BLIND FOR LOVE: Come accompagnati da sacerdotesse nelle sale di un antico tempio
Riccardo Panigada
Si dice che l’amore (dalla radice del verbo greco mao, desiderare) sia “cieco”. Ora, dalla ricerca etimologica, il termine “cieco” deriva invece dal greco skòtos (oscurità), e così, come sempre, la parola anterirore, in quanto parola ulteriore, ci conduce inesorabilmente verso l’ineffabile. E cosa potrebbe esservi di più ineffabile dell’amore?
Ma Eros (Socrate insegna) è dàimon (demone), figlio di penìa (povertà/necessità) e pòros (ingegno strategico/inganno): quale potenza potrebbe essere maggiormente espressiva?
Per la cultura greca antica, fondativa della cultura occidentale della razionalità, l’occhio era l’organo sensibile maggiormente attendibile, così come il poeta (la cui radice deriva dal verbo greco poieo = fare, creare) era considerato la massima autorità culturale e civile. Ma la tradizione vuole che il poeta Omero fosse cieco, e che nei suoi poemi utilizzasse (li ha contati Heinrich Schliemann) ben ventisette differenti verbi riferibili alle modalità del vedere/guardare.
Morale: il linguaggio razionale dell’indagine conosce limiti espressivi, mentre Omero (che fosse veramente non vedente oppure no) essendo poeta superava certi limiti grazie all’arte (techné areté = atteggiamento di porsi in modo corretto,autentico poiché immediato).
Infatti, il neuroscienziato Alain Bertoz dimostra chiaramente che “Le Coeur a ses raisons” (https://www.youtube.com/watch?v=kN5kUXpmnew) per ineluttabile evidenza biologica. Bertoz metaforicamente parla di “Coeur” ma simultaneamente intende anche le corps con tutti i suoi organi di senso, garanti di immediatezza. Dunque il tanto dibattuto dualismo cartesiano cade ormai rovinosamente sotto i colpi della moderna neurofisiologia.
Se è vero (e lo è come appunto dimostrano le rilevanze oggettive della ricerca scientifica) che le nonstre scelte a riguardo di qualsiasi argomento, come peraltro ben noto per esperienza atavica delle più antiche culture, sono sempre orientate dall’amore, nella società contemporanea le scelte possono ormai venire orientate da una “Neurologia della decisione” minuziosamente controllata e immediatamente collegata alla neuroorganica dei sentimenti (di cui ci parla Bertoz), che si può strutturare ad hoc nel cervello di ciascun adolescente. Evidentemente si tratta di qualcosa d’inquietante, di cui tutti dovrebbero essere informati, e che dovrebbero poter comprendere profondamente per legittimo diritto di difesa del proprio libero arbitrio.
Il preambolo a questo articolo, che, a una prima lettura potrebbe apparire di sapore scientifico-riduzionista, a ben guardare esprime invece quelle rilevanze della ricerca scientifica che ormai stanno mettendo radicalmente in discussione proprio i fondamenti del riduzionismo. Infatti, fino a pochi anni fa, la tradizione scientifico-riduzionista pretendeva che non vi fosse possibilità di modificare lo stato neuroorganico del cervello nel corso della vita di uno stesso individuo in seguito a condizionamenti di carattere culturale o ambientale, attribuendo eventuali variazioni comportamentali solo a fattori psicologici.
Mentre le espressioni artistiche e culturali avvengono proprio in un ambiente che può essere considerato un contesto di acquisizione spontanea (Learning environment) di valori passibili di essere interiorizzati e “incarnati” attraverso i sensi, veri e propri mediatori dei messaggi culturali in grado di modificare l’assetto organico. Tale fenomeno di “simulazione incarnata”, per dirla con Vittorio Gallese, sarà tanto più efficace quanto più le esperienze siano vissute sotto un profilo intersensoriale (essendo il cervello organo plastico e vicariante si preferisce il termine inter-sensoriale, al termine multi-sensoriale, poiché il secondo mantiene la separazione concettuale dei canali di senso – n.d.a.).
Pertanto, se oggi appaiono chiari i motivi per cui l’arte e la scienza possono essere orientate per condizionare e strumentalizzare le persone, è altrettanto evidente quanto siano anche gli unci strumenti in grado di perpetrare la conoscenza e incentivare la diffusione dei più elevati valori di umanità.
Ma come possiamo discernere quali possano essere i Valori Autentici dell’Umanità? Bisognerà inquisire la loro Verità. È il greco che viene allora ancora una volta in soccorso: l’alètheia (= la verità) deriva dal verbo lanthàno (= nascondere) preceduto dall’”alfa privativa”, che ne trasforma in senso opposto il significato: a-lètheia è dunque verità in quanto “svelata”. Ciò significa che bisogna risalire alle origini, ai concetti derivanti dai principi costitutivi originari dell’esperienza culturale umana al fine di reperire i principi germinativi e i sentimenti di cultura e umanità prima che potessero essere velati da sovrastrutture culturali funzionali a qualcosa di meno spontaneo e primigenio.
A questo punto non potrà essere che il corpo e la sua sensibilità derivante da ambienti in grado di determinare in ciascuno un imprinting idoneo a relizzare una libera e armonica convivenza civile, a essere garante del fatto che siano stati individuati autentici principi di verità. Il rapporto tra uomo e ambiente non è infatti unidirezionale, ma biunivoco, e l’armonia è caratteristica naturale semplicemente percepibile mediante gli organi di senso. Sarà poi grazie alla facoltà di astrazione della neocorteccia prefrontale umana, che viene offerta la formulazione del concetto universale di Amore, individuato dalla mente in tutte le sue accezioni. Amore potrebbe trovare, quindi, una sua prima sommaria definizione neuroestetica quale: “interiorizzazione sensoriale unitamente a elaborazione corticale coerente ai naturali equilibri di reciprocità” – in quanto sentimento di desiderio; mentre, in quanto espressione generale di tale sentimento, non potrà essere che “l’attuazione di azioni orientate a produrre interiorizzazioni sensoriali unitamente a elaborazione corticale coerente ai naturali equilibri in sé stessi e nelle altre persone”.
E se, l’esperienza ultimativa, come il mito insegna, non può appartenere all’umana fenomenologia, Eros e Psiche, che si incontrano solo nell’attimo della negazione della stessa compresenza, possono però risorgere in continua catarsi all’esperienza fenomenologica del “prendersi cura” vicendevolmente, unica possibilità di incontro ontologico identitario in sintesi biunivoca e pacificatrice.
Come sempre, con le parole si impiega molta maggiore fatica a spiegare e a leggere concetti che l’arte è invece in grado di esprimere con sconcerante immediatezza e molto maggiore profondità. Anzi in modo totale quanto perfettamente aderente a ogni singola realtà personale.
Infatti, la definizione di opera d’Arte conseguente al piccolo teorema filosfico espresso in questo articolo non potrà essere realizzata che da un’artista che sia egli stesso espressione dei principi culturali fondativi dell’umanità vissuti in modo totale mediante le sue doti straordinarie di sensibilità corporea e intellettuale.
L’artista Caroline Lépinay risponde a tali requisiti di universalità, e, non solo espone in questi mesi a Venezia, ma conduce nelle sale di Palazzo Tiepolo Passi i visitatori attraverso un percorso di catarsi, al termine del quale ci si risveglia a malincuore, ma finalmente ritrovando il contatto con la propria intimità, abitualmente repressa durante l’esistenza quotidiana contemporanea…
Quasi un’ora di percorso al buio, alla quale è stata riconosciuta anche una importante valenza terapeutica per diverse patologie della psiche, e dalla quale ci si riprende comunque sempre commossi e liberati, quanto nuovamente sorpresi e affascinati dall’ambiente in cui ci si ritrova d’improvviso immersi, una volta tolta la benda: nella penombra delle magnifiche sale del nobile palazzo veneziano scintillano le opere d’arte prima conosciute dal tatto, e poi dalla vista. Come dire: tutta la cultura che ora qui puoi ammirare non ci potrebbe essere, se non partendo dalla mistero della tua sensibilità corporea.
Oggi il dibattito sull’arte potrebbe trovare un riferimento certo di giudizio sulla valenza delle opere, poiché non parrebbe difficile distinguere quando un’opera abbia preso origine dal caso, o dalla progettazione della pura speculazione intellettuale della ragione (e quindi non possa veicolare gl’indispensabili riferimenti ai valori universali dell’umanità, unici indiscutibilmente in grado di esprimere ed elicitare pathos), in luogo di essere originata spontaneamente da profondità e sensibilità culturale.