia husserliana risulterà essere di lunga durata. Provocante conseguenze inattese, attorno allo scadere degli anni Sessanta e tutta una serie di riverberi e di inaspettati risvolti fors’anche più incisivi e duraturi del pregresso nel corso del decennio che segue, su cui s’incardina l’annunciato tramonto della sfida modernista. Il cui resto irrisolvibile, almeno apparentemente, del quale aveva già tentato, anni prima, di sbarazzarsi Friedrich Nietzsche, con una riluttanza sintomatica, è almeno in parte il nostro contendere. Su questa barriera corallina, difatti, una generazione naufraga e l’altra che la incalza, viceversa, prende il mare aperto e si porta al largo, avventurosamente. Ma come darne conto? I primi riscontri di ciò, si potrebbe congetturare, al di là d’una prima irrefutabile constatazione domandano approfondimenti a petto di registrazioni diseguali o se si preferisce della differente tracciabilità delle fenomenologie artistiche implicate nell’arco di tempo summentovato – che, ricordiamolo, corre tra 1949-1950 e il dopo Sessantotto fino a comprendere perlomeno tutti gli anni Settanta – e che vengono a porsi come parte attiva di questo scarto generazionale e una sequela di istanze, un coacervo d’inferenze che gettano nel panico chi voglia abbozzarne una qualche classificazione o censura storico-critica rilevando un dichiarato svuotamento, una ennesima smobilitazione di tutti i valori e le potenze preesistenti. “È così che il Movimento Moderno [a partire soprattutto dalla metà degli anni Cinquanta] perde terreno e da più parti – scrive nel 2017 Patrizia Mello – nel mondo nascono movimenti di pensiero che contribuiscono alla messa in discussione di quel progetto ordinatore”6 sollecitato in ultima analisi dall’eredità illuminista recuperata e restituita a nuova vita dall’ultimo positivismo, ma al prezzo d’un perfido tradimento. Un progetto, peraltro, rilanciato, in questa seconda metà del XX secolo, in prima istanza dal neo-razionalsimo critico, in seconda dal fascio delle esigenti risultanze di speculazioni d’inedito conio fra cui risalta il portato ultimo dell’attivissimo Circolo di Vienna, il “Circolo di Vienna” tutto intento a discutere il lascito del Tractatus e i suoi possibili intrecci linguistici con le nuove avanguardie. Messe nel sacco – diciamocelo – dall’avida ricostruzione post-bellica quand’essa giunge alla piena velocità. Il cui effetto immediato corrisponde a un vero e proprio saccheggio territoriale, culturale, ideale, etico e morale (nell’accezione kantiana, s’intende). E nella massiccia falsificazione e derubricazione dell’arte contemporanea, quella buona o autentica a tutto vantaggio di contraffazioni stipulate ad hoc da un sempre più invadente mercato dell’arte di lontana e confusa matrice americana.7 Ma in molti naturalmente non se ne avvedono, neppure fra i presunti addetti ai lavori, imbambolati come sono da tisane e “bustine di Minerva” più e meno accattivanti-distraenti, firmate da destra e da sinistra, mentre al centro la palude s’è tradotta ormai in una morta gora fangosa. I preludi della caduta degli dei classicisti e dunque del Moderno stanno già manifestandosi. Tutto qui. Si dovrà procedere, allora, impugnando una cinquedea da parata8 per sfrondare, alla bisogna, l’inestricabile cespuglio e anzi l’agrifogliera accecante e impenetrabile delle falsificazioni ricorrenti, degli abusi ingiustificati, in una parola dei disastri che vanno affermandosi sul versante delle arti con speciale privilegio per le arti del giorno a causa di questa insensata ricostruzione tutta protesa al profitto, selvaggiamente dominata dal profitto,9 per volontà unanime – ma il partito di don Sturzo, il Partito d’azione vengono smantellati appena prima – dell’attuale partitocrazia.10 Madrina della sbandata odierna, potremmo anche aggiungere sempre focalizzati sul litorale (lacaniano) delle arti e dell’architettura contemporanea. Com’è confermato da quanto è proposto in un particolare giro di anni da un susseguirsi di fenomenologie artistiche, per lo più decisamente ideologizzate e persino politicizzate: “Dalla Beat Generation al movimento Fluxus, dalla pop art agli stessi ‘situazionisti’ che hanno avuto in Italia una base importante tramite il MIBI (Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista) concepito nel 1953 in Svizzera da Asger Jorn con l’obiettivo di prendere di mira l’universo degli oggetti ben disegnati che Gropius aveva fatto sbarcare a Weimar nel 1919”.11 E soprattutto con l’intento programmatico di opporsi a quello che appare ora come l’ultimo esito, retorico, del razionalismo funzionalista di matrice Bauhaus, la cui discendenza – il suo resto – rivela, all’improvviso, un profilo inedito. Sennonché, si debbono ancora tirare le somme di questa turbolenta epoca storica e ciò induce oltre che a qualche approfondimento aggiuntivo, anche a una prudenza programmatica: i se e i ma divengono prassi. Lo attesta la stessa vicenda di nicchia testé richiamata. Tra le motivazioni del MIBI – aggiungiamo in fretta – si leggono comunque asserzioni conformi al clima generale poc’anzi sunteggiato giustificandone pienamente l’esistenza, tanto controversa, pur sempre una fra le tante risposte alle differenti criticità che svelano il risorgere d’un tema caro alla grande Vienna di Wittgenstein12 in cui agiscono personaggi come Loos, Kraus, Freud, o Malher e soprattutto, volendo insistere sul fronte musicale, Shoenberg: l’assenza d’una parola rivelatrice, la povertà del linguaggio sino a questo momento abitato come luogo identitario dell’uomo (almeno, questo è uno dei temi di fondo del Tractatus wittgensteineiano), secondo cui viene a configurarsi l’universo mondo di nostra pertinenza. Vista in quest’ottica può forse intendersi, allora, la ragione di fondo del perché mai sia stato costituito questo strambo “movimento” da Jorn e sodali. Probabilmente, esso può esistere facendosi carico delle conflittualità sociali e culturali in atto. Lo lasciano intendere le dichiarazioni dello stesso Jorn il quale va domandandosi il perché dell’attualità ch’egli stesso interpreta con il MIBI.13 Replicando, inoltre, a Max Bill nel corso del I Congresso Internazionale dell’Industrial Design che si tiene presso la X Triennale di Milano, il 30 ottobre 1954 Jorn presenta, a suggello del sin qui richiamato, una relazione il cui titolo programmatico suona come una vera e propria sfida, esplicitando l’intento primario del MIBI, dal momento che esso recita: “Contre le fonctionnalisme”.14
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Allineiamoci allora, condividendo per un momento l’insofferenza nei riguardi dell’ormai manierata istanza razionalista, l’uggia appena mascherata nei confronti dei “maestri” che lo precedono, le altre inquietudini che stigmatizzano l’agire di Pinot Gallizio: quest’eccentrico farmacista e botanico-officinale, archeologo, partigiano e consigliere comunale (e chi più ne ha più ne metta), amico di Fenoglio e di tant’altri intellettuali del tempo.15 Fermiamoci un momento a considerare la parabola artistica di Pinot Gallizio. Giusto per recuperare i fatti che più gli appartengono e che si debbono ritagliare in funzione di queste annotazioni. Jorn, Galizio e Simondo fondano, nel 1955, ad Alba, il Primo Laboratorio di esperienze immaginiste del MIBI. Galizio, attivissimo, dà vita sempre ad Alba, nel 1956, al I Congresso mondiale degli artisti liberi, che dibatte sul tema, oggi datatissimo, all’epoca all’ordine del giorno: “Le arti libere e le attività industriali”; un convegno tumultuoso, nel rispetto del clima che si viveva allora; tanto turbolento da provocare sin dal primo giorno un urto generazionale e uno scontro fra giovani della stessa leva o quasi: Baj e sodali e il cosiddetto “movimento Nucleare” che, a Milano, suo quartier generale, ruota attorno a Lucio Fontana, abbandonano il simposio.16 Ne serbava ancora un nitido ricordo uno dei partecipanti di spicco, Ettore Sottsass Jr., dal momento che me ne parlò nel corso d’uno dei nostri reiterati incontri con lucida precisione e una certa veemenza. Prima di voltare pagina del nostro handbook – perseguendo il filo narrativo intrapreso – si dovrà richiamare l’attenzione sull’esordio fiorentino di Raushenberg che finisce in Arno17 a conclusione d’una sua prima esposizione (che precede assai la mostra che gli verrà tributata dopo i trionfi della Biennale di Venezia del 1964, quand’egli è premiato con il Leone d’Oro,18 e cioè a dire l’ampia antologica di Forte Belvedere del 1976). Allo scopo, la sua parte banale, di ricordare il clima di allora, l’ottusità tremenda di Firenze o, viceversa, la sua inaudita lungimiranza e un suo costante atteggiarsi un po’ snob, un po’ troppo nobiliare, paradossalmente. Così come si dovrà pur spendere qualche parola in merito al riverbero suscitato anche in Italia e particolarmente all’interno dei raggruppamenti testé ricordati da L’Independent Group, attivo a Londra dal 1952 al 1955, all’interno dell’ICA (acronimo dell’Institute of Contemporary Art), “a cui aderiscono lo stesso Alloway e gli Smithson”.19 Questo raggruppamento varerà nel 1956, presso la Whitechapel Art Gallery di Londra, la mostra This is Tomorrow, che rappresenta in qualche modo l’annuncio della Pop art.20 Hamilton, McHale e John Voelcker presentano un lavoro il cui incipit è una domanda, la stessa nostra domanda: “Arte They Cultured?”. Per il catalogo e uno dei poster dell’esposizione Richard Hamilton realizza l’arcinoto collage Just what is that today’s homes so different, so appealing? (Ma cos’è che rende le case di oggi così diverse, così attraenti?).21 In poche parole, trattasi d’una fenomenologia messa in campo per irritare fino alla rottura ogni rappresentante della generazione che precede. Se, in vero, questi montaggi di immagini riecheggiano, ai nostri occhi, certi esercizi Dada e Surrealisti d’anteguerra – rivelando così precisi debiti storici – non vi è dubbio che comportano pure una differente strategia assembrativa, altro spaesamento, una poetica infine affatto originale – datatissima e cioè tale da ancorare questi stessi lavori agli anni di loro pertinenza, al clima che va predisponendo l’affermazione tanto clamorosa della Pop art – e chiamano in causa a vario titolo tant’altre azioni “pop” che, di fatto, risultano di palese rottura con l’immediato ieri: penso, su tutto, per restare in quest’ambito o fenomenologia artistica, all’avveniristica proposta del cosiddetto Group 8, alias Richard Mattheus, Michael Pine, James Stirling, i quali intendono l’architettura come “arte pratica”, finendo quasi per “anticipare di parecchi decenni – sostiene Mello (suscitando una sequela di interrogativi: vero o falso? E ancora: quale possibile relazione può esservi con Le Corbusier?) – un tipico fenomeno dell’architettura contemporanea e in particolare di architetti-artisti-scultori quali, per esempio, Frank O. Gehry”.22 Propongo: ben altro, una apparecchiatura, nell’un caso come nell’altro, che risente decisamente della proposta strutturalista ed anzi è, di fatto, una traslazione trasfigurata dello strutturalismo, sia pure differentemente assunto. Andrebbe dunque stabilito chi viene prima e chi dopo, i linguisti ribelli – che si ribellano da un lato al portato dello Jakobson e sodali e dall’altro alla logica matematica di Bertrand Russell e compagni – o gli artisti rivoltosi che tagliano i ponti con le generazioni che li hanno preceduti e nutriti, allertati, istruiti e frenati, persino soffocati?
Che cosa cercavano di affermare queste iniziative? Un fallimento annunciato delle pregresse generazioni, in buona sostanza, o no?, o piuttosto un’utopia vivificante che ne rilancia alcuni aspetti od elementi, al prezzo tuttavia di decontestualizzarli radicalmente, assecondando infine procedure o modalità che a tutt’oggi parrebbero attuali. Un fare generale insomma che, in questo frangente storico, assume tratti caratteristici, diversificandosi nettamente da tutto il pregresso, prossimo e remoto. Fino al punto di suggerire una duplice originalità: innanzi tutto, una differente dialettica storica che proietta in primissimo piano l’attualità (prefigurando istanze post-moderne) e poi un’investitura non solo simbolica, non soltanto iconografica e iconologica e neppure unicamente formale seppur nell’accezione linguistica emergente, affatto inedita rispetto al formalismo russo d’anteguerra, nonché la stessa Scuola del Trinity College capitanata da Russell, dunque tutta una serie di negazioni od assenze che allontanano da quest’arte il fantasma estetico fino a questo momento costantemente presente come un’aura benjaminiana necessarissima, proponendosi nelle pur differenti declinazioni o interpretazioni agite, quale conditio sine qua non dell’opera d’arte, persino –dopo l’anno in cui – è il 1954 – i coniugi Smithson avevano avviato la critica al Movimento Moderno con la formazione del “Team X”,23 se non il 1967, anno del battesimo ufficiale per l’Arte Povera, una realtà emergente italiana, in virtù dell’articolo pubblicato da Germano Celant su “Flash Art”. Per afferrare che o che cosa? Parrebbe il nulla che pretenderebbe peraltro di afferrare il vuoto pascaliano, giacché la gran parte delle sperimentazioni di allora, specie in Italia, sono tramontate, sono scadute senza lasciare effettiva traccia. Almeno, ufficialmente (inquietante, nevvero?). D’altra parte il Post Modern nella declinazione rilasciata in Italia a muovere grossomodo dall’avvio degli anni Ottanta con evidenza irrefutabile ha sottratto all’arte contemporanea ogni riferimento storico, tutti i suoi nutrimenti e così quest’ultima si presenta come una vuota piazza “metafisica” di Giorgio de Chirico, uno spazio cavo deprivato d’ogni possibile presenza, ad eccezione dei calchi di figure statuarie, idoli di gesso che si propongono come simulacri enigmatici: tautologie vane o, al più, parodie di sculture assenti.24 Diresti allora, assommando gli indizi sin qui enumerati allo scopo di stabilire un nostro paradigma indiziario, che il “collage” – una sperimentazione, una cosità artistica iniziata forse, negli anni eroici di primo ‘900, da Georges Braque, in età moderna – assuma un ruolo emblematico: si fa emblema della svolta modernista in atto. Che lascia il discorso in sospeso, però. Un dire inconcluso – dunque, inconcludente? O sadiano? Cioè indicibile nell’accezione wittgensteiniana più volte richiamata? – su cui dovremmo spendere speculazioni opportune, inaugurando un’argomentazione ermeneutica raffinata. Ammettiamolo: in merito a cui è arduo abbozzare anche solo un sommario profilo, un qualche paradigma conclusivo.
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Che cosa resta da dire? Forse, a voler perseguire le conflittualità e discontinuità come pure e all’opposto le continuità e armonie fra generazioni, dell’irrisolta identità del Sessantotto che sembrerebbe riflettere, al di là della sua forza evenemenziale,25 luci ancor oggi irrilevate nello specchio della storia adorato da Alice26 e che hanno particolare incidenza in merito a quanto è suscitato, nell’arco temporale considerato, in campo artistico. Un ambito sensibile alla ribellione.27 Si ricava allora, per sottrazioni e scarti progressivi, una vicenda che tuttora è cronaca e non storia – quest’approdo le è negato, per più ragioni – e così, raccogliendo i frammenti del sin qui segnalato, le tracce acquisite in ordine sparso, le suggestioni scomposte piovuteci addosso, il riverbero del nostro specchio, ecco che possiamo dare voce all’italianissima Poesia Visiva, ancor oggi costretta sotto una cappa di piombo che, di fatto, le nega la notorietà legittimata da ricerche poetiche d’una raffinatezza sciatta unica e irripetibile, da eleganti non sensi, da smarrimenti affascinanti, da perdi menti richiamanti le demenze della storia moderna, le smemoratezze d’una storicità senz’anima: il lato felicitante dei decenni sin qui interrogati.
Non potendo, in questa sede, renderne conto analiticamente mi limiterò a pochi appunti e a richiamare solo alcuni tra gli amici-interlocutori d’essa, di questa maledetta Poesia Visiva, sottraendomi a ogni tentazione storicistica. Intendo dire che riassumerò sostanzialmente i fatti che vedono in azione personaggi che ho frequentato e di cui, per lo più, son diventato, giovanissimo, amico e frequentatore, nutrendomi dei loro preziosi saperi e delle loro particolarissime audacie espressive. Ma è pur sempre necessario un antefatto storico: nel 1954 si costituisce a Firenze – mia città natale e di formazione universitaria – la Schola Fiorentina con i musicisti Bruno Bartolozzi, Arrigo Benvenuti, Alvaro Company, Carlo Prosperi, Reginald Smith Brindle e Sylvano Bussotti: ne ho parlato io stesso e più volte proprio con quest’ultimo, anche abbastanza recentemente.28 Soprattutto me ne parlava mio padre, ottimo strumentista (clarinetto in primis, pianoforte, viola, fisarmonica ecc.). Si dedicavano i membri della Schola alla musica dodecafonica in linea con l’insegnamento di Luigi Dallapiccola, che è stato anche maestro del pur autodidatta, in parte autodidatta, Luciano Berio. Con Luigi Nono fra i più originali compositori italiani contemporanei, o sbaglio? Il ponte che lega quest’avventura musicale, intendo la Schola Fiorentina, alle sperimentazioni americane, John Cage su tutti, e ha dunque implicazioni Fluxus, – irrompendo così tramite incidenze non certo secondarie, attraverso la danza e la musica, la coreografia, quant’altro, con quanto attiene squisitamente l’ambito artistico afferente la visione, la formatività etc. – questo legame virtuoso ha per quanto riguarda l’Italia, a mio avviso, quest’origine o fondamento fiorentino.29 L’Associazione del Grossi, Vita Musicale Contemporanea, inoltre, ebbe essa pure un ruolo rilevante e poté vantare per presidente il fisico Giuliano Toraldo di Francia – padre fra l’altro di uno dei leader del Superstudio, l’architetto Cristiano Toraldo, un caro amico – e fra i suoi adepti Giuseppe Chiari.30 L’orologio della storia si muove tra 1961 e 1967.31 Non va trascurato però il concerto che John Cage tenne nel 1959 alla Società Leonardo da Vinci che aprì un dialogo seppur a distanza, ma diretto, – fecondo soprattutto per Chiari – proprio con Fluxus.32 Ero troppo giovane, all’epoca, ma più tardi ho avuto modo di interrogare una pattuglia di amici artisti a muovere da Eugenio Miccini33 proprio in merito a quest’avvincente storia fiorentina – il ramo fiorentino della Poesia Visiva – che prendeva sempre più le distanze da tutt’altro orientamento dedito alla pittura-pittura (sostanzialmente una pittura figurativa emotiva, oltre ogni residuo espressionistico, ogni ricaduta romantica, decadente o crepuscolare) non senza sommesse inferenze internazionali: vale a dire che pigliava le distanze dagli adepti d’una figura mitica di artista-soldato della Grande guerra, costantemente messo in discussione a Firenze per più e più ragioni, Ottone Rosai.34
Per chi suona la campana? Quello struggente titolo affatto sonoro e visivo dello Heminguay torna sempre attualissimo quando si sente approssimarsi la scadenza del tempo concessoci. I ricordi mi stanno trasportando lontano dalla rotta tracciata: poco male, posso gettare fuoribordo il mio antico portolano. Viene così da sorridere malinconicamente nel richiamare questi accadimenti di fatto datati o circoscritti alla contingenza loro (quel tempo irripetibile), ma pur sempre autentici e d’uno spessore raro nel loro stesso vissuto, nel loro essere stati e nell’inconfutabile “esserci” dal vago sapore heideggeriano. Ancor più nel constatare, contestualmente, una loro fragile fuga verso un passato sempre più passato.35 Al tempo stesso, si è aiutati, oggi, dal contributo di sempre nuovi studi dato che, da qualche anno, si assiste – e il saggio della Mello rientra precisamente in quest’ottica – a una più ponderata revisione storica; una più consapevole revisione prospettica che tenta, ultimamente, con la freddezza del distacco emotivo un’inquadratura adeguata o rispondente alle verità della storia, nient’affatto inibita dal sapere che si tratta pur sempre di una verità “interpretata”, come suggeriva Nietzsche. Ma con quali risultati? Per dare una pur parziale risposta a questo interrogativo si dovrebbero ripercorrere a ritroso, ancora una volta, questi turbolenti anni, venendo poi a confrontare l’esito di questa nuova esplorazione alla ricerca dei passi perduti di taluni protagonisti, delle differenti angolature prospettiche offerte dalle differenti generazioni che hanno calcato la scena da protagoniste in questo arco di tempo, con il già detto e con le altrui narrazioni tentandone infine un qualche loro riscontro con la sodezza della storia indagata e con l’attualità, l’oggi avvinghiato al sempre più fragile litorale contemporaneo, tuttora orfano d’una denominazione convincente dopo il tracollo improvviso, – come ebbi a scrivere proprio in quell’anno – ch’è avvenuto nel 1994, del Post Modern, dietro cui restano, in effetti, ben scarni elementi, laconici e illativi documenti. Ma ciò, naturalmente, non è soddisfacente: urgono altri frettolosi paradigmi indiziari, altre ipotesi congetturali, altre frammentarie narrazioni e testimonianze. Soprattutto si dovrebbe intraprendere tutt’altra esposizione saldamente incardinata su inediti paradigmi, su altre inespresse congetture e confutazioni. Che dire, allora, delle attività anche sovranazionali del Gruppo Centro Proposte? Un Centro che può definirsi un punto di riferimento artistico-musicale d’avanguardia attivo fino al 1967, da quand’è fondato, a Firenze, nel 1963 – l’anno prima, il 1962 nella sede romana della Galleria Numero di Fiamma Vigo,36 in piazza di Spagna, Chiari e Bussotti curano la mostra “Musica e Segno”, un avvenimento37 – da Lara Vinca Masini, già assistente editoriale del Ragghianti quand’era giovanissima e ora critico e curatore indipendente. Bussotti – che a Parigi frequenta Max Deutsch e per suo tramite arriva a Cage, Nannucci, Guarneri, Dezzi Bardeschi, ma anche Morettiu, i Bueno, Loffredo, la carovana degli amici-interlocutori – tutti attivi in questi presidi artistici – s’allarga a vista d’occhio.38 La “neo-nata” Poesia visiva con Pignotti e Miccini meriterebbe un approfondimento richiamante, tra l’altro, il Gruppo 70.39 Infine lo stesso Chiari terrà proprio in consonanza con le sfide e le attività del Gruppo 70, nel 1977, a Bologna, un Concert presso la Galleria d’Arte Moderna a cui partecipammo in massa.40 Frattanto, Maria Gloria Bicocchi, la figlia d’un altro interlocutore privilegiato che mi convinse ad approdare all’Accademia, Primo Conti – il quale mi esortò, in più occasioni, riaffermando sempre il medesimo slogan, a quello sciagurato approdo, dicendomi: “Vai a insegnare nelle Accademie di belle arti, fortilizi di libertà!” – all’inizio del 1973 fondò assieme al marito Giancarlo un centro di produzione di video-arte in via Ricasoli, “art/tape/22”, attivo fino al 1976.41 Ma le mie frequentazioni lì erano sporadiche poiché inclinavano piuttosto verso due gallerie, Schema – fondata in via della Vigna Nuova nel 1972 da Cesaroni Venanzi, Alberto Moretti e Raul Dominguez – e Zona – aperta in via San Niccolò da parte di un drappello di artisti, architetti e musicisti tra cui Moretti, Chiari, Maurizio Nannucci, Paolo Masi, Massimo Nannucci, Albert Mayr, Gianni Pettena, Mario Mariotti.42
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“Tout est sommeil autour de nous” (Tutto è sonno intorno a noi), scrive nel 1947 nella sua calligrafia pittorica richiamante le scrittura dannunziane e le altre, coeve, di amici e interlocutori dell’artista, Georges Braque.43 La nostra curiosità di apprendere da chi erano vergati tali rilievi è soddisfatta, grazie agli scatti fotografici che, negli anni, ha realizzato Brassai.44 L’affievolirsi lento, magico, di Braque è testimonianza emblematica del clima ormai storico che si va richiamando. Viene da dire: ciò che più si avvicina a queste testimonianze e agli scatti fotografici di Brassai sono, forse, quei primi e tanto sperimentali e timidi collage, quei papier-collé di Braque che attirarono l’attenzione di Picasso e che oggi risultano inesorabilmente ingialliti, fragilissimi. Essi sembrano emanare la polvere della storia or ora riesumata e che si propone come un ricordo indicibile slittato in un passato remoto in buona parte irrecuperabile.45 Un clima elegiaco prende allora possesso di noi e ciò che ne discende registra puntualmente il mutare delle cose, il cambio generazionale in atto che trascina con sé un generale rivolgimento implicante anche l’arcipelago artistico. La ricerca di veicoli particolari, di atti significativi, di pensieri estetici (che poi non sono solo pensieri artistici) in grado di recuperare tutto questo e attraversare i ponti generazionali che di tempo in tempo ribaltano il loro stesso orientamento, dalla rive gauche alla droite e viceversa, per dirla richiamandosi alla Parigi artistica.46 Ebbene, quest’intrigante e complessa ricerca neo-proustiana non è certo cosa agevole da realizzare in poche pagine e tuttavia, essa risulta essere viepiù necessaria alla luce dei fatti del giorno, vuoti di memorie e ancor più di ricordi, dunque aridi di sentimenti.47 Una ulteriore riflessione in merito al tema propostoci, con particolare riferimento all’ambito artistico, proprio alla luce di queste ultime lacunose e laconiche considerazioni, non può certo arenarsi su questi pochi elementi, sul sin qui proposto. Al contrario, deve proseguire il proprio cammino risalendo la corrente del torrente della vita, cercando di limitarne quanto più possibile la trasfigurazione falsificante, la declinazione mitopoietica. Essa suggerisce allora un altro pur asciutto frammento-e-paragrafo che, in quest’ottica, approssimandosi a una conclusione parrebbe in grado di arricchire indiziariamente il secco profilo storico sin qui delineato e che vorremmo recuperare per farne l’ultimo fulcro archimedeo su cui far leva dando forza al nostro stesso argomentare. Ma prima, prima occorre dire di quale ribalta si vada ragionando. Che cosa ha caratterizzato il pregresso e quali eredità ha proposto? Diciamolo con le parole spese da Jean Clair nel 1975 per introdurre il “caso” Duchamp: “Una doppia dislocazione”. Per di più, com’egli asserisce: “Una doppia dislocazione [di cui] Non se ne sono ancora valutate tutte le conseguenze”48. È questa la nostra conclusione o piuttosto una fra le possibili? E dunque, non si è giunti a capo di nulla e anzi, s’è costretti a riaprire il gioco delle nostre congetture, delle nostre asserzioni e confutazioni. Offrendo il fianco, beninteso, alle altrui congetture, asserzioni e confutazioni. Sollecitate dal “caso” Michelucci per quanto attiene il connubio Fiesole-Firenze, la “mia” Firenze che ha dissipato i suoi eroi.49 Perché l’ultima testimoniale esperienza d’uno strappo generazionale lascia l’amaro in bocca: sono scomparsi senza lasciar traccia alcuna, nessun passa parola, nessuna delega ad amici più giovani e così, a Firenze, tutto è silenzio. Rimane tuttavia – direbbe quel geniale eccentrico di Giovanni Klaus Koenig – l’irritante élitarismo orgoglioso dei fiorentini che gareggia giorno dopo giorno con le pietre, i palazzi, i campanili e le torri, i ponti sull’Arno d’argento. Giovanni Michelucci, però, si pone sin dal principio di traverso e lega fra sé differenti generazioni fondando, nel 1945, “La nuova Città”, rivista su cui io stesso ho scritto qualcosa.50 La sua “lezione” corrisponde al progettare un’architettura-foresta, viva e salda, monumentale e umile, naturale e innaturale, gonfia d’umanità. L’alimento ad altre imprese, minime e non, viene da lui innanzi tutto.51 Se e quando si guardi all’architettura e al tessuto urbano, per le idee conta di più, forse, il nucleo costituitosi al Magistero, da Luigi Baldacci a Mario Luzi, da Mazzino Montinari a Ferruccio Masini ad altri noti (e dietro le quinte Giorgio Colli), da Giulio Preti a pochi altri – mentre l’assistente suo, Ermanno Migliorini, col quale, aggiungerò, ho discusso a lungo con felicitanti esiti, aveva firmato il “manifesto” dell’Astrattismo Classico, con gli artisti, Nativi, Nuti e gli altri.52
Altro elemento di riflessione possibile, altro e fors’anche conclusivo, perlomeno in questo caso, è dato, in effetti, dal mutato senso della parola oggi dominante, e che ricorre serpeggiando in questa stessa scrittura: il termine “tecnica” che ab ovo era implicato dall’arte, secondo Aristotele e che, a quanto pare, dilaga inopinatamente con l’affermazione del mito Bauhaus e delle altre proposte coeve da cui abbiamo preso le mosse. Ebbene, quest’imperante “tecnica” che – si è visto – coinvolge sempre più significativamente le arti e l’architettura richiamando razionalità e razionalismo in modi non sempre limpidi e per di più si mescola sovente, a mano che, allontanandoci dal dopoguerra, procediamo verso la post-modernità, a “tecnologia”, dove va a parare? Che cosa suscita quanto meno in Italia, se indagata a dovere? Quale risposta – più e meno insolente – viene a dare, se interrogata come si deve? Ne scrive per noi, nel 2018, muovendo in parte dall’identificazione dell’essere con il linguaggio secondo istanza heideggeriana,53 Gianni Vattimo sostenendo: “Esiste una ‘questione della tecnica’ oggi? Heidegger ha ripetuto spesso che l’essenza della tecnica non è nulla di tecnico”. E ancora, poco oltre: “non c’è una questione tecnica della tecnica […] Molto semplicemente, la questione della tecnica è di natura metafisica o ontologica. In altri termini, ha a che fare con il significato della tecnica per la nostra esistenza e in relazione a ciò che chiamiamo essere, verità, valore”.54 Altrimenti detta: il linguaggio è parte di noi – una parte essenziale – e da ciò discende l’importanza di dare un nome alle cose, di riflettere su di esso, di domandarci quali ricadute si abbiano nel passaggio generazionale. Dal momento che un suo inconfutabile segnale è dato proprio dalle nuove denominazioni, dall’impiego di nuove terminologie o dallo svuotamento dei vetusti significati d’esse. Molta parte dell’evolversi dell’arte contemporanea tra ultimo dopoguerra e nuovo millennio, questo millennio e secolo, deriva da questi mutamenti linguistici, dal mutare dello stesso argomentare, dalle nuove nomenclature che vengono messe in campo di volta in volta da chi assume il timone. In ogni caso, convengo con questo filosofo: “Si potrebbe dire che il problema della tecnica è che essa nasconde e dissolve i problemi”.55 Probabilmente è vero che “la tecnica è una specie di ‘seconda natura’ per l’uomo civilizzato”.56 Dunque? Allertiamoci, onde non confondere la “tecnica” con le “tecnologie” avanzanti, né possiamo cedere a derive fuorvianti e invece dobbiamo seguire, su questo almeno, Heidegger domandandoci: “ma abbiamo davvero bisogno, oggi, di un’estetica dei confini?”,57 o no? L’excursus sin qui compiuto che mette, sottotraccia, in competizione anche stridente le susseguenti generazioni per rilevarne la legittimità, lo strappo che divide le une dalle altre e porta a un rivoluzionamento generale del linguaggio stesso mette in gioco con questo tanto emblematico passaggio generazionale, anche i “confini dell’arte”. Implicando così la nostra stessa esperienza dell’arte.58 È così che sommando multiculturalismo a scarti o salti e scontri o passaggi generazionali affatto dolci e armoniosi, considerando nei giusti e attuali termini questa pluralità oggi dilagante e in costante evoluzione secondo una insorgente complessità, si può arrivare a ben comprendere con la rilevanza d’una ermeneutica linguistica, di un’ontologia linguistica, e parimenti d’una fenomenologia linguistica e d’una eguale articolazione sul piano esperienziale, anche il ruolo cruciale del passaggio generazionale. Un passaggio che impone una riformulazione radicale dell’estetica e con essa dell’arte, in tutte le sue esplicitazioni.59
- *1 Sorta di sommario abstract desunto dal più articolato saggio del sottoscritto, “Tout est sommeil autour de nous”, la storia allo specchio tra anni Cinquanta e Settanta (2018), redatto in margine al corso monografico su Picasso, relativo all’anno accademico di studi 2017-2018, svoltosi in Accademia delle belle arti di Brera, in corso di stampa.
- 2 L’altro grande enigma, con Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, della pittura a cui si consacreranno le nuove generazioni emergenti nell’ultimo dopoguerra come i seguaci “nucleari” di Lucio Fontana, a Milano. Altrove, drappelli diseguali d’altri sperimentatori avventurosi.
- 3 Anni fecondi malgrado le censure oppositive sostenute dallo “sciagurato ventennio”, per dirla con Umberto Terracini, o forse tanto fecondi proprio a causa di ciò, giacché le costrizioni esaltano frontiere libertarie come quella artistica. Le parole virgolettate fanno riferimento a una memorabile conferenza del Terracini, tenuta nell’Aula magna della Statale di Milano, l’8 gennaio 1975, su Le origini del fascismo, cui seguì – lo ricorda anche Fabio Minazzi (nella sua Prefazione a Antonio Maria Orecchia, La moralità dell’antifascismo. Guido Bersellini e il suo impegno politico, intellettuale e civile per il rinnovamento dell’Italia, Mimesis, Milano-Udine 2018, p. 15) – un leopardiano “nudo silenzio e una quiete altissima”.
- 4 Si rilegga il bel saggio di Mia Cinotti, Caravaggio. La vita e l’opera, Bolis, Bergamo 1991, dov’è ricco apparato iconografico con riprodotta l’opera americana summentovata a p. 49.
- 5 Proponendo proprio in questa duplicità redazionale un varco conoscitivo verso la pittura di “realtà” qual è intesa nell’accezione longhiana: quel dichiarato “realismo” metastorico (astorico, in vero) imposto da Roberto Longhi che fa di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio l’eroe del giorno e l’archetipo proto junghiano dell’arte contemporanea allorquando, si è nel 1951, Longhi tirando le fila di studi avviati nel 1914 allestisce una gran mostra caravaggesca in Palazzo Reale, a Milano, coinvolgendo con i quesiti caravaggeschi e gli antefatti lombardi del maestro anche lo scontro frontale in atto fra pittura figurativa o della realtà e non figurativa o astratta, fra pittura del realismo socialista o marxista e pittura dell’astrattismo moderno che, in effetti, divideva i creativi in contrapposti schieramenti e divideva anche la critica contemporanea pasticciando un inopinato coinvolgimento della politica, chiamante in causa la più scottante attualità. Nel 1951, va ribadito, grazie a questa memorabile mostra curata da Roberto Longhi esplose, in effetti, il “caso” Caravaggio subitamente assurto, tra non poche polemiche, a star e dunque iscritto permanentemente fra i grandi protagonisti della storia della pittura europea. Vedi André Berne-Joffroy, Il Dossier Caravage. Psicologia delle attribuzioni e psicologia dell’arte, tr. it. [e cura] di Arturo Galansino, 5 Continents, Milano 2005.
- 6 P. Mello, Neoavanguardie e controcultura a Firenze. Il movimento Radical e i protagonisti di un cambiamento storico internazionale, Pontecorboli editore, Firenze 2017, p. 8
- 7 Un tarocca mento generale che va traducendosi in un’illeggibilità del “fare” arte (architettura inclusa, naturalmente) del tempo presente che provoca un rancore generale e una siderea lontananza nei confronti delle più sofisticate, ma autentiche, esperienze artistiche. Potremmo aggiungere in margine: a tutto vantaggio delle parodie allestite ad hoc da una pletora di lacchè, di comprimari e cicisbei, di cortigiani senza scrupoli che si servono d’un sempre più ambiguo e offuscato veicolo artistico per assecondare il sistema e soggiacere totalmente al potere, come ebbero a denunciare, in Italia, con parole di fuoco e differenti bersagli, poniamo, Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia.
- 8 La stessa che tiene al fianco Mercurio nella Primavera del Botticelli conservata agli Uffizi, quadro enigmatico, quadro alchemico.
- 9 Una ricostruzione post-bellica che, sopraffatta da quest’accecante avidità, con la bussola del razionalismo modernista ha perduto anche il senso delle cose, la dignità del lavoro corrispondente a quel “saper fare” che, bene o male, aveva disciplinato non poche azioni inerenti o semplicemente affini e limitrofe alla galassia artistica persino durante gli anni oscuri dell’ultimo o secondo periodo del regime mussoliniano, ciò che ha offuscato anche agli occhi vigili degli storici i contributi allo svecchiamento dell’Italia offerti nel corso del “ventennio” – per meglio dire: del primo decennio d’esso – da non poche riforme e iniziative fasciste.
- 10 Stigmatizzata da autori di illuminanti critiche quali il filosofo Ludovico Geymonat e lo storico dell’arte Carlo L. Ragghianti, le cui testimonianze consapevoli dovrebbero esser rilette di tempo in tempo per misurare il polso politico-culturale del nostro Paese e l’effettiva corrispondenza tra il governo della cosa pubblica e le linee-guida esposte dalla Costituzione italiana che dovrebbero disciplinare ogni singolo atto di chi si fa carico della guida della nostra Nazione.
- 11 Ahimè, il testo pur assai ben documentato – scoprendo così una qualche sommessa impostazione ideologica condizionante – prosegue serenamente così: “Idee, queste ultime, che trovano casa nel Manifesto della pittura industriale (1959) di Pinot Gallizio”, P. Mello, op. cit., pp. 8-9.
- 12 La referenza bibliografica non può essere che al noto volume di Allan Janik – Stephen Toulmin, La Grande Vienna, tr. it. di Ugo Giacomini, Garzanti, Milano 1975 e 1984.
- 13 “Perché – si risponde l’artista – [noi] consideriamo l’attività creativa non come un dono divino ma come una capacità, rinforzata dalle esperienze nuove ed inattese, metodologicamente indirizzate”. E ancora: “Perché abbiamo creato una nuova teoria estetica, superiore a quelle esistenti, mediante la considerazione che il non-estetico non è il Brutto e il Ripugnante ma l’Insignificante ed il Noioso”. Ivi, p. 18.
- 14 Si rinvia per approfondimenti a Mirella Bandini, a cura di, Pinot Gallizio e il Laboratorio Sperimentale d’Alba, Galleria Civica d’Arte Moderna, Torino 1974, p. 75.
- 15 Egli si è avvicinato all’arte grazie al pittore-ceramista Piero Simondo, all’epoca studente di filosofia a Torino (covo di talenti, all’epoca, ma torneremo forse a dirne, benché ne abbiamo già trattato in più occasioni, vi insisteremo, magari in altra proposta editoriale…).
- 16 Perché mai? Anche una sommaria risposta imporrebbe un’ampia digressione, un intero paragrafo di annotazioni. Oppure una attenta rilettura dei “manifesti” promossi e firmati da Lucio Fontana con lo sguardo rivolto, obliquamente, ai fatti testé richiamati. Certo è, tuttavia, che allora i giovani artisti e no che venivano in contatto con tali problematiche sapevano manifestare un rigore e una consapevolezza che oggi sfugge ai più (e che, per esempio, permette a un neonato museo, il Museo del ‘900 di Milano, tanto per non far nomi, di esporre sullo stesso piano opere certificate di Lucio Fontana e un remake mal fatto, un “falso” fontaniano insomma, ma di grande impatto visivo, fingendo d’ignorare che questa replica aggiustata in qualche modo attraverso superstiti fotografie affinché rassomigliasse all’originale perduto che fu esposto sullo scalone muziano della Triennale inganni e faccia sognare – male? – i giovani visitatori del “museo del falso”, per dirla richiamando una mio stesso articolo apparecchiato non per caso per “Il Protagora”, rivista semestrale universitaria di fronda, a modo suo, indubitabilmente libertaria!).
- 17 Me ne parlava sempre, ridendo alle spalle dei critici illuminati di allora, un caro amico che tuttora rimpiango, Paolo Marini, titolare con lo scrittore Piero Santi – altro indimenticabile e caro amico e raffinato-potente scrittore – di molteplici iniziative contromano in ambito artistico, una figura di riferimento per l’Oltrarno fiorentino.
- 18 Va ricordato, esce questo stesso anno il saggio di Umberto Eco, Apocalittici e integrati, ma forse è meglio non dirne, o no? Del resto di U. Eco si riparlerà per Firenze dal momento ch’egli è stato tra i protagonisti della turbolenta vita universitaria fiorentina, del dibattito culturale fiorentino in anni oggi mitici.
- 19 “Gli anglosassoni – osserva Mello – sono tra i primi a fare leva su una revisione dei fronti culturali, su una rottura degli argini che aveva basato tutto sulla distinzione e revisione colta dei ruoli”. P. Mello, op. cit., pp. 94, 95-96.
- 20 “We resist the kind of activity which is primarily concerned with the creation of a style. We reject the notion that ‘tomorrow’ can be espressed through presentation of rigid formal concepts. Tomorrow can only estende the range of the present body of visual experience […] Tomorrow is shut up in today and yesterday. This instant is the starting point. Ato know this instanti s a proof of life” sostiene l’Indipendent Group nel presentarsi presso la Whitechapel Art Gallery di Londra, nel 1956, per la mostra This is Tomorrow,evento di avvio della cultura e dell’arte pop. Ivi, p. 97.
- 21 Va ricordato che Hamilton e Alloway mostrano una maggiore lucidità nel prefigurare i caratteri della Pop art americana degli anni Sessanta: “Il 16 Gennaio del 1957, in una lettera agli Smithson, Hamilton eelenca le principali caratteristiche della pop art […] popolare (pensata come per un’audience di massa), transitoria, consumabile (facilmente dimenticabile), a basso costo, prodotta in serie” ecc.. Ivi, p. 102.
- 22 Ivi, pp. 101-102.
- 23 L’architettura “brutalista” muove così i primi passi. Converrà ricordare che il termine deriva dal francese “beton brut” (calcestruzzo grezzo) che in inglese viene tradotto con “Brutalism”. Sostiene Mello: “Il primo edificio propriamente neobrutalista è la scuola di Hunstanton (1949-54) degli Smithson che lasciarono a vista non solo la struttura in acciaio dell’edificio ma anche l’apparecchiatura muraria e tutta la rete degli impianti” (Ivi, p. 95. Vedi anche Banham 1955, pp. 28-39). Mentr’invece per l’architettura italiana si ha la solitaria produzione d’un Vittoriano Viganò, brutalista per caso, fiancheggiatore delle iniziative sin estetiche del Bloch, un eccentrico geniale. Suoi l’Aula magna della ex Facoltà d’architettura del Politecnico di Milano e l’Istituto Marchiondi Spagliardi, recente oggetto di attento studio e pubblicazione monografica.
- 24 Oppure spazi vuoti attraversati da ombre proiettate da presenze fuori campo, perciò indeterminate e impalpabili, a cui è forse affidato il compito di ricordare la caducità dell’ora trascorrente che accompagna l’apparente parabola solare e dunque, per estensione, quella della breve giornata della vita umana, essa pure inafferrabile come queste impalpabili e vane ombre. Suggerimenti riallacciabili poi, in un susseguirsi di criticità, di deviazioni, di corruzioni e deragliamenti, per esempio, a un’indubbia ventata di novità, con autori discutibili ma geniali come Koolhaas, oppure Hollein, e/o all’avvento di realtà kitch sorprendenti quali, poniamo, un ponte gettato oltre l’inconnu e cioè a dire la duplicazione della mitica e reale Venezia – un “caso” davvero emblematico – che si sdoppia negli States in una singolare realtà urbana californiana: una iniziativa la sua parte paradossale e anzi più che paradossale (si erano già verificate, infatti, repliche assurde, ora di questo e ora di quell’edificio monumentale storico, ma mai una simile proposta) e tuttavia sospesa ai confini di Metafisica dechirichiana e Surrealismo bretoniano che merita comunque attenzione e su cui si rinvia all’originale pubblicazione di testi fotografici a confronto, una pubblicazione allestita e pubblicata bilingue – italiano e inglese – da Christian e Irina Costache, Venezia (Italia) e Venice (California). A Visual Essay, Un saggio visuale, Sestanteinc, Bergamo 2015.
- 25 Per dirla con Alain Badiou, Ribellarsi è giusto! L’attualità del Maggio 68, tr. it. Alberto Destasio, Orthotes, Napoli-Salerno 2018.
- 26 Una vaga allusione autoreferenziale, un mio remoto studio, in effetti.
- 27 Sempre affascinato dal clima di ribellione e mobilitazione di massa che segna profondamente la generazione sopravvissuta ed emergente, a sua volta, dai disastri della ricostruzione post-bellica, segnati a fuoco dal marchio d’una feroce avidità ancora memore della bestialità hitleriana e delle violenze feroci della guerra, o no?
- 28 Allorquando, assieme ad Athos-Angelo Collura e alcuni colleghi docenti al seguito, tra cui Guido Pertusi per “anatomia artistica”, l’ho invitato e ospitato in Brera, l’Accademia delle belle arti di Brera dov’egli ha mostrato le proprie opere ed eseguito le sue musiche, tenendo un breve concerto inedito!
- 29 Ma dovrei precisare, aggiustare come si deve la storia aggiungendo una pletora di dettagli per poi arrivare al 1960 con l’assunzione nell’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino e l’insegnamento al Conservatorio Cherubini del violoncellista Pietro Grossi, pioniere della “musica elettronica”. Questi fonda, nel ’60, l’associazione Vita Musicale Contemporanea all’interno del Conservatorio. Uno scandalo meraviglioso!
- 30 Sarei tentato di dire ben di più, dilungandomi assai per Cristiano Toraldo, sua mamma, indimenticabile, sua sorella e l’intera famiglia sua, nonché la cerchia degli amici comuni, così come dovrei effondermi nel testimoniare le lunghe frammentate o pausate conversazioni con Chiari, indimenticabile davvero anch’egli. Sarà per un’altra volta vistoché sul Superstudio vado apparecchiando qualcosa, un piccolo saggio che muove da una revisione del “fare” del capofila Adolfo Natalini.
- 31 Superando così l’alluvione del ’66 che colpì duramente un altro mio luogo d’elezione, la Stamperia d’arte – ora scuola internazionale di specializzazione, una scuola speciale – de Il Bisonte, creata da Maria Luigia Guaita, quel disastro che affogò tante opere d’arte di fatto mi indicò, per più ragioni, la strada da seguire: gli studi artistici e storico-artistici sommati a molto altro ancora a mio avviso di complementare, ma dominanti sin da allora.
- 32 E la scoperta conseguente dei suoi attori, ricordati anche da Mello: a p. 127.
- 33 Conosciuto a L’Indiano, la galleria del Marini all’epoca in piazzetta dell’Olio dietro l’Arcivescovado, in un acceso dibattito a cui partecipò dalla nostra parte – di me e d’altro studente, Andrea Del Guercio – Roberto Salvini, gran medievista e mio docente, nonché il direttore dell’Istituto di storia dell’arte della Facoltà di Lettere a cui afferivamo e del quale fungevo, a quel tempo, da assistent student, volontariamente. Il volontariato è prassi tutta italiana, naturalmente, ma a tutt’oggi utilissima per chi voglia imparare davvero.
- 34 Sul conto del quale le mie più significative fonti dirette sono state persone fisiche, cari e preziosi interlocutori: Paolo Marini e Piero Santi, inoltre il pittore Enzo Faraoni. Perché Sergio Scatizzi, interrogato in merito, pur avendolo conosciuto preferiva girare il discorso sul sodale-ammirato De Pisis.
- 35 Minacciato costantemente, come sempre, dalle tante ingenuità concettuali e terminologiche adottate. Pagano tutti, questi accadimenti artistici, il peso negativo di ideologie opache, ormai obsolete e vacue, ma che, allora, avevano un ruolo rilevante. Soffrono insomma il coacervo delle potenzialità e delle debolezze generazionali che vengono a riflettersi, in quella stagione ormai storica e persino remota ai nostri occhi di contemporanei, in tutta una serie di evidenze. Di cui, peraltro, è necessario aggiungere, le poche annotazioni sin qui fatte non riescono certo a rendere piena giustizia. Trattasi, difatti, d’una fenomenologia particolare, per dirla ancora con Husserl, a cui corrisponde una sequela di imprese artistico-culturali ammantate non di rado di fatua politicità, giacché l’intellettuale doveva apparire se non essere “organico” per appartenenza dichiarata o implicita a questo e a quello schieramento partitico, a questa e a quella ideologia politica, fraintendendo non poco l’ultimo lascito gramsciano. L’eredità politico-culturale di Antonio Gramsci e di pochi altri, in vero, resta tuttora lettera morta, quantunque sia stata oggetto d’un articolato dibattito (almeno apparentemente vivacemente rivolto allo schiarimento dei suoi punti nodali). Tanto è vero che conviene rileggere tout court le fonti, a muovere dai gramsciani “diari”, quei suoi preziosi “quaderni dal carcere” prima di tutto.
- 36 La quale aveva inaugurato la propria attività pionieristica nel 1951!
- 37 Giacché s’inaugura una testualità musicale, una partitura, una lettura e un’interpretazione musicale inedita. Partiture per violoncello, per pianoforte “a base di segni” dichiara Giuseppe Chiari, tanto che “si possono scambiare per pittura segnica”. Vedi A. Alibrandi, Giuseppe Chiari. Mi hanno cercato, Edizioni Il Ponte, Firenze 2006, p. 10.
- 38 Ne ha scritto nel 1967 proprio la Masini.
- 39 Costituitosi ufficialmente a Firenze in occasione del convegno “Arte e comunicazione” al Forte di Belvedere, nei giorni 24-26 maggio 1963, a cura di Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti. Vi partecipano fra gli altri Luciano Ori, Lucia Marcucci. Si sono poi uniti al Gruppo 70 altri amici e conoscenti quali Ketty La Rocca, Sergio Salvi, i fratelli Bueno, lo stesso Chiari e Silvio Loffredo (allievo di Kokoschka) con sul fronte letterario Luciano Anceschi, Mauro Bortolotto, Gianni Scalia, Roman Vlad, nonché il caro Eugenio Battisti e l’appena mancato, ultracentenario, Gillo Dorfles.
- 40 Non debbo dimenticare neppure Renato Ranaldi e il suo Timparmonico, 1972.
- 41 Un fra i più accreditati ospiti dello studio è Bill Viola, arrivato a Firenze nel settembre del 1974. Ma il primo video prodotto è di Chiari, Suono.
- 42 Memorabili due-tre suoi eventi-happening fiorentini: Ostacolo, cioè la chiusura di carta dell’uscita del Teatro Metastasio di Prato, nel 1972 (lo stesso dove ho frequentato Luca Ronconi, ospite di non pochi suoi laboratori teatrali), il grande No, nel 1974, sulla cupola di Brunelleschi per il referendum sul divorzio promosso dai radicali di Marco Pannella e da altri schieramenti politici, infine ben più tardi, Firenze in Piazza Santo Spirito, Oltrarno.
- 43 G. Braque, Cahier 1917-1955, con un omaggio [Georges Braque] di Brassai, tr. it. di Francesco Martini, Abscondita, Milano 2002, p. 105.
- 44 Il quale ne ha poi scritto memoria, chiosando le proprie fotografie: “Le espressioni del viso di Braque, che si sovrappongono nei miei ricordi, vanno affinandosi. Il tempo, lontano dal nuocer loro, le nobilitava”, sostiene Brassai. Per aggiungere poi: “I ritratti che feci a Braque negli anni ’60 sono assolutamente più espressivi rispetto a quelli risalenti agli anni ‘30”. Ma perché? Forse perché il passaggio del tempo e l’inesorabile allontanamento delle generazione degli eroi delle avanguardie artistiche di primo ‘900, nati tutti nell’Ottocento, finisce per assumere una patina nobilitante e, con essa, un valore aggiunto, o no? Segue, nel testo testimoniale di Brassai, una citazione illuminante, un cammeo del volto dell’artista che Brassai riporta condividendone appieno il fascino enigmatico e l’esito parziale: “Cranio possente da negro bianco, spalle e collo da pugile, carnagione molto scura, capelli neri ricciuti, baffi rasati, tratti profondamente incisi”. Con queste parole Fernande Olivier, l’“incantevole amica di Picasso”, tratteggiò un ritratto dell’artista risalente all’epoca di Montmartre. “Ma, – enfatizza Brassai – curiosamente, [Fernande] non si sofferma sui suoi occhi”. A cui segue l’osservazione conclusiva: “Era necessario che i capelli s’incanutissero per dar finalmente risalto ai suoi occhi?”. Tratto da Georges Braque di Brassai, Ivi, p. 129.
- 45 Effettivamente quanto affettivamente irritrovabile, dal momento che molti amici e interlocutori oggi non sono più.
- 46 Quella stessa “ville lumière” che dal secolo filosofico è, di fatto, la capitale culturale mondiale – malgrado una effimera parentesi newyorkese che si imporrà negli anni Sessanta del secolo scorso, protraendosi in qualche modo fino a poco oltre lo scadere dei Settanta o, al più, trascinandosi fino a comprendere il primo quinquennio degli Ottanta. Non oltre.
- 47 Tanto più necessaria, insisterò, nell’economia di queste nostre argomentazioni congetturali che, con una qualche ragione, muovono dalla constatazione della montante avidità che dall’ultimo dopoguerra raggiunge, in crescendo, l’oggi: ciò che segue il dichiarato riscatto europeo, la ricostruzione post-bellica che tenta, disperatamente, di scrollarsi di dosso l’infamia nazista, senza riuscirvi affatto e più ancora, l’affermazione edonistica di appena ieri, lo smarrimento dell’oggi, sempre subordinato all’infamante-sbalorditiva avidità ormai collettiva ch’è anche esistenziale. Un bell’affare davvero. Incominciamento della dispersione e anzi dell’azzeramento dell’ultima eredità classicista e negazione del pur insorgente neo-illuminismo che si oppone come può a tanta decadenza morale, etica, culturale.
- 48 Jean Clair, Marcel Duchamp. Il grande illusionista, tr. it. di Maria Grazia Camici, Abscondita, Milano 2003, p. 11.
- 49 Allusiva parafrasi d’un arcinoto saggio di Noan Chomsky, consacrato ai poeti americani.
- 50 Anche sulla figura e l’opera di Michelucci vado allestendo un saggio, perciò, qui, non ne dirò altro. Carlo Cresti, comunque, sa perché e dove attinga l’avvio di questa mia scrittura. Così come sa qualcosa Branzi, altro felicitante interlocutore in anni ormai lontani.
- 51 Richiamo sottobanco a altri amici in lotta permanente per una vita artistica, penso a Zziggurat, costituitosi nel 1969, agli Archizoom nel 1972 in inconsapevole competizione con Rem Koolhaas e sodali tanto erano bravi e all’avanguardia, penso al progetto-quartiere di Sorgane di Ricci e Savioli su cui tuttavia ebbi a dire, penso alle imprese urbane di Lapo Binazzi e degli UFO, dedito, per dirla alla Umberto Eco, frattanto tra i protagonisti e promotori di non pochi episodi storici della Facoltà di architettura fiorentina e animatore della vita culturale locale, a una pratica di sovversione della scrittura (e del progetto) che genera o produce scritture sovversive (e progetti conformi).
- 52 Anche di costoro ho scritto, del resto Gualtiero Nativi – apprezzatissimo dall’indimenticabile Lionello Giorgio Boccia, mitico sovrintendente del Museo F. Stibbert di Firenze – l’ho conosciuto quand’ero ancora bambino, forse è stato il primo artista d’avanguardia che ho incontrato.
- 53 Mettendo a confronto Michel Foucault e Martin Heidegger, Vattimo arriva a dichiarare del suo interlocutore privilegiato: “Questa ‘identificazione’ dell’essere con il linguaggio, che Heidegger matura nell’esperienza della difficoltà di proseguire Essere e tempo (su cui si veda la Lettera sull’umanismo), è la vera via dell’oltrepassamento della metafisica come identificazione dell’essere con l’oggetto. Il linguaggio che parliamo e che ‘ci’ parla non è un dato, uno strumento, una struttura: è evento, che ci concerne e ci coinvolge in un rapporto di reciproca possibilizzazione”. Gianni Vattimo, Essere e dintorni, a cura di Giuseppe Iannantuono, Alberto Martinengo, Santiago Zabola, La nave di Teseo, Milano 2018, p. 57.
- 54 Ivi, p. 193.
- 55 Ivi, p. 196.
- 56 Pagina 201.
- 57 Ivi, p. 240.
- 58 Si badi: “La messa in questione di questi confini è il senso della riflessione sull’arte di Heidegger e della critica di Gadamer alla ‘coscienza estetica’, che in tanti temi si avvicina ai temi proposti da Benjamin nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, del 1936 (lo stesso anno dell’Origine dell’opera d’arte di Heidegger)”. E ciò comporta un passo avanti. Ne discende una nuova consapevolezza nei confronti di una “estetizzazione della vita sociale” che implica a sua volta una criticità: secondo Vattimo infatti non dovremmo ristabilire i “confini” di ciò che è davvero ambito estetico, preferendogli una definizione di “un diverso statuto dell’estetico nella società” che mette in discussione l’inquietante “valore di mercato” dell’opera d’arte dettato dal mercato a scapito dell’aura, scacciata dal feticcio della merce. Arrivando a concludere: “Qui si vede che l’estetica non può (più) risolvere i propri problemi senza la filosofia e la politica”. Varrà dunque la pena di riprendere la proposta avanzata nel famoso seminario di Tubinga da Hegel, Schelling e Holderlin, declinandone l’esito in relazione stretta all’attuale multiculturalismo, a questa pluralità oggidiana, e la prima conseguenza di ciò, sostiene Vattimo, è che “lo stesso apprezzamento del bello – del valore estetico positivo, riuscito ecc. – non possa darsi che come esperienza di una molteplicità di uno ‘sfondamento’ che faccia prevalere l’aspetto spesante su quello ‘appaesante’ […]”. Ivi, pp. 246-247 e 248, e 251.
- 59 Nel rileggermi mi rendo conto d’aver parzialmente fallito il bersaglio, di avere eluso in buona misura una gran parte delle problematiche suscitate da questo tema generazionale e poi, alla fine, ho lasciato il discorso inconcluso, aperto a ogni ibridazione, a ogni possibile assorbimento modificante, ogni contaminazione e finalmente aperto alla dissoluzione. Me ne scuso col lettore, ma forse questa è la vera testimonianza del salto, comunque traumatico, spaesante, dello strappo generazionale. Sbaglio?