Bernardo Bellotto e il volto nuovo dell’Europa*
di Marco Marinacci - *Numero dedicato al Professor Giuseppe Maria Pilo nella ricorrenza del primo anniversario della sua scomparsa
Con l’ultima grande mostra dedicata a Bellotto presso l’Alte Pinakothek di Monaco, “Canaletto. Bernardo Bellotto dipinge l’Europa”¹, sembra essere ormai universalmente accolto il fatto che dal celebre vedutista del Settecento germinino due orientamenti che potremmo spingerci senza timori a definire “esistenziali”, e già pienamente appartenenti a una sensibilità di carattere contemporaneo: il primo vira verso “una nuova attenzione per la società, per l’uomo, che non viene sommerso dalla forza suggestiva del paesaggio” ² mentre il suo interesse è diretto a descrivere “le forme più semplici della vita” (i fenomeni); il secondo si ritrova “nell’ossessione per l’esattezza, per i particolari, definiti nelle zone più inaspettate. Una sorta di iperrealismo, che lo porta a restituire lo sguardo nella sua integrità” (ermeneutica).³ E’ proprio grazie a questa seconda disposizione che Bellotto sembra liberarsi dalla tradizione del vedutismo e restituirci quell’impressione viva delle città che appare come il suo tratto più incisivo e affascinante: un sentire che lo avvicina all’oggi più di ogni altro interprete del paesaggio della sua epoca. Il pittore veneziano insegue infatti un’immagine dell’ambiente, sia esso urbano o naturale, come “ritratto vivente”, quasi a voler delineare il volto sfuggente di un misterioso, per i più inafferrabile, genius loci.
Si può così constatare quanto la visione del giovane vedutista sia andata oltre gli insegnamenti dello zio. Se “Canaletto è il narratore principe dello splendore della Serenissima, della certezza, trasmessa con aristocratico distacco, in Bellotto si insinua invece un’inquietudine, le prime crepe prodotte dalla modernità.” ⁴
Con Bellotto sappiamo che si chiude definitivamente la stagione della veduta legata ancora a un concetto paesaggistico di stampo accademico, e si consolida sempre più sul dato ambientale l’idea della nuova “veduta topografica”, che rende conto punto per punto del reale. Ma soprattutto la sua opera consente di affermare che «se per un accidente nulla sapessimo di questo mondo, basterebbero le sue tele per dirci cosa abbiano rappresentato nel XVIII secolo le città dall’Arno all’Elba».⁵ Non è però sufficiente menzionare la sua capacità di sintesi del visibile e di cronaca esatta per coglierne il tratto distintivo: egli, figlio del Grand Tour, trasferisce immediatamente questa sua incomparabile capacità prensile degli aspetti caratteristici di ciascun luogo in un inesausto resoconto visivo dei paesaggi che si dipanano lungo la sua straordinaria esperienza di viaggiatore e pittore, delineando il volto della nuova Europa».⁶ E in ciò consiste la vera novità della poetica di Bellotto il quale, per trasformare la veduta di paesaggio nel “ritratto” del volto dell’ambiente, mette a punto un vero e proprio “metodo”. Un metodo che condurrà a una idea di veduta anticipatrice di istanze espressive ancora di là da venire, e quindi all’origine non solo di tutta una rinnovata concezione del rapporto con il luogo, ma – e forse più – solidale a una sorta di “densità ambientale”; un sentimento estremamente ferace per linguaggi espressivi e poetici ancora lontani, conducendo a esiti addirittura cardinali per ambiti come quello che sarà della fotografia di paesaggio, o ancor più avanguardistici, e precursori della stessa concezione filmica di ripresa d’ambiente.⁷
Un processo euristico che permette alla sua straordinaria capacità intuitiva di “ripresa” del dato ambientale di fondersi con una precisa trascrizione del visibile; il tutto attraverso una prassi empirica e strumenti perfettamente forgiati a tale scopo.⁸
Bellotto in questo modo si stacca in maniera mirabile dalla lezione di Canaletto, una lezione che, non dobbiamo dimenticare, l’avrebbe posto nel più apprezzato solco della tradizione vedutistica, con ampio e consolidato consenso. Ma Bellotto, prima di rivolgersi ai raffinati touristes già committenti dello zio, o ai potenti mecenati che gli richiedevano un documento visivo dei loro possedimenti, intende instaurare un dialogo diretto con l’oggetto della sua rappresentazione: il paesaggio.
Seguendo il processo ricognitivo e rappresentativo formulato dal pittore, possiamo riconoscere come egli parta prima da una “frantumazione” ottica, corrispondente alla singola ripresa (stazione), di cui tiene traccia il disegno iniziale sul motivo, per poi dar vita, nella veduta finale, grazie a una studiata ricomposizione dei diversi disegni, a una ricostruzione dell’imago mundi, per ogni luogo diversa e autonoma. Ecco allora misteriosamente affiorare, fissato in pigmento, il carattere ambientale.⁹
“Se l’ambiente naturale di un luogo ispira la creatività degli abitanti, è l’osservazione dello spazio intorno alla propria dimora la molla originaria di ogni cultura. Miti e paesaggi sono i luoghi totali dell’esistenza, espressioni visibili della natura e del mondo. Ogni arte, come ogni architettura, nasce da questo primo stato emozionale. L’uomo dà identità ai suoi paesaggi diversificandoli in armonia fra la natura del luogo e i segni della sua presenza. L’arte fissa la sua effimera figura di mortale oltre il passaggio del tempo. Dà qualità al passato e al futuro indicando il progetto. Ogni paesaggio è opera di un intero popolo. Ogni architettura è, quindi, paesaggistica, determinata dal rapporto educativo che s’instaura tra il luogo e lo spirito. Ogni paesaggio è il luogo dell’appartenenza.”¹º
Questa identità ambientale Bernardo la scopre già a Venezia, quando, dopo essersi formato fin dalla più tenera età come discepolo diretto dello zio, il celebre vedutista Antonio Canal, in una tecnica, quella della veduta, che richiedeva lunghe sessioni di “ripresa” sul luogo, ma un ancor più estenuante lavoro di composizione in studio, consistente nell’unire tutti gli schizzi ripresi dal vero (“sur la nature”, avrebbe detto più tardi Cézanne, riconoscendo in questo processo di immersione nell’ambiente una delle tre leggi fondamentali per l’arte contemporanea) in un’unica veduta, ancora ragazzo ne apprende la superba capacità ricognitiva e di ripresa del reale. Una capacità che il maestro ha affinato empiricamente, e di cui già dopo pochi anni possiamo immaginare anche il giovane apprendista padroneggiare lui stesso, a cominciare dalla composizione, a disegno, della veduta finale, che il maestro avrebbe poi trasferito in pittura. Bellotto si viene così a inserire fin dagli esordi nella lunga scia della tradizione artistica che ha preso avvio con il Grand Tour. Una tradizione che ha fissato nella Laguna la sua pietra miliare, grazie a precursori come Gaspar Van Wittel e Luca Carlevarijs, il cui portato diretto è stato un nuovo modo di rapportarsi al luogo.
La veduta derivava dunque da un metodo di lavoro piuttosto complesso che originava primariamente dalla scelta del luogo adatto alla ricomposizione di più disegni autonomi in una sola visione d’ambiente: un luogo che doveva quindi presentare non solo tutti quegli elementi riconoscibili e perciò adatti a unire con facilità ed esattezza i singoli disegni, grazie a una solida gabbia prospettica che poteva reggerne le varie parti e agevolarne la riproduzione d’insieme, ma soprattutto doveva vantare quei caratteri ambientali che potevano ricostituirne l’identità. Un’identità, quella ambientale, così fondamentale per l’uomo e sentita fin dall’antichità, da ricevere attributi divini: il Genius Loci.
Il primo luogo eletto a teatro di quella articolata quanto ponderata serie di procedimenti rappresentativi, con i quali identifichiamo il primo momento “euristico” della ricerca espressiva del giovane pittore, sarà il Canal Grande. ¹¹
Seguendone il sinuoso distendersi nella città adriatica Bellotto affina tutta una serie di procedimenti rappresentativi, di segno intuitivo, che in breve gli permetteranno di carpire “il volto e l’anima” di ogni nuova città, paesaggio e contesto ambientale che si troverà a osservare, dando origine a un dialogo che oseremmo definire “immersivo”, tanto partecipato, vivo e costante da giungere a comunicare col XX secolo.¹²
Dopo Venezia ¹³, le città si incasellano come tessere di un mosaico che sembra riflettere un disegno sempre più preciso nell’iter poetico del vedutista: seguendo le tappe tradizionali e le nuove mete del Grand Tour, Bellotto muove da Lucca a Firenze, da Roma alla Lombardia, passando da Vaprio e Canonica d’Adda, per Milano, e mettendosi poi sulle orme di Leonardo, fino a Gazzada, quindi Torino e Verona. Tutte città unite da un sottile fil rouge: il fiume. Come aveva imparato a fare a Venezia, seguendo le anse del Canal Grande, attraverso il corso del fiume Bellotto “entra” in città, ne osserva e studia la dinamica ambientale e, come una sonda spinta sempre più in profondità, ne riesce a penetrare i caratteri locali. Via via che si spinge verso mete sconosciute, Bernardo corrobora le acquisizioni vedutistiche veneziane concentrando l’attenzione sui nuovi soggetti: a Lucca adotterà la dinamica della centralizzazione intorno al perno visivo di S. Martino; a Firenze i ponti sull’Arno diventeranno il soggetto focale di un percorso attraverso la città chiaramente dichiarato; a Roma i Fori diventeranno luogo di un racconto di “stratigrafia ambientale”. Sarà allora che sentirà il bisogno di rielaborare i suoi strumenti rappresentativi, in primis la prospettiva e una particolare intonazione luministica, derivanti da un personalissimo uso della camera oscura, che verranno affinati sempre più durante tutto il corso della sua poiesis artistica, dando origine al secondo momento “analitico”.¹⁴
E’ grazie a queste acquisizioni che appena venticinquenne Bernardo si sentirà pronto a volgere lo sguardo oltre i confini della penisola, e coglierà senza indugi l’occasione che lo porterà a scoprire le nuove capitali europee.¹⁵
Con quest’ultimo incontro si manifesta infine compiutamente il terzo momento espressivo della sua poetica: attraverso un processo di “sintesi”, l’ancor giovane artista riuscirà finalmente ad affrancarsi da ogni metodologia precedentemente appresa e a dar corso alla propria personale e originalissima formula d’indagine ambientale, che consoliderà una capacità di perenne e vitale rinnovamento del messaggio estetico (in perfetta corrispondenza con la volontà di apertura ermeneutica).
Presto infatti il suo occhio indagatore, sensibile in egual misura agli incanti della natura come ai sussurri della città, scopre di immergersi nell’oggetto della sua osservazione con la stessa profondità di una sonda calata nell’ambiente. Bellotto scolpisce i “tratti mobili” di un volto, diremmo parafrasando il suo contemporaneo G.C. Lichtenberg, dietro al quale vede celarsi un’anima: l’anima del paesaggio. E così facendo, ne consegna il ritratto ai secoli. E’ ciò che ci consegnano appunto le sue vedute di Dresda e di Varsavia, che presentano distinti ma analoghi, originalissimi esiti espressivi.¹⁶
Nel 1747, approfittando dell’invito che il delegato di Augusto III, elettore di Sassonia e re di Polonia, avrebbe dovuto consegnare ad Antonio Canal, all’epoca però assente da Venezia per un viaggio a Londra ¹⁷, si trasferisce a Dresda, dove la lunga permanenza, che durerà fino al 1759, gli permetterà di consegnare alla storia il nuovo volto della capitale sassone.¹⁸
Da Dresda, su invito di Maria Teresa d’Asburgo, si trasferirà a Vienna, dove rimarrà due anni, fino al 1761, dipingendo per l’imperatrice, per il cancelliere Kaunitz e per il principe di Liechtenstein, e dando vita ancora una volta a una nuova tipologia di veduta, di canone scenografico ¹⁹. Su segnalazione dell’imperatrice, si trasferirà poi a Monaco, invitato dal grande elettore per ritrarre l’immagine rinnovata della capitale bavarese. Qui rimane un solo anno, per far poi ritorno nella città sassone, ritrovata però sfigurata dal conflitto che segna l’Europa per sette anni, e le vedute diventano ora “reportage di guerra”: sembra quasi delinearsi l’inquietante presagio di quello che il XX secolo vedrà come tragico teatro di devastazione bellica.
Sono anni difficili, in cui l’artista vede sfumare, nella casa e nello studio distrutti, il lavoro di una vita. Nel 1767 decide allora di partire alla volta di Varsavia, probabilmente col proposito di ottenere una raccomandazione per l’imperatrice Caterina II di Russia. Bellotto arriva col figlio a Varsavia entro il gennaio del 1767, dove da tre anni regnava Stanislao Augusto Poniatowski. E’ però invitato a restare e a dipingere nel castello di Ujazdow, residenza suburbana allora prediletta dal sovrano. A maggio risulta ormai occupato a eseguire “affreschi” a Ujazdow, e poco dopo deciderà di eleggere la sua residenza definitiva nella capitale polacca. Qui il veneziano vedrà incarnata l’anima della città moderna per eccellenza, e vorrà riportarla in un gruppo di vedute che lo impegnerà fino alla fine dei suoi giorni.²º
Possiamo tentare ora una ricognizione più approfondita della poetica espressiva così delineata, concentrandoci sulla fase più matura della ricerca di Bellotto, e segnatamente sulle vedute di Dresda e Varsavia, che offrono, come vedremo, un documento unico e particolarmente fecondo per la nostra analisi. Affrontiamo in questo modo il processo analitico, il secondo “momento” ermeneutico (di quella che definiamo “ermeneutica dell’immagine”), procedendo all’analisi puntuale dell’opera del pittore, attraverso livelli d’indagine che guardano parallelamente alla tecnica come base strutturante (il significante) e alla rappresentazione che viene per suo tramite realizzata (il significato). Tali livelli vengono esaminati partendo dal generale ed entrando sempre più nel dettaglio, in senso decostruttivo (come richiede l’impostazione strutturalista ermeneutica). Potremo individuare in questo modo specifici “particolari” della veduta, che vedremo essere la cellula vitale dell’opera bellottiana. Richiamando brevemente gli strumenti sviluppati già dalla critica fenomenologica, strutturalista e storica, come poi riformulati e riproposti da Gadamer nella sua interpretazione ermeneutica collegata all’opera d’arte, ²¹ per adattarli ora alla lettura dell’opera del Bellotto,²² ci troviamo innanzitutto di fronte a due diversi gradi interpretativi, ciascuno con propri e autonomi valori semantici, e corrispondenti elementi di analisi: un primo grado, derivante direttamente dall’uso degli “strumenti tecnici” adottati dal pittore, in particolare la camera oscura e la prospettiva ricomposta della veduta; un secondo grado relativo invece agli specifici “strumenti espressivi” affinati dalla personale poièsis del Bellotto, che tra poco esporremo. Al primo grado interpretativo appartengono quelli che in questo modo definiamo “elementi primari”, mentre al secondo gli “elementi secondari”.²³
I primi sono quelli relativi a una interpretazione semantica della prospettiva e della tecnica derivante dall’utilizzo della camera oscura (il che comprende anche la particolare tonalità luministica offerta da tutte le vedute della fase più matura dell’artista, in cui i singoli elementi sintattici hanno trovato corpo di lingua), ai quali vale la pena dedicare certamente una trattazione a parte, ma che riteniamo ora meno indicativi per comprendere a pieno la prassi ermeneutica riguardo alle vedute del Bellotto (anche perché se ne possono ricostruire i termini attraverso analisi mirate come quelle portate dal Pignatti e dalla Limentani-Virdis, già citate). Gli elementi secondari invece, denominati “particolari”, identificano precisi frammenti della rappresentazione, ciascuno dei quali presenta al suo interno una compiutezza di valori espressivi, e insieme una pluralità di significati poetici, che possono essere letti autonomamente, ma devono essere poi riportati all’insieme delle varie parti, per evidenziarne il senso più ampio.²⁴ In questo modo si assiste al più efficace dei circoli ermeneutici.²⁵
Prendiamo ad esempio la Veduta della Kreuzkirche di Dresda, del 1751. (fig.1) Dall’ampia, pausata composizione spaziale emerge, quasi spinta da un moto tellurico, l’alta incombente sagoma della torre campanaria, con i suoi 96 metri, a gravare di quell’atmosfera appiombata e trasudante ombra la piazza antistante, che sembra raccogliersi come polla d’acqua screziata da istantanei balenii di luce.
Se gli “”elementi primari” sono facilmente riconoscibili nelle tese quinte prospettiche che disegnano ben individuate scenografie, riconducibili a due precisi “punti di stazione”, col solo intento di rendere ancor più svettante e dominante l’austero brunito edificio chiesastico, è nei “particolari” (figg. 2-5) definiti “elementi secondari”, che possiamo leggere precisi connotati iconologici. Se il particolare 1 ci dà l’ora esatta della composizione, con le sue ombre meridiane precisamente attagliate alle sagome degli edifici, il “nunc”, il particolare 2 ci presenta con puntuale contrappunto, in una solare quanto piatta dimensione metafisica sfuggita al controllo cronometrico della torre dell’orologio, l’ora coincidente col tempo dell’azione, fissata così in un attimo perenne, dalle lancette di un orologio che diviene il protagonista solitario e silente di una giornata sassone, allungata nella Storia.
In effetti la Storia entra in scena a più riprese in questa piazza a prima vista così quieta e pacifica (la chiesa stessa era già stata ricostruita a causa dell’incendio che aveva colpito la città nel 1491), in cui sembra udirsi solo il sommesso brusio delle piccole figure che, non più macchiette, sembrano qui diventare parte di un gigantesco carillon, che nella torre dell’orologio occulta il suo misterioso e arcano meccanismo inerziale. Si tratta di una scena di teatro umano, come si coglie nel particolare 4, quale avrebbe quasi un secolo più tardi descritto nel suo capolavoro Honoré de Balzac. Ma la precognizione di Bellotto non è di canone “sociale”, bensì, come già anticipato, del senso della Storia. Forse preavvertendo l’approssimarsi della Guerra dei sette anni, certo Bellotto in questa veduta registra con iniziatica consapevolezza il passo del Tempo che si fa Storia, e lo documenta nella allucinata quanto profetica presenza di un inquietante monumento (inteso in senso etimologico), che ci ricorda la precarietà e la finitezza umane, racchiuse nel particolare 3. E sulla scena fa la sua comparsa la tragedia. E’ dunque nei “particolari” che Bellotto coglie con sapiente maestria i tratti più sentiti e profondi dei “caratteri ambientali”, e del loro permanere nel Tempo.
Siamo così entrati a definire il campo dell’ermeneutica dell’immagine. Ma dobbiamo tener presente che le singole parti elementari analizzate nella Veduta della Kreuzkirche servono poi a comporre un disegno più ampio, nella intenzione di Bellotto, disegno che nel solo suo insieme riesce a dare la dimensione effettiva della “presa ambientale”.
Si deve ora procede analiticamente à rebour, attraverso un processo di ricomposizione che permette una “sintesi” di più vedute (il terzo momento ermeneutico), fino a giungere alla definizione di un’unica “macro-veduta”, in cui è distintamente riconoscibile uno dei caratteri ambientali elementari (o primari, così come definiti da Norberg-Schulz). Attraverso quest’ultimo processo critico affiora il vero soggetto della rappresentazione del vedutista, il più invisibile: il genius loci. Sarà in particolare nelle vedute della maturità, quando avrà perfezionato tutti gli strumenti e i meccanismi di riconoscimento ambientale, che possiamo osservare la maggiore partecipazione di Bellotto all’ambiente ritratto: le “nuove” città europee.
Così a Dresda, nel primo soggiorno sassone, questa immedesimazione e incontro col “carattere” mitteleuropeo passerà per il sentimento della Stimmung, mentre nelle vicine cittadine di Pirna e Sonnenstein, si avrà un nuovo approccio percettivo, attraverso una elaborata dinamica di visualizzazione del luogo, e così di seguito a Königstein, dove Bellotto trasferirà la percezione della “presa ambientale” attraverso un meccanismo di simbolizzazione.²⁶ Queste tre dinamiche rappresentative, insieme, potranno dare conto del carattere ambientale, il primario, archetipico genius loci, che viene così a presentarsi attraverso le vedute sassoni di questo periodo. Un genius loci contraddistinto dalla permanenza nella verità del reale. (figg. 6, 11) Infatti, mentre nella breve parentesi di Vienna e Monaco la veduta incontra una ricostruzione dell’imago mundi che passa attraverso la forma paesistica artificiale dei giardini pittoreschi e di delizie, come vanno di moda all’epoca nelle due capitali, è nel ritorno a Dresda, durante la Guerra dei Sette Anni, che Bellotto offre la più commovente interpretazione poetica del dato visibile. Ciò che si offre alla sua vista, nel 1761, è una città in macerie, dove anche la casa nel sobborgo di Pirna viene distrutta durante un bombardamento prussiano: è la rovina, con perdite di lastre, incisioni, tele che gli procurano perdite disastrose. In quel periodo l’artista riuscì a tirare avanti dando lezioni di pittura, ma anche quando finalmente viene siglata la pace di Hubertusburg (febbraio 1763) e i vecchi mecenati, re Augusto III e il conte Brühl, rientrano da Varsavia, il loro rientro sarà vano, per Bellotto, in quanto mancheranno pochi mesi dopo. Fino al 1766 lavorerà per l’Accademia, ma senza un contratto stabile, e in una situazione così precaria per lui e la famiglia (è allora che si parlerà di carattere melancolico), decide di cercare fortuna alla corte pietroburghese di Caterina II, ben disposta verso gli stranieri. La partenza dovette avvenire subito dopo avvenire subito dopo, ma come sappiamo il Nostro troverà poi a Varsavia la sua meta definitiva. Ora però, a Dresda, lo spettacolo che gli si para davanti è quello di una città come non aveva mai visto prima, ed è questa tragica mancanza del più piccolo punto fermo, del minimo ancoraggio, a darci la grandezza di Bellotto. Lì, da solo, con la macchina da presa (la camera oscura) ben puntata sul motivo, senza alcun puntello iconografico a cui aggrapparsi, come un trapezista in bilico sulla corda più alta, arrangia una prospettiva tesissima, che non risparmia niente alle umane fatiche (fig.6). “Scatta” disegni squadernati come fotografie di guerra, a raffica, senza un preciso soggetto: ogni particolare affonda in una visione scompaginata e assurda, con ombre tanto appiombate e un cielo di cenere così assordante da far calare nello squasso del silenzio questa funebre veduta, tenuta insieme dal suo impalcato tragico. Tanto che le dimensioni stesse dell’opera sembrano non reggere più il peso della storia e Le rovine della Kreuzkirche di Dresda, del 1765, si riducono alla metà (cm 80 x 110) rispetto alla rappresentazione del medesimo soggetto di 15 anni precedente (cm 196 x 186). Mentre nella prima veduta della Kreuzkirche i particolari sembravano tessuti come perle di un rosario e tutto era “tenuto” come da una liturgia sacra, qui i diversi frammenti della veduta rimangono chiusi, come isolati, incapaci di comunicare l’un l’altro. (figg. 7-10) Eppure a un certo punto sembra si avverta un grido, inerpicatosi lungo le membra macilente della Kreuzkirche (non lontano Antonioni), ora simulacro della Passione cristiana, che la innalza di nuovo alla vita: è l’eco detonante della memoria. E’ infatti nella geniale intuizione di questi elementi, la memoria e la stabilitas ²⁷, ancora presenti e uniche reliquie permanenti del genius loci in quel paesaggio sgretolato, a darci la grandezza e il coraggio di questa veduta, tenuta insieme dall’acribica capacità di un occhio di investire il visibile di nuova vitalistica verità rappresentativa. Poi, se quello sguardo dovrà rifugiarsi nei Capricci ²⁸, è comprensibile e perdonabile, ma il suo atto di eroismo sta tutto là, in quell’abbacinante visione in cui si ristabiliscono i valori primitivi di una civiltà: ²⁹ gli stessi che aveva già in qualche modo saputo leggere nella stratigrafia ambientale dei Fori romani che, durante il viaggio di prammatica nel 1742, riporterà una visione attenta al respiro della Storia.
E’ nell’impianto storico che troviamo di fatto il vero momento apicale del processo di interpretazione ermeneutico (all’interno di quella che definiamo “ermeneutica del tempo”), e in questo modo la lettura “per parti” dell’opera bellottiana viene trasferita da un piano semantico di ordine linguistico a uno di ordine temporale. Un piano in cui la storia (o il tempo) diventa l’insieme, e gli effetti (o eventi) sono le sue parti.³º Questa seconda fase è forse la più interessante, e certamente originale, in quanto trova nell’opera di Bellotto un’espressione pressoché unica del suo inverarsi come linguaggio visivo vivo e attivo nella Storia.³¹ L’esperienza ermeneutica del tempo è ancora più straordinaria per l’opera d’arte, in quanto è lei stessa, ci rammenta Gadamer, a venire realmente modificata e arricchita nella sua intima essenza dalle interpretazioni nelle quali via via rivive nel corso della storia. Questo aspetto riguarda in particolare le vedute che il pittore coglie di Dresda e Varsavia, e che saranno utilizzate come documenti per la ricostruzione dei rispettivi centri storici, bombardati e distrutti durante la Seconda Guerra Mondiale. (figg.11-16) Vedute che si rivelano così essere non solo emblematiche per dedurre gli elementi costitutivi del metodo d’indagine ambientale messo in campo dal Bellotto, quanto imprescindibili per comprendere quale sia il messaggio artistico che viene trasmesso alla storia in precisi e diretti “momenti attualizzanti”. E a questo punto occorre ricordare il concetto principe che Gadamer usa per individuarne il senso: “il problema di lettura ermeneutica dell’opera d’arte è un problema di integrazione con la tradizione”, e la sua fruizione diventa problema della mediazione tra due mondi, il mondo dell’opera e il mondo del fruitore. In questo compito di integrazione risiede l’essenza del problema ermeneutico. Ma, una volta riconosciuto che il problema del valore di verità dell’esperienza estetica è un problema ermeneutico, siamo ormai passati dall’arte alla storia: nella misura in cui l’opera e l’interpretazione sono “eventi”, la questione della mediazione e dell’integrazione di questi mondi viene a identificarsi con quella, più vasta, di ogni rapporto con il passato. L’esperienza storiografica si rivela quindi un’esperienza di integrazione, cioè di mediazione di due mondi.³²
Il rapporto reale, vivido e drammatico che ha toccato da vicino Bernardo Bellotto con la Guerra dei Sette Anni non può essere assolutamente trascurato in relazione a un’analisi interpretativa dell’opera d’arte nella Storia. Bellotto invece di ignorare gli orrori della guerra agisce in modo geniale preservandoci l’immagine, per esempio, del quartiere dresdense di Pirna completamente distrutto. (fig.11) Niente è più lontano dall’effetto di melodramma che avrebbe reso anche solo un accento sulla nota del pittoresco; Bellotto non concede niente a un atteggiamento di stampo vanvitelliano: ci presenta una fotografia del tempo, una fotografia che viene scattata in questo caso verso un paesaggio che sarebbe stato trascurato da qualsiasi altro protagonista della pittura, un paesaggio che sarebbe stato indifferente a qualsiasi occhio a lui contemporaneo. Ma l’aspetto più straordinario è la sopravvivenza di questa immagine, a due secoli di distanza, quando si cercherà di dare nuova vita alle rovine di Dresda e Varsavia, superstiti all’efferata furia del secondo conflitto mondiale, grazie a un processo di anastilosi che sugge la linfa vitale proprio da quelle vedute. Un salto nella storia, e nella ricostruzione di una città; il che vuol dire di un’intera civiltà.E’ per questa ragione che oggi possiamo affermare senza riserve che, con le sue vedute, ci troviamo davanti a uno degli sguardi più sensibili del suo tempo, e all’occhio più aperto al futuro.
L’atteggiamento di denuncia ravvisabile in queste opere non può essere dissociato nel fruitore moderno da quella immagine di distruzione e morte che nel ‘900 ha caratterizzato la città di Dresda, ponendo nuove problematiche di aggiornamento e attualizzazione dell’intera opera bellottiana. L’assedio, nell’estate del 1760, vide quattordicimila soldati austriaci opposti a un grande esercito prussiano. In una triste premonizione del destino che avrebbe colpito Dresda nel XX secolo, i granatieri prussiani lanciarono bombe a mano verso i piani superiori delle case e intere strade andarono a fuoco.
Metà dell’area costruita della città bruciò. La preziosa e antica Kreuzkirche capitolò quando il suo grande pinnacolo prese fuoco e crollò, spargendo fiamme sugli edifici circostanti e allargando ulteriormente l’incendio. La guerra dei Sette anni finì nel 1763. Centomila sudditi di Augusto III morirono durante gli anni della guerra e dell’occupazione. Nonostante il cuore della città fosse stato densamente costruito, i parchi reali e gli spazi verdi municipali erano sopravvissuti. Venne deciso, nel 1840, che le nuove ferrovie non avrebbero potuto attraversare il centro storico o circondare Dresda e deformarne i sobborghi come era successo altrove. Nel cuore di Dresda, i cittadini facoltosi convivevano fianco a fianco con quelli più indigenti in modo davvero insolito, come succedeva sin dal Medioevo, ma ora in condizioni molto più sane. Dresda era di nuovo un buon posto dove vivere. Rispetto agli standard in Europa e negli Stati Uniti nel primo Novecento, davvero un ottimo posto. Ma, proprio quando Dresda sembrava avere trovato la sua strada per un posto al sole fra i luoghi più attraenti per lo svago e il piacere, i cavalieri neri che avevano galoppato per l’ultima volta in quella direzione nel 1760, stavano di nuovo conducendo i loro destrieri verso la Firenze sull’Elba.³³
Di Varsavia, e della suggestiva veduta ritraente la monolitica chiesa del Sacramento, quasi deformata dal brulichio del corpo complesso e informe della folla di una giornata di mercato, la nota che più impressiona è la pastosa luce di pennello, che riverbera ombre e dispensa luci con parsimonia, rispetto alle tante altre vedute di Bellotto in cui si può ben parlare di atmosfere pregne e gocciolanti, madide, “rabbrividenti, che penetrano nei mattoni con il loro spessore fisico di umidità – e di – luci che nuotano nella materia stessa dell’architettura, e con essa fanno anzi un solo corpo scintillante come per minuti bagliori di perle. […] luce che prevede l’attimo luminoso di un lontanissimo impressionismo”.³⁴ Qui invece è come se lo sfavillio cromatico si spegnesse di un tono, quasi a preservarne il colore per la Storia. Perché anche in questo caso è lei la protagonista, nel fare di questa veduta una moderna teofania del Paesaggio, il quale, grazie a questa sintesi in pigmento dei suoi elementi vitali, si offre a noi oggi nella sua incessante testimonianza di civiltà. E ci ricorda che le immagini attraversano la maestosità del mondo visibile per illustrare la millenaria attività del costruttore di dimore e svelare i paesaggi e le loro etiche, che segnano il passo della civiltà.³⁵ Le immagini, le vedute, non sono dunque altro che metafore. Ognuna esprime un concetto, un paesaggio: un’etica. Si può parlare di etiche e di paesaggi, non del paesaggio in senso astratto e assoluto. Quest’ultimo non esiste o è un’idea iperurania. Perché, soprattutto, non si può dare una definizione ontologica a una realtà in continuo mutamento, che appartiene all’essere umano.” ³⁶
“L’opera di Bellotto è come un film, girato nel viaggio attraverso l’Europa, da Venezia fino a Varsavia. Le immagini si susseguono nitide e imponenti imprimendosi nella memoria per la grandiosità dell’impostazione prospettica e la forza dei contrasti luministici, ma ogni volta che lo sguardo si sofferma su un dettaglio è una scoperta.”³⁷ In questo Bellotto è l’interprete privilegiato, dotato di saturnina chiaroveggenza, della civiltà urbana europea: in ogni sua tela c’è un’intenzionalità documentaria tale da arricchire la sua pittura di note che diremmo proprie della cultura materiale di cui è intessuta la vita di ogni città.³⁸ E per questo stesso motivo Bellotto, come ricorderà Edward Gibbon, si scoprirà un narratore di città con l’attitudine dello storiografo, e con un habitus mentale, una minuzia, una serenità e una serietà d’intenti che nulla hanno a che spartire col gusto frivolo del bozzetto e del capriccio, al quale lo stesso Canaletto resta legato. Nelle sue vedute si sente il respiro caldo dell’attualità, quel “hic et nunc” che resta il principio fondativo della cultura occidentale.
NOTE
1: Il soprannome Canaletto può generare qualche confusione, ma mentre nei paesi di lingua latina e anglosassone, con tale soprannome è richiamata la figura di Antonio Canal (Venezia 1697 – Venezia 1768), il celebre vedutista, in quelli mitteleuropei con esso viene comunemente indicato Bernardo Bellotto (Venezia 1722 – Varsavia 1780), nipote e allievo del primo, di cui qui trattiamo. In effetti sarà proprio il Nostro, già nel firmare le prime delle sue trentotto acqueforti, ad adottare il soprannome “Canaletto”. Addirittura alla fine della sua carriera, nel 1768, quando si trova presso la residenza reale di Varsavia, il Bellotto inserisce la firma collettiva “Canaletti” per siglare una serie di vedute romane, includendo anche il figlio Lorenzo quale collaboratore ufficiale nella bottega di famiglia e indicandolo così quale erede della sua tradizione. A quella data si precisa comunque che il casato “Bellotto” non era scomparso, anzi l’artista lo userà ancora anche sottoscrivendo dipinti, ma il soprannome aveva avuto modo di affermarsi, restando praticamente come unica designazione in Polonia e nei paesi tedeschi.
2: Come sensibilmente osserva Andreas Schumacher, curatore della retrospettiva – tratto che evidenzia inoltre un aspetto della poetica di Bellotto tanto moderno da superare addirittura il momento romantico, per confrontarsi con l’orizzonte del Realismo più maturo.
3: Due orientamenti che richiedono specifici e precisi indirizzi critici, a mio vedere da ricercare nella interpretazione storico-fenomenologica di ambito ermeneutico, così come delineata da H.G.Gadamer. Questi ritengo essere gli elementi fondanti della ricerca poetica del Bellotto. Inoltre lo stesso processo compositivo adottato dall’artista presenta tutta una serie di altri elementi espressivi, essenziali per la comprensione dell’opera, che solo una lettura di carattere ermeneutico consente a mio giudizio di illuminare pienamente. Per quanti fossero interessati a un loro approfondimento critico, gli specifici aspetti analitici si trovano contestualizzati nella ricerca di tesi “Bernardo Bellotto: interprete del genius loci”, Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura, 2006.
4: Come nota acutamente Bozena Anna Kowalczyk nell’ampia disamina critica riportata nel catalogo della già citata mostra Canaletto. Bernardo Bellotto dipinge l’Europa. In effetti questo senso di inquietudine, che sembrerebbe avvicinarlo a un sentimento pre-romantico, va a mio giudizio riconosciuto in un altro sentimento particolare, come ho avuto modo di affrontare in altra sede – per chi fosse interessato può guardare alla trattazione del concetto di Stimmung nella tesi “Bernardo Bellotto: interprete del genius loci” già citata – più vicino alla sfera del “pittoresco”. In particolare questo senso di inquietudine, nell’esperienza biografica dell’artista, virerà in vera e propria melancolia, di cui l’opera porterà i segni.
5: Cesare De Seta, “Bernardo Bellotto, vedutista e storiografo della civiltà urbana europea”, in Bernardo Bellotto. Verona e le città europee, a cura di S. Marinelli, catalogo della mostra – Verona, giugno-settembre 1990, Electa, Milano 1990.
6: Bozena Anna Kowalczyk, ibid.
7: Già nella giovanile serie di vedute romane ascrivibili al 1742, Bellotto, per dare efficacemente conto della identità locale dei Fori, affina un metodo di “ripresa ambientale” che precorre l’acquisizione di quello che il cinema adotterà quale meccanismo narrativo per eccellenza, in fase di montaggio, e sul quale autori come Eisenstein nel XX secolo scriveranno pagine memorabili: il campo e controcampo.
8: Si possono riconoscere in quest’aspetto della pittura del veneziano, non incline ad alcun sentimentalismo, già oltre l’Illuminismo settecentesco, i semi del Positivismo. Non solo: anche le ragioni del valore assunto dalle sue vedute per la ricostruzione delle città di Dresda e Varsavia, distrutte dai bombardamenti della Seconda Guerra, maggiore in una prospettiva documentaristica delle stesse fotografie d’epoca sembra lecito ricondurle a questa attento processo di ricognizione ambientale.
9: A queste conclusioni si è giunti adottando una lettura dell’opera di carattere ermeneutico, che ci è sembrata la più adatta a rendere conto degli strumenti del processo elaborato da Bellotto. Costanti di tutta l’analisi sono l’inquadramento critico dell’uso della camera ottica e della conseguente resa prospettica, posto in relazione alle corrispettive valenze semantiche. Da queste ultime deriva il preciso legame che unisce le vedute di Bellotto al paesaggio rappresentato, che le inserisce in tal modo a pieno titolo, quali riferimenti irrinunciabili, nell’approfondito dibattito fenomenologico contemporaneo sull’essenza del luogo.
10: Da una riflessione di Massimo Venturi Ferriolo, in Etiche del paesaggio. Il progetto del mondo umano tra antico e moderno.
11: Si è cercato di definire questo primo momento della poetica bellottiana facendo riferimento al modello interpretativo di Christian Norberg-Schulz, presentato nel suo testo, Genius Loci. Paesaggio, ambiente, architettura, Documenti di architettura, Milano, Electa, 1992; modello che riproduce le dinamiche essenziali con cui l’uomo percepisce il dato ambientale, e attraverso il quale tentiamo di ripercorrere le tappe essenziali di un eccezionale percorso di scoperta dei luoghi, come quello intrapreso dal veneziano.
12: Scopriamo in questo modo il vedutista intento a esprimere in formula visiva il concetto della direzione, così come viene indicato da Norberg-Schulz quel meccanismo di percezione ambientale che segue una sorta di osservazione in “piano-sequenza”, quando decide di definire il genius loci del Canal Grande. Acquisisce poi il concetto di ritmo, nelle vedute di Piazza S. Marco e della Piazzetta, in un meccanismo d’orientamento che sfrutta la dinamica del “campo e controcampo”. Nei campi, le piazze veneziane, infine Bellotto fa proprio, grazie all’uso di una prospettiva “semplice” non composta, derivante da una singola ripresa, il concetto della centralizzazione.
13: E’ il 1742 quando probabilmente parte alla volta dell’Italia centrale per il viaggio di prammatica a Roma. Il viaggio non risulta documentato, ma ne scrive il Guarienti [1753]: “Per consiglio del Zio portatosi a Roma, fece uso del suo talento per disegnare e dipingere le antiche fabbriche e le più belle vedute di quell’alma città”.
14: E’ con le nuove tappe del Grand Tour, laddove non ci sono ancora coordinate iconografiche cui riferirsi, che si avrà la vera e propria maturità artistica del veneziano. In particolare con le vedute lombarde, dove lo scardinamento della gabbia prospettica, la scoperta dell’ambiente naturale e del paesaggio, denunciano chiaramente il nuovo abbrivio espressivo, Bernardo giungerà a piena consapevolezza dei propri strumenti conoscitivi e d’indagine, e si sentirà pronto al grande balzo, al di fuori dei confini nazionali. Per quanti fossero interessati a una più ampia trattazione, si può far riferimento ai capitoli III, IV e V della mia tesi, op.cit., pp.131-928.
15: Nelle nuove mete del Grand Tour (già in Lombardia) il pittore muove un ulteriore passo verso la comprensione del carattere ambientale grazie alla scoperta del binomio naturale-artificiale, già improntato a un’analisi diretta e partecipata “sul motivo”. Quindi le nuove città europee, di cui Bellotto fisserà per primo l’immagine tanto efficacemente da diventare, in un fatale circolo ermeneutico di ricorsi storici, la base per la ricostruzione dei rispettivi nuclei storici, dopo la distruzione della Seconda Guerra.
16: E’ però lo stesso processo artistico messo a punto dal veneziano a presentare già tutti i tratti di un nuovo corso espressivo: al primo momento “euristico”, in cui egli appronta intuitivamente gli strumenti di ripresa ambientale(identificati sulla griglia di Norberg-Schulz), segue il secondo momento “analitico”, in cui l’artista, grazie all’adozione della camera oscura (un attento studio è stato fatto in proposito dal Pignatti in “Gli inizi di Bellotto”, Arte Veneta, XX, 1966, pp.222-227) e al perfezionamento di un meticoloso processo di ricomposizione prospettica (come mostrato dalla puntuale analisi della Limentani-Virdis, in “Bernardo Bellotto: imago veritatis”, in Bernardo Bellotto., Verona e le città europee, a cura di S. Marinelli, Electa, Milano, 1990), compone il proprio personale linguaggio pittorico. Infine giunge il terzo momento, attraverso un processo di “sintesi”, che non consiste solamente nel comporre la singola veduta partendo dai corrispondenti disegni elementari, ma giunge a delineare, attraverso un insieme di più vedute che riprendono un medesimo luogo (inteso come identità ambientale, ad esempio l’Arno a Firenze), una sorta di macro-veduta, nella quale per la prima volta empiricamente vediamo presentarsi un carattere ambientale chiaramente definito e precisato. Ciascuno dei tre momenti adotta dunque strumenti propri: un raffinato metodo di “identificazione del carattere ambientale”, l’uso della camera oscura, e una particolare tecnica di riproduzione prospettica; e necessita quindi di una sua specifica lettura. Possiamo tuttavia tentare di delinearli embrionalmente seguendo la biografia del pittore (intesa come luogo di rapporti temporali destinato di volta in volta a una illuminazione particolare e precondizione necessaria per leggere in chiave ermeneutica l’opera del vedutista).
17: Con ogni probabilità a causa dello stato di guerra che gli impediva i rapporti con la clientela inglese, nel 1746 il Canal si trasferisce a Londra. Dopo di allora, non sembra si siano verificati scambi tra i due, né sul piano umano né su quello artistico, benché Wallis (1954) sostenga che, partendo, lo zio avesse affidato al nipote la conduzione della bottega.
18: Nel 1748 Bernardo riceve già ufficialmente la carica di pittore della corte sassone con lo stipendio annuo di 1.750 talleri, superiore a quello di ogni altro artista al servizio di Augusto III. Il re prediligeva i veneziani in ogni ambito culturale e ne aveva parecchi a corte; fra gli altri, dal 1746 vi si trovava padre Guarienti, cui il Bellotto deve la prima citazione critica.
19: Proprio questo genere di vedute ha portato alcuni storici a ipotizzare per il Nostro l’incarico di scenografo di corte, supposizione però finora non suffragata da alcun documento.
20: Sarà in queste vedute che Bellotto formulerà una nuova “ripresa” di carattere territoriale, nei panorami, e tornerà a una ricostruzione della quinta scenica attraverso le vedute delle strade cittadine, che si presentano in questo modo come un nuovo teatro urbano.
21: Ora, mi scuso per le difficoltà argomentative, ma occorre fare una digressione di carattere teorico, per impostare precisamente i termini della questione. Il problema della filosofia contemporanea si può ricondurre in estrema sintesi, secondo Hans Georg Gadamer, alla conferma del concetto hegeliano di “spirito oggettivo”, accompagnandolo con l’acquisizione definibile, nel senso più vasto e generico, “esistenzialistica” (da Kierkegaard a Heidegger), della incapacità di comprensione assoluta della coscienza, e cioè della finitezza dell’uomo. Questo problema può essere avviato a soluzione, secondo Gadamer, solo riscoprendo, insieme a una tradizione di pensiero che è ormai consolidata, da Heidegger a Wittgenstein, la centralità della nozione di linguaggio. L’ontologia ermeneutica che Gadamer formula in Verità e Metodo (nota H.G.Gadamer, Wahrheit und Methode, Tubinga, 1960, trad. it.) si presenta appunto come una soluzione di questo problema, e il fenomeno del linguaggio si pone al centro della filosofia contemporanea perché esso, al contrario del concetto di spirito hegeliano da cui Gadamer muove la sua critica, possiede il vantaggio, adeguato alla nostra finitezza, di essere infinito come lo spirito, e tuttavia finito come ogni accadere» (nota H.G.Gadamer, ibid., p.148). Per giungere a questa conclusione Gadamer fissa come punto di partenza dell’intero discorso di Verità e Metodo il riconoscimento dell’esperienza di verità che si dà al di fuori del metodo scientifico. Questa si ha nell’esperienza estetica, come già aveva evidenziato il processo fenomenologico della prima metà del Novecento. Il ritorno fenomenologico sull’esperienza come tale insegna che questa vede ciò che esperisce come verità autentica. Essa è e rimane fondamentalmente certa della verità del proprio «oggetto» (nota H.G.Gadamer, ibid., p.112). Al concetto di rappresentazione Gadamer lega strettamente la nozione di Selbstdarstellung, (autorappresentazione). Che l’arte sia una forma di conoscenza non solo per chi la contempla, ma anche per l’esecutore e per l’artista stesso, significa che in essa c’è ben più di quanto il soggetto ci mette. Anche per l’artista l’opera è un conoscere, l’incontro con una verità. Nella rappresentazione, a qualunque livello, viene in luce, cioè si mostra, ciò che è. La rappresentazione è anzitutto un evento di cui l’artista, l’esecutore, l’interprete-lettore non sono autori, ma partecipi. Questo passaggio è fondamentale per comprendere quale sia la direzione di senso di quest’interpretazione ermeneutica dell’opera del Bellotto, e quanto conti quindi l’opera stessa intesa nel suo significato fenomenologico, e il metodo euristico avviato da Bellotto, che si pone in questo modo quale fondamentale “esperienza di verità”. Da qui l’analisi del carattere ambientale come necessario al bisogno di identificazione col luogo, bisogno primario di ogni “abitante” (inteso nel suo senso etimologico di “aver consuetudine in un luogo”, conoscere e immedesimarsi con il luogo, o parafrasando Heidegger “essere partecipi della terra”), cui l’opera d’arte collabora attivamente come evento di “presa esistenziale”. (credo sia questo uno degli assunti più alti che la coscienza dell’uomo occidentale sia riuscita a fare proprio. La teoria dell’arte, confortata da quella dell’architettura, ha tentato di continuo una definizione di spazio in termini concreti e sistematici, fin dalla teorizzazione della prospettiva centrale. Tuttavia, di fronte all’insormontabile problema di riconoscersi all’interno di uno spazio che non è né omogeneo né isotropo, come vorrebbero i due concetti di spazio basilari (quello di spazio geometrico e quello di spazio come campo di percezione) l’uomo ha pensato di adottare categorie qualitative, per definire quello spazio “concreto” di cui partecipa intuitivamente l’esperienza quotidiana. Ecco allora che viene adottato il concetto della direzione, del su e del giù, o il binomio “interno-esterno” – Giedion – o ancora la definizione di “sistema di luoghi” – Paolo Portoghesi – intendendo che, sebbene il concetto di spazio possa essere descritto in termini matematici, è comunque sempre radicato a situazioni concrete. Quest’ultima corrisponde in sostanza alla posizione di Heidegger, secondo cui “gli spazi ricevono l’esistenza non dallo spazio, ma dalla località”. (M. Heidegger, “La Casa”, (1950), in Saggi e Discorsi, trad. it., Milano, Mursia, 1976) Ed è il passo fondamentale che muove Bellotto, e che possiamo chiaramente apprendere guardando alla sua opera, che passa da un’interpretazione della veduta di tradizione prospettica, a una di chiave topografica – inaugurata da Gaspar Van Wittel, perfezionata da Luca Carlevarijs e trasmessagli direttamente poi da Canaletto – alla definitiva “ripresa” del carattere locale.
22: l’interpretazione ermeneutica gadameriana è stata adottata in quanto il “metodo”, il processo euristico intrapreso da Bellotto nelle sue vedute richiede un preciso indirizzo di analisi critica che sembra trovare in essa la più perfetta corrispondenza. Ma, e forse ancora più significativo, è il fatto che l’opera di Bellotto si presenti di rispetto come occasione unica per adattare in maniera ampia e distesa questo tipo di analisi all’ambito storico-artistico.
23: Questo concetto informa tutta l’analisi da me avviata sull’opera di Bellotto, ed è il cardine del momento ermeneutico “analitico”, espresso in due diversi e distinti processi interpretativi. Il primo processo parte da una riduzione agli elementi linguistici primari di ciascuna veduta (sia attraverso l’individuazione delle singole inquadrature prospettiche che vanno a formare la veduta finale, sia attraverso la ripresa degli schizzi preparatori o dei disegni che la compongono, si applica un processo di decostruzione che permette di ripresentare i diversi e autonomi punti di ripresa), per proseguire con l’analisi degli elementi linguistici secondari, ovvero quelli dotati di senso autonomo, con un valore di “significante” più esteso, quali sono le singole parti della veduta, che individuano singoli momenti di per se rappresentativi di una precisa intenzionalità artistica (denominati per semplicità “particolari”). Se si vuole un’altra conferma del diverso valore semantico dei due gradi interpretativi è data anche dal fatto che le varie parti, cioè gli elementi discreti del linguaggio pittorico, quando “primari” danno luogo a un’interpretazione di carattere preminentemente iconografico, quando “secondari” danno invece luogo a un’interpretazione di carattere maggiormente iconologico.
24: Allo stesso modo il disegno tratto direttamente sulla camera oscura diventa un frammento, una parte della veduta, così come pure la singola veduta sarà letta solo come una parte, di una “macro-veduta”; e da questo processo si può giungere a definire quello che abbiamo chiamato carattere ambientale.
25: Nella sua forma più semplice con “circolo ermeneutico” s’intende che le parti di un testo si capiscono solo alla luce del tutto, ma il tutto è compreso solo in base alle parti.
26: chi desiderasse approfondire questi aspetti, rinvio al capitolo V della tesi già citata.
27: Sono altri due dei meccanismi di presa ambientale individuati da Norberg-Schulz; certamente i più formidabili e interessanti per una interpretazione di carattere ermeneutico, che non può non accompagnare anche la cognizione del tempo.
28: comunque mai di intonazione faceta, aprendo semmai al mondo della visionarietà e dell’incubo, come il Piranesi e il Goya delle pinturas negras. Tanto che un esegeta attento come Giuseppe Maria Pilo saprà leggervi “un sentimento poetico delle cose esasperato, algidamente surreale nella tensione traslucida e spessa dell’atmosfera.” (in G. M. PILO, “La Mostra dei vedutisti veneziani del Settecento”, in Arte veneta, 1967).
29: Si parva licet, Roberto Longhi paragonerà quell’ammasso di umanità laboriosa a “proverbiali formiche industriose”.
30: Gadamer indica con il termine Wirkungsgeschichte (alla lettera: storia degli effetti) un concetto basilare: un evento storico non è qualcosa che si possa contrapporre alle conseguenze e quindi anche, quando si tratti di un’opera, alle interpretazioni di cui si è caricato nel corso del tempo. La sua storia è identica alla storia dei significati che ha via via assunto e a questa storia anche l’interprete appartiene. (nota H.G.Gadamer, ibid., p.202-210) Nel solco di tale tracciato ermeneutico del senso della storia e dell’opera d’arte muove dunque questa interpretazione dell’opera di Bellotto, ed è sembrato pertanto l’approccio più pertinente per rilevare ed approfondire il concetto che sta alla base di questa ricerca: l’identificazione col luogo.
31: Gadamer ci ricorda che è anzitutto l’artista che fa un’esperienza di verità in quanto incontra una realtà nuova. Bellotto in questo caso è un testimone d’eccezione di quest’incontro, di quest’esperienza di verità, con una realtà sempre nuova, e rinnovata, sia per la straordinaria esperienza di luoghi continuamente da scoprire, che fa come viaggiatore e pittore di paesaggio, sia come cronista di eccezionali “eventi” storici, come nel caso della Guerra dei Sette Anni.
32: Gadamer si ricollega in questo caso esplicitamente a Heidegger e alla sua teorizzazione del circolo ermeneutico. Com’è noto, Heidegger riprende la nozione, tradizionale nell’ermeneutica sin dall’antichità, della circolarità della comprensione, portandola alle sue estreme conseguenze ontologiche. Ma l’opera di Bellotto non può prescindere da un’interpretazione ermeneutica soprattutto per quel che riguarda il suo reiterato ripercuotersi nella storia, attraverso il fondamentale momento della ricostruzione dei nuclei storici delle città di Dresda e Varsavia, che presenta in modo esemplare la ricorsività del circolo ermeneutico e l’apertura di senso che offre l’opera d’arte all’interno di una tale lettura.
33: F.Taylor, Dresda, 13 febbraio 1995: tempesta di fuoco su una città tedesca, Mondadori, Milano, 2005, pp. 41 – 42.
34: F. CAROLI, La storia dell’arte raccontata da Flavio Caroli, Electa, Milano, 2001.
35: L’ethos, entità originaria a noi sconosciuta, comprende la prossimità dell’uomo con il divino, il sacro: il divino immanente perduto dai moderni. Lo dimostra il frammento 119 di Eraclito, ben interpretato da Heidegger nella Lettera sull’“umanismo” (M. Heidegger, lettera sull’“umanismo” (1949), tr. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1995, p. 90), che recita ethos antropo daimon. Heidegger parte dal primo significato di ethos, luogo, traducendo: “l’uomo abita nella vicinanza di Dio”: soggiorna con la divinità. Questa è la divinità, il genius loci, che vediamo apparire nelle vedute di Bellotto. Che sa, come rivela un altro frammento di Eraclito, che il mondo è pieno di demoni. L’Eudaimonia, la felicità, è il possesso del buon demone: lo stato di equilibrio tra divino e profano che ci permette di vivere bene – potremmo dire con il linguaggio moderno. Sono questi i contenuti dell’abitare, così come lo intende Heidegger: il senso profondo dell’avere luogo. Dove la dimensione del divino, come insegna la classicità greca, è sempre presente.
36: Massimo Venturi Ferriolo, Etiche del paesaggio. Il progetto del mondo umano tra antico e moderno.
37: Bozena Anna Kowalczyk, ibid.
38: è questa la chiave che rende possibile – e l’aspetto che più richiede – un’interpretazione fenomenologica dell’opera del veneziano, nei suoi rapporti col luogo rappresentato.