Il Settecento: un secolo nel corso di un viaggio
di Marco Marinacci
Il Settecento è sembrato sempre marginale, periferico, quasi abbandonato a se stesso, rispetto ai grandi temi della storia dell’arte. Tanto che si parla di “marezzatura”, per definirne il carattere. Ma niente di più falso: esattamente alla metà del secolo deflagrano le due grandi bombe, che, con le loro onde d’urto, da una parte, daranno vita all’Illuminismo – una pulsione intellettuale che attraverserà l’Europa lungo una sua linea Maginot ben precisa – dall’altra, verso il fronte opposto, il Romanticismo, che quella linea riuscirà a oltrepassare senza colpo ferire, come l’esercito tedesco, per guadagnare i territori dell’Ottocento. Le due bombe, gettate da un Dottor Stranamore che ha perduto le coordinate del tempo, hanno un nome: si chiamano “Encyclopédie”, e “A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful” (Indagine sull’origine delle nostre idee di sublime e di bello), la prima fabriqué en France nel 1751, firmata d’Alembert e Diderot, la seconda made in England nel 1757, marcata Edmund Burke.
Tuttavia una certa idea di “confine” che attraversa il secolo, per la storia dell’arte (che ricordiamo essere disciplina del Novecento), resta. E ciò ne ha dettato la ancillarità, rispetto ai temi principi, che attraversano il secolo prima, con il gigante Caravaggio eletto a simbolo (non a caso riscoperto e tirato fuori dalle teche della storia proprio nel Novecento), e quello successivo (i grandi temi ormai propri della contemporaneità). Un’idea che sembrerebbe derivare da due momenti tanto fondamentali, per l’arte, come sono l’Illuminismo e il Romanticismo, che “scoppiando” proprio nel bel mezzo del XVIII secolo, creano il proprio alibi migliore, come a dire: «noi ci trovavamo là, esattamente nell’epicentro del terremoto. Noi non c’entriamo niente!». Ed è vero! E’ altro il motivo per cui si parla di confine, di limite, rispetto alle poetiche, che attraversano il Settecento, e non può essere legato né a una kunstwollen ben precisa, né a un carattere, mediante il quale può essere identificata la natura di quel periodo. Deve essere ricercato in una tensione generale di tutto l’arco storico, un’idea sottesa che irradia di sé ogni azione, ogni evento artistico. L’idea è quella del viaggio.
Già dal Seicento si era avvia quello che diventerà il fenomeno del Grand Tour, propagandosi per ogni strada battuta, che il XVIII secolo saprà creare, per poi inoltrarsi nelle vaghe terre dell’Ottocento, in cui si accorgerà che saranno quelli interiori, i veri confini da scoprire (Jean Paul Richter parlerà di Africa interiore).
Ma quella è già “esperienza diretta”, e, in qualche modo, “costituita”, dell’idea di fondo. Vi è un’altra esperienza, che viene prima, a identificare un carattere generale, una “tensione” del secolo, che l’arte, come sempre, saprà raccogliere e raccontare, massimo momento dell’espressione umana.
Saranno i Liotard, le Carriera, financo i Bellotto (che dal Grand Tour partono, per giungere a mete assai diverse, come vedremo nel prossimo numero), a segnare una nuova rotta, che forse era già stata individuata da un’altra grande viaggiatrice, e scopritrice, quale fu Sofonisba Anguissola: già in quel clima di attardato Rinascimento, ella portò l’arte in luoghi ben più periferici della sua Cremona (che era pur sempre una corte italiana).
Una rotta che volge le vele a Oriente, e incontrerà, appena passato il Capo di Buona Speranza della storia, un secolo, l’Ottocento, che incrocerà linee di sangue, con la grande civiltà iconografica orientale, tanto che Parigi rivedrà se stessa in Edo, e nella sua raffinatissima civiltà, mediante la quale si rievocava il tempo “prima della Rivoluzione” (si pensi solo a tutte le stampe giapponesi che andranno a costruire l’immaginario iconografico stesso della più pura pittura parigina: l’impressionismo; e quell’Ukiyo e, che si ritroverà tanto nell’Onda inesausta di Courbet, quanto nella pittura liquida di Monet, quanto nel filamento di materia cromatica di Van Gogh).
Una rotta, che, al levarsi di nuovi venti, terribili e tempestosi, i quali spireranno sul “secolo breve”, sarà di colpo invertita, per evitare il peggio, e spiegherà ogni brandello di tela a Occidente, dove l’attenderà una terra di potenze ancora primordiali (così almeno sembrerà ai grandi sognatori, che si chiamano Pollock, Rothko, de Kooning. Non però ai grandi “realisti”, che potranno ritrovarla solo nell’Africa richteriana, primo tra tutti Picasso). Questa rotta, tesa tra Oriente e Occidente, e che oggi dipana le sue reti (virtuali e non) in territori sempre più estesi, viene tessuta con tutti i fili, che l’arte sa unire, in un ordito stabile e policromo (lo illuminano i “Lumi”, e lo marezzano le screziature d’un infinito mare da cui nasce il primo romanticismo), che un solo telaio è riuscito a tenere insieme, in un nodo talmente stretto, che si raccoglie in un unico lustro (1752-1756).