Milano e l’arte contemporanea – intervista a Flavio Caroli
Marco Marinacci
MM: Quando inizia la tua esperienza nel mondo del contemporaneo milanese?
FC: Ci avviamo all’anno chiave, per il mio percorso professionale, col gennaio ’74: a gennaio concorso per Assistente ordinario e incarico di insegnamento; il 14 febbraio Francesco Arcangeli, il mio maestro, muore, e io subito dopo mi trasferisco a Milano, dove comincia a diventare importante il Corriere anche come baricentro del pensiero critico militante sull’arte contemporanea.
MM: Milano a quelle date nell’arte era dunque prima di tutto giornalismo?
FC: Milano nell’arte non era il massimo perché aveva sprecato delle occasioni di proposta e di rottura che invece aveva saputo cogliere Torino…ma Milano era Milano, c’era un’aria di cambiamento che rendeva tutto vibrante! All’inizio del mio percorso accademico ho cercato di scappare verso Roma, poi sono stato risucchiato da Bologna, ma Arcangeli muore, e a quel punto Milano diventò la destinazione naturale, dove avevo in mano la carta del Corriere, il che mi consentiva di arrivare in condizioni privilegiate.
MM: Ma tutto accade repentinamente, il destino quasi non ti lascia scelta…
FC: Beh, sì, Arcangeli è morto e io ne ho avuto la notizia il mercoledì mattina. La domenica precedente io e mia moglie avevamo portato Arcangeli e la sorella alla finale di campionati di tennis al Palasport di Bologna: Roth Meiler contro Artur Rush, finale bellissima! Poi il lunedì andiamo a pranzo ed è la prima volta in cui mi lascia pagare, il martedì non so nulla e all’alba del mercoledì mi informano che è morto. Avevamo visto insieme la finale di tennis, vedi il longhismo che si è manifestato fino all’ultimo istante, nel tennis…
MM: come dire, non abbassare la guardia, perché la sfida è sempre accesa!
FC: Infatti. Era il giorno di San Valentino… nel frattempo io avevo cambiato casa a Bologna ed ero andato ad abitare nel più bel palazzo di Bologna che era palazzo Isolani, con la scala del Vignola del ‘500, davanti alla Cesarina, in piazza Santo Stefano, ma capisco che l’aria bolognese è asfittica e prendo un pied-à-terre a Milano dove comincio la mia relazione più intensa con il Corriere, col quale già collaboravo, e incontro la realtà milanese. A quell’epoca io conoscevo bene la realtà romana e, oserei dire, conoscevo meglio la realtà londinese o parigina di quella milanese nei dettagli perché Milano era una potenza commerciale ma non si capiva molto di più, rispetto alle ambizioni culturali. Allora decido che per orientarsi è bene entrare in contatto con la realtà commerciale milanese, il che vuol dire innanzitutto Galleria del Milione, che era la più tradizionale: quindi Morandi ecc… e subito a seguire le gallerie nuove come Marconi, che aveva scelto la linea dell’eredità della Pop Art, il che implicava in quel momento più un legame con l’Inghilterra che con l’America, anche perché Valerio Adami, che era uno dei protagonisti di questa cosa, aveva abitato a Londra; poi c’era la Galleria Grossetti, che era più minimalista all’europea; lì c’era l’eredità Fontana.
Nel frattempo a Bologna divento amico di Renato Zangheri, il sindaco, il quale mi chiede di fare una grande mostra per il ‘76 alla neonata GAM che aveva aperto nel ’75: Bologna si stava dotando di un museo di arte moderna e Zangheri mi chiede di fare una grande mostra; io scelgo il tema più spinoso che ci fosse in quel momento cioè i rapporti fra Europa e America e infatti la mostra si chiamerà Europa-America: l’astrazione determinata cioè l’arte astratta fondamentalmente. Cos’era successo, era successo che già c’era nell’animo di tutti l’odio dell’EU verso l’America dovuta alla Pop Art, era una roba di anni se non di mesi, c’era l’odio verso la Pop Art che aveva spiazzato tutti sul piano figurativo, ma nel frattempo in America era nato il minimalismo, cioè la metafisica della Pop Art…
MM: cioè la Pop Art che “si congela e diventa strutture primarie”, primary structures, mi dicevi…
FC: Esattamente – come sai l’ho scritto anche nel mio penultimo libro – gli artisti stessi, gli americani in primis, dichiaravano apertamente: “noi non vogliamo dipendere dall’arte europea, le nostre cose sono fatte per stare nei quartieri nuovi, di nuova architettura delle città americane”. Ed ecco allora Robert Morris, Carl Andrè, Donald Judd e sul versante californiano Richard Serra, che però era il più vitalistico dei due; nasce questa idea raffreddata dell’immagine, anche popolare, ma raffreddata e immaginata all’interno del paesaggio visivo americano; naturalmente l’Europa rincalza, affermando: “come, noi abbiamo l’eredità di Fontana che nel ‘49 ha fatto l’ambiente neon – a Milano alla Galleria del Naviglio – abbiamo tutti gli artisti astratti europei a partire dai tedeschi del gruppo O, agli italiani Dorazio ecc… ai francesi, agli inglesi (era fortissima la parte inglese in quel momento), e quindi che bisogno abbiamo dell’America e delle strutture primarie quando noi abbiamo una grande tradizione astratta?”. Io metto nel titolo della mostra proprio la sfida di quel momento, e quando viene pubblicata la notizia sul Corriere, per dire che verrà fatta questa mostra, il minuto dopo si scatena l’inferno perché tutti iniziano ad attaccarmi, a dire che io sono un servo degli americani… E siccome la parte americana veniva in larghissima misura prestata da Giuseppe Panza Di Biumo – tante delle opere che saranno in mostra le teneva in casa a Varese e a Milano – tutti a dire che Pansa di Biumo mi paga, che sono un servo degli americani… bisogna pensare a quegli anni lì, nel ‘76, insomma un inverno infernale fra il ‘75 e il ’76, mentre io continuo a collaborare al Corriere in gran parte parlando anche di arte moderna, si arriva al giorno dell’inaugurazione della mostra, la quale, a dire la verità, era bellissima, forse la più bella mostra che abbia mai fatto. Ricordo che venne a vederla Briganti il quale disse “è una mostra sci sci” cioè elegante… eh sì perché il Salone centrale era occupato dal Mare di Pascali, ed era venuto apposta a Bologna a fare il lavoro sulle pareti Sol Lewitt cioè il n. 1 degli americani, quindi, sai, Pascali al centro e Sol Lewitt tutt’intorno, poi da lì si dipanavano due piani di mostra, su un piano gli americani, sì perché poi si partiva dalle radici, per gli americani si partiva da Rothko, gli europei.., lì ho ricostruito l’ambiente nero di Fontana, con l’aiuto della moglie, e allora c’era ancora una memoria viva..; insomma, era una mostra che a me piacque molto realizzare… lì per lì anche i detrattori sembrano capire e fanno un po’ placare le polemiche, ma il tema ribolliva nell’animo di tutti, perché “noi siamo terra di sbarco per gli americani mentre bisogna occuparsi di noi”, e il tutto affermato con violenza!
MM: la violenza era anche nella proposta degli americani?
FC: no, era nella risposta degli europei, gli americani se ne fregavano. Bastava andare a New York a vedere il clima nella famigerata 420 Broadway e già vincevano, erano dominatori sul pianeta e a questo punto Castelli aveva passato la Pop Art fra gli storici e tutto l’edificio lì, John Weber in primis. La Solomon e Castelli stesso appoggiavano quell’America lì, perché poi nel frattempo in Europa c’era stata l’Arte Povera e quindi c’era una rivalità in quel senso, c’era un’Arte Povera più vitalistica, più naturalistica e gli americani più formalistici… insomma la battaglia ferveva e poi erano gli anni della violenza, stiamo parlando del ‘76 e del ‘77, cioè l’anno dopo avrebbero rapito e ucciso Moro, veniva toccato nel profondo per molte ragioni l’orgoglio europeo, anche politico.
MM: In questo clima, una cosa balza all’occhio, il fatto che per Europa e America ci fosse un europeo morto ormai da otto anni, Pascali, a rappresentare l’Europa, e Sol Lewitt invece, ben presente, per l’america. Già il sole che si alza?
FC: Pascali io lo tiravo in ballo perché il Mare è una formalizzazione del mare e quindi c’era un’analogia con quello che facevano.
MM: ma da una parte ciò non prendeva atto dell’Europa che passava mano all’America?
FC: no, Pascali era un ragazzone pugliese che stava a Roma e ha avuto delle idee geniali, forse con quest’opera lui sentiva delle cose che accadevano in America, ma era una schematizzazione di ciò che è un mare, quindi probabilmente sì lui sentiva il minimalismo americano ma lo faceva all’europea, non col raffreddamento degli americani.
MM: però c’era una continuità rispetto a Pascali e altri che erano in quel momento che porteranno avanti questa linea, questa dimensione di ricerca in Europa, forte quanto gli americani oppure…
FC: no perché in Europa intanto non nasce il minimalismo, non nasce l’idea di raffreddamento della formalizzazione, in Italia nasce l’Arte Povera; Pascali ha avuto delle intuizioni fondamentali.
MM: metti anche lui tra i vinti che non diventeranno mai vincitori?
FC: ma, insomma, Pascali se l’è cavata bene, la sua memoria dura, dura… gli altri poli della comunicazione della cultura in Italia erano Firenze, dove c’era Ragghianti, e Roma, che aveva una tradizione.
MM: eTorino?
FC: era più arte povera, in posizione ai tempi di contrapposizione col minimalismo americano. Calzolari mi disse: “gli americani formalizzano la vita, noi vogliamo respirarla”, cioè erano in polemica con il minimalismo, e poi l’arte povera allora non era detto che avrebbe vinto la battaglia nei decenni, ad esempio Gianni Colombo riteneva che sarebbe durata poco.
MM: poi c’era il polo di Venezia
FC: in quel momento si sentiva poco; c’era certamente Vedova, che è stato sempre piuttosto puntuale, ma in quel momento non se ne parlava.
MM: e Napoli in quel momento?
FC: Lucio Amelio giovane a quel tempo non sbagliava una scelta! Tieni conto che c’è ancora il clima del concettuale e Lucio Amelio, senza grande fortune, fa parte di quel mondo concettuale.
MM: E tu in quel momento facevi da spola tra Bologna e Milano dove la parola d’ordine era giornalismo.
FC: e infatti, qui siamo al cuore della battaglia per il Corriere della Sera, e questo fu un bel mistero. Bisogna leggere il libro di Fiengo, lì sono tutte cose rimaste senza spiegazioni. Fatto sta che nel ‘76 faccio la mostra ma nel frattempo ferve la battaglia al Corriere e nell’ottobre del ‘77 ufficialmente viene fatto fuori Ottone, direttore del Corriere del compromesso storico, che era anche amico di Zangheri; c’era il tentativo di portare il PC al governo, cosa che era detestata da altri. Ottone era anche molto odiato a Milano. Gli succede Di Bella. Nessuno lì per lì capì cosa successe, oggi la tesi più accreditata è che la P2 aveva preso la roba, e lì cominciò la lotta.
La prima cosa che venne fatta fuori fu la critica d’arte, cioè Calvesi e me, e arriva Testori, che voleva dire CL, e lì va avanti la battaglia… Fatto fuori Calvesi uomo dell’avanguardia, arriva Testori, il quale ufficialmente dichiara guerra all’avanguardia, un nome della tradizione, tant’è che il primo articolo di Testori che prende una pagina intera del Corriere è “Le cicale dell’avanguardia”, articolo leggendario perché quello è il momento in cui c’è l’attacco all’avanguardia e di fatto finisce l’avanguardia.
MM: ma tu eri ancora giovane…
FC: Infatti, guardo con interesse…Viene fatto l’attacco all’avanguardia in nome della pittura figurativa, e naturalmente c’è una levata di scudi su tutta la cultura d’avanguardia che aveva dominato tutti gli anni precedenti. Ti ricordi quando dicevamo che erano gli anni d’avanguardia, questi sono i reazionari e l’avanguardia non ricalcoliamo neanche, l’avanguardia si salva da sola? Se non che l’attacco di Testori era appunto sulla pittura figurativa, e guarda caso in quel momento c’era proprio un’alzata di scudi proprio da parte della pittura figurativa, ma non quella di Testori, ma dell’altra pittura figurativa, cioè quella di Chia, Clemente, Cucchi, Paladino, de Maria. E qui Bonito Oliva bravo e astuto, intitola tutta questa nuova proposta – che poi non era di BO ma era internazionale, l’onda in quel momento, ma lui furbo come il diavolo – la intitola Trans-Avanguardia. C’era la parola avanguardia, ma era trans, ossia ripercorrere tutta l’avanguardia, era un modo per cavarsela e per far convivere il clan dell’avanguardia con la pittura figurativa, e siccome la situazione era internazionale e, per così dire, viene subito “organizzata”, la cosa prende il volo anche mercantilmente. Si usa la svolta figurativa ma tirando fuori un’altra figurazione, che sfrutta pur sempre i circuiti dell’avanguardia.
MM: e quando approda a NY da Leo Castelli?
FC: Castelli l’ha voluta e non voluta, l’ha più subita. Nessun artista di questi è diventato un artista di Leo Castelli. La morsa è prima intorno agli italiani, poi si svegliano le forze vere, i tedeschi, Baselitz, Penk, e si muovono gli americani. Vengono da me Schnabel diretti da Bishofberger, già gallerista di Andy Warhol, e si stanno affacciando Basquiat e Keith Hering; poi gli artisti stessi ne promuovono altri, per dire Schnabel stesso che a casa mia mi indica David Sully… In Inghilterra si muove una certa corrente nuova con Christopher Le Brun che oggi è insegnante di pittura del Principe Carlo; in Francia si muove Garouste; tutta la situazione internazionale è in movimento verso una nuova idea di figurazione che non è quella di Testori ma alla quale Testori dall’angolino italiano ha prestato fiato, ma è un alibi. Nel frattempo la cosa matura, io riesco ancora a dire qualcosa sul Corriere di quegli anni…
MM: sono gli anni di Piombo.
FC: stiamo parlando del ‘78 ma soprattutto dei primi mesi del ‘79, allorquando io organizzo allo Studio Marconi la mostra “Nuovo Contesto”, la quale alza i toni dello scontro perché saltò fuori Omar Galliani, il Nuovo contesto, e quindi la situazione ferve, tant’è che nell’estate ‘79, in questo clima, viene fatta la commissione per la biennale dell’ ‘80 con 5 nomi dove ci siamo sia io che Bonito Oliva…
MM: e qui parliamo di settembre ‘79
FC: esattamente! Io vado a Venezia col direttore residente, andiamo a vedere l’inaugurazione del cinema, era la fine di agosto, e cominciano proprio ora le battaglie perché BO spinge in quella direzione, e io dico “sì, io ci sto a fare Aperto 80, però nessuno però può vietarmi di fare una mostra alla Triennale” e infatti riesco a preparare prima della Biennale la mostra alla triennale dell’80, “La Nuova immagine”, mostra in cui ci sono proprio tutti, e intanto cresce la polemica della Biennale. Poi si inaugura la Biennale, mentre a giugno dell’80 era nata la nuova situazione anti concettuale, anti anni Settanta, Nuova figurazione ecc…
MM: siamo arrivati al 1980 che in qualche modo già anticipa il decennio e soprattutto crea uno stacco, una crasi con gli anni ’70.
FC: quello che è interessante di questo momento è che cadono gli steccati, ci si accorge chiaramente che fino ad allora l’arte è sempre stata divisa da storici steccati, il primo è stato quello tra astratto e pittura figurativa – già qua il tema era talmente importante che era intervenuto Togliatti sulla prima pagina dell’Unità per prendere la parte di figurativi contro gli astratti – in questi anni tutto ciò cade. Già alla mia generazione, che era all’epoca quella degli appena trentenni, non è importato mai nulla dello steccato tra arte figurativa e arte astratta, ma soprattutto si dà per scontato e si scopre che nelle diverse parti del mondo c’è un nuovo spirito non legato a delle chiavi stilistiche.
MM: come ci si accorge di questa mutazione in corso?
FC: sarò concreto: in Italia c’erano da un lato quelli che cantavano Nuova Figurazione un po’ neo novecentesca che erano quelli della transavanguardia, in primis Chia e Paladino, poi c’era un versante più classico, diciamo Galliani potrebbe essere un esempio. C’erano gli astratti, per esempio lo stesso de Maria che pure faceva parte del gruppo della Transavanguardia o almeno che si voleva ne facesse parte, il quale era un astratto eppure non c’era contraddizione, E poi cominciava l’uso del video, cominciava l’uso della fotografia, che fu fondamentale. E io per esempio nella mostra dell’80 avevo anche un fotografo che poi è diventato celebre ed eccellente, Silvio Wolf, in più cominciavano a venire fuori i fotografi tedeschi eredi di Berndt e Billa Becker, della generazione precedente e usavano la fotografia in chiave concettuale mentre in questi anni qui la fotografia cominciava a essere seduttiva, l’esempio più clamoroso… E quindi da lontano si cominciava a sentire l’uso dei computer, certamente c’era l’uso dei video a questo punto era dichiarato la rottura dei settori.
MM: e Milano?
FC: Milano era semplicemente il terreno d’atterraggio già pronto per tutta questa nuova arte senza frontiere!