Nina Nasilli a Padova con “2N.est” dal 12 ottobre al 16 novembre
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Se mo sonasser tutte quelle lingue/
che Polimnia con le suore fero/
del latte lor dolcissimo più pingue,/
per aiutarmi, al millesmo del vero/
non si verria, cantando il santo riso/
e quanto il santo aspetto facea mero;/
e così, figurando il paradiso,/
convien saltar lo sacrato poema,/
come chi trova suo cammin riciso.
D.Par. XXIII, 55-63
Si potrebbe forse dire che Dante se la cava da angelo loico, decidendo che di ciò di cui non si può parlare bisogna tacere, come ribadirà, sei secoli più tardi anche Wittgenstein, a conclusione del suo Tractatus (per l’appunto) logico-philosophicus.
Ma l’arte contemporanea è più audace, nasce proprio dalla sfida di superare i limiti della capacità analitica razionale dell’espressività antropica d’Occidente, ancorata alla goffaggine, cui, come il prigioniero del mito della caverna, è costretto il corpo umano.
Infatti la natura umana, a dispetto della limitatezza e dell’esiguità dei sensi, è sottoposta alla leopardiana condanna della continua tensione al superamento di quei limiti, che le negano l’accesso a una capacità speculativa “superiore”, poiché di quei limiti è comunque consapevole, nel momento in cui, la mente che indaga, intuisce possibilità ulteriori precluse.
Così, i migliori (poiché ermeneuti di un proprio animo abitato dagli universali) esponenti dell’arte contemporanea tentano di individuare la frustrante soglia dell’origine primigenia, che separa il sapere dall’inconoscibile, fascinando e impressionando per la loro creatività intuitiva.
Nina Nasilli è tra questi un elemento di spicco, sia per la capacità di declinare l’espressione artistica secondo percorsi espressivi multimodali, che coniugano arti visive e verbo poetico, sia per la scelta delle tematiche: universali e cogenti.
Non a caso, quest’autunno, è la Nasilli, che è stata scelta per esporre la sua “2N.est” nello splendido spazio della Galleria civica Cavour di Padova, sottostante l’omonima piazza, anche al fine di preannunciare al Vecchio Continente, che Padova sta costruendo, ed è in procinto di inaugurare un museo permanente di arte contemporanea, per collocarsi, anche sotto il profilo dell’attenzione all’arte, tra i più importanti e moderni grandi centri della cultura a livello europeo, come ha rilevato Andrea Colasio, assessore alla cultura del comune di Padova.
Ma per tornare alle tematiche, la Nasilli è scesa a livello talmente profondo, da riuscire a individuare il principio germinativo di quel “gomitolo globale” (panus), il quale, contenendo randomizzati i valori panici (Pan “l’eterno”), sottende al destino dell’umanità. Cellula staminale totipotente della conoscenza e della cultura umana, per Nina Nasilli (peraltro in accordo con le recenti tesi del filosofo Manuel Cruz – per il quale l’amore è primum concettuale anche rispetto al sentimento della meraviglia – si veda L’amore filosofo, Einaudi, 2012), è l’Amore. Amore, ovviamente, nella sua accezione universale.
E le tele, e le liriche della Nasilli, si susseguono in un percorso saltatorio, ma coerente, embricate le une alle altre, potenti come gli apoftegmi di Eraclìto, a sollecitare verità intuitive disarmanti per l’inconfutabile lucida crudezza.
L’Amore, infatti; ma anche la Morte (Thanatos a esso indissolubilmente collegata mediante Psyché); la Guerra, inesorabilmente intrecciata alla Storia; la Memoria, nella sua accezione neurofisiologica, quanto in quella psicologica, e in quella culturale. Il Tutto, quindi, il quale non può essere, per definizione, l’Assoluto, perché il Tutto umano non è che un infinitesimo seme, che, rispetto all’Assoluto, perennemente e spasmodicamente tenta di ridurre l’intervallo asintotico, cui è condannato. È frustrazione dello iato, ma è anche il pathei mathos, che, da sempre, costituisce opportunità creativa per la grande arte. La Nasilli, avvalendosi di Polimnia, si metamorfizza in “2N.est” esponendo temi e linguaggi asintotici, a garanzia che, nel disorientamento, la cultura è comunque l’unica opportunità catartica percorribile.
L’opera ha richiesto coraggio, indubbiamente, ma prima ancora la forza della decisone di fare memoria con l’efficacia dell’arte, in luogo di subire annientamento e afasia, pur di fronte ad atti di empietà, davanti ai quali l’io si trova in una tale condizione di disperazione e dolore, che salvezza residua, rispetto alla paralisi delle connettività neurali, e all’annientamento dell’identità, sembrerebbe rimanere unicamente la rimozione.