Arte d’oriente, arte d’occidente
m.m.
“Il grande Budda seduto è una figura al limite dello sguardo, al limite dell’orizzonte: la sua ascesi si comunica per induzione, pervade lentamente lo spettatore. Il suo sorriso condensa la luce. Impossibile non sentirsi raggiunti da quel sorriso e da quello sguardo come da una luce di tramonto, pacata, senza nuvole, e senza palpiti.” ¹
Cesare Brandi, Diario cinese
Il titolo di questo breve saggio intende riprendere quello di un approfondito studio ² dello storico dell’arte Flavio Caroli che ben precisa questo argomento all’interno del linguaggio artistico, affrontandolo con un vaglio critico che non possiamo, per complessità di analisi e argomenti trattati, riproporre qui, ma che cerchiamo brevemente di sintetizzare nei suoi termini analitici essenziali. Oriente – Occidente si pongono, scrive Caroli, come due sistemi culturali che si presentano all’inizio come due montagne (due monoliti, diremmo, evocando la conoscenza sapienziale che si vorrebbe essere contenuta nella pietra filosofale), che man mano vedono sciogliere le proprie basi minerali in un oceano come quello che si va creando in quest’era globalizzata. Due mondi, due culture che vediamo fondersi sempre più in un unico universo, un universo cui ogni giorno sentiamo maggiormente di appartenere.
Tanto che potremmo rintracciarne un analogo dialogo ontologico nel rapporto primitivo costituito da interno – esterno del corpo. Un binomio fondamentale, che, appena ci trasferiamo nel campo dell’arte (seguendo il percorso delle dinamiche percettive), si presenta infatti come corrispettivo immediato del rapporto Oriente – Occidente.
Puntando infatti il compasso nel punto geografico più rappresentativo di questo secondo binomio, che è la Ravenna del V e VI secolo, Caroli definisce un primo asse che prende per coordinate i due poli est-ovest, e, come confine, il bacino della cultura classica (prima greca e poi romana).
Al suo interno la prima grande scissione tra impero romano d’occidente e impero bizantino porterà a due tendenze opposte che daranno vita a dieci secoli successivi di ricerca di verità, a occidente, e astrazione, a oriente. Se il primo infatti persegue sempre una ricerca di realismo, la nuova lingua levantina introduce, nelle sue maglie di rigida ortodossia rappresentativa, un certo grado di astrazione che approderà a momenti di visionarietà modernissima (pensiamo a Teofane il greco, XIV secolo).
Poi Caroli gira nuovamente il compasso e fissa il secondo asse, perfettamente ortogonale al primo, e che va da nord a sud, che s’imposta sulla cultura cristiana, e che darà vita a sud delle Alpi a un verbo di verità terreno, come quello definito da Masaccio nella Cappella Brancacci, che vive di masse e controllo spaziale, mentre, a nord, si vedrà una verità fatta di luce e colore, come quella plasmata, in perfetta contemporaneità (1425), da Jan Van Eyck nel Polittico di Gand.
E fino a questo momento siamo rimasti ancorati a una visione europeo-centrica. Poi Caroli salpa facendo rotta verso levante, e incontrando man mano le diverse culture ne definisce la volontà rappresentativa.
Si incrocia prima, attraverso il periplo del Mediterraneo, la grande cultura islamica, con la sua volontà iconoclasta, che si scoprirà però riccamente figurativa in un breve frangente del XVI secolo, quando l’arte buddista cinese portata dai mongoli si darà appuntamento a Tabriz, con la tradizione astratta delle decorazioni islamiche, per dar vita a una fioritura di immagini di ineffabile eleganza e splendore.
Per incontrare una nuova volontà iconofila, bisogna raggiungere la millenaria tradizione indiana, col suo sforzo rappresentativo dominato dall’horror vacui, e pervaso da contaminazioni ellenistiche, così come arricchito dal grande apporto dell’arte buddista.
Il porto successivo è la Cina, e qui il discorso si fa più ampio, e si divide tra una tradizione ancor più antica di quella indiana, e la sua declinazione attraverso le diverse dinastie. Vediamo subito predominare una potente impronta figurativa, ma dettata non da una volontà rappresentativa, il dato fenomenico (cioè la realtà percepita da un osservatore), come in occidente, ma un dato naturale che fonde soggetto e oggetto in una diversa unità ontologica. Data l’importanza e la complessità di quest’argomento in relazione alle tematiche presentate nel testo, si è deciso di dedicarvi nella seconda parte di questo saggio, una sezione più analitica in cui potranno essere esaminate più puntualmente i diversi aspetti attraverso la lettura di un’opera e alla quale si rimanda.
L’ultimo approdo di Caroli è il Giappone, in cui attraverso lo Zen si vedrà traghettata la cultura figurativa cinese. Anche in questo caso la secolare tradizione artistica non consente di riassumerne qui i diversi periodi, e per evitare di riportare uno schema sintetico che sarebbe riduttivo per il taglio analitico fin qui seguito, pena il rischio di una perdita di valore scientifico, prendiamo in considerazione il solo periodo dell’Ukiyo-e (a cavallo tra XVIII e XIX secolo). Vi possiamo infatti rintracciare un momento esemplare dell’arte giapponese: i dettami rappresentativi del potere lasciano posto alla volontà vitale della nuova classe cittadina di Edo (in perfetto parallelismo con la nascita della classe borghese parigina) che trova espressione grazie ad artisti quali Katsukawa Shuncho, Utagawa Hiroshire e il celeberrimo Hokusai. Non sarà poi un caso che le due culture che si avviano a decidere il destino dell’Ottocento (quella parigina e quella della nuova società giapponese) alle due estremità opposte del mondo inizino un dialogo sempre più serrato, tanto da creare un nuovo linguaggio artistico talmente permeato degli uni e degli altri elementi in maniera inscindibile, una koiné, che, in Occidente prenderà forma attraverso la pittura simbolista, il cui alfabeto fatto di forme chiuse e colore puro sarà coniato da artisti come Van Gogh, Bernard e Anquetin, e, che, grazie a questa sua capacità e velocità ad attraversare confini e culture, aprirà le porte al “secolo breve”.
Tutto questo lo spiega la Storia dell’arte. Ma se riprendiamo il discorso dalla prospettiva delle dinamiche sensoriali, si presenta un secondo argomento da considerare: non si può non sentire implicito il termine “occidentale”, quasi come epiteto, rispetto a una “drammaticità degli istinti inclusa nel patrimonio genetico”.³
Già nel mio saggio critico sul Polittico Stefaneschi ⁴, opera di Giotto, avevo esposto come la rappresentazione drammatica e la sua riproposizione all’interno di epoche ben precise della storia dell’arte presentasse una nuova semantica che non poteva configurare solo delle nuove “stagioni liriche”, come spesso è stato inteso, ma veri e propri momenti fondanti una nuova estetica. E questo anche perché il terreno in cui attecchisce il rizoma profondo del dramma è parte del patrimonio culturale (inteso anche filogeneticamente) dell’Occidente: la tragedia classica.
Quando la cultura orientale considera l’univocità tra interno ed esterno, “fino a ripetere perfettamente nello schema corporale interno le caratteristiche di quello globale a cui appartiene”, la moderna scienza occidentale sembra suggerire un’immediata corrispondenza nella geometria dei frattali. E se è certamente vero, che, storicamente, in occidente il dualismo interno-esterno è stato trasferito alle categorie del soggetto-oggetto, in un rapporto di distanza ontologica tra io e mondo, la “rivoluzione” rinascimentale, con l’introduzione della “forma simbolica” della prospettiva, che propone non solo di rappresentare la distanza tra io e mondo, ma di renderla addirittura “misurabile”, ha espresso anche alcuni interessanti tentativi di mediazione tra le due entità fenomeniche.
L’esempio più chiaro è offerto dalla famosa formula Homo copula mundi, che rimanda appunto a una visione di unità sostanziale tra uomo e natura, ma anziché partire da quest’ultima, come vorrebbe la visione orientale, ipotizza una ripetibilità del modulo umano che si propaga all’universo fenomenico. Un altro caso, invece, forse meno lampante, ma anche più ricercato è quello della sezione o regola aurea, un’idea delineata da artisti come Alberti e matematici come Pacioli, che sembra frutto di una ricerca simile a quella affrontata dal taoismo, nel tentativo di decifrare un misterioso alfabeto naturale. Solo, che, in questo caso, l’ipotesi di unità non viene solo postulata, ma confermata nel dato naturale dalle molteplici scoperte: dal numero di Avogadro alla spirale di molti fossili fino alla posizione dei petali della rosa, tutto sembra riportare ad un “alfabeto aureo”.⁵
Scena con cavalli, XVIII secolo
Analisi iconografica e iconologica
L’arte cinese si nutre di figurazione, e questa matrice figurativa presente nella sua volontà rappresentativa si deve primariamente all’influsso del Buddismo.
L’altro apporto, conferito, da una parte dalla filosofia confuciana, e dall’altra dalla religione taoista, si tradurrà in un linguaggio estremamente ricco, costruito su di una simbologia permanente derivata dalla prima, ma pregno di forza espressiva, grazie a un segno e un gesto pittorico che derivano dal Tao tutta la loro carica vitale.
Ma questa ricchezza semantica dell’arte cinese sembra riscontrabile più che in ogni altra, per assurdo, nella produzione artistica di un artista occidentale, proprio per gli elementi che vengono ripresi dalle due culture e presentati a confronto (verrebbe da dire quasi messi a sistema).
Quando infatti nel 1715 il “milanesissimo” Giuseppe Castiglione (che vanta anche il nome cinese Lang Shi Ning (郎世寧); Milano, 19 luglio 1688 – Pechino, 17 luglio 1766) si reca in Cina come gesuita missionario e pittore alla corte dell’imperatore Qianlongnon, reca con sé il verbo realista di cui è intrisa la sua cultura lombarda (il che vuol dire borromaica, cioè, in arte, caravaggesca).
All’inizio la sua vena realista fu molto apprezzata, ma presto capì che per comunicare il senso della sua opera alla cultura cinese doveva parlarne la lingua (intesa nel suo significato di mezzo espressivo dotato di una propria semantica, qualunque sia la sua sfera, in questo caso quella pittorica).
Capì anche, che, per trasferire il senso della sua opera all’interno dell’arte cinese, senza rischiare una perdita di significato (contenuto), doveva mantenere inalterato questo e trovare un significante (contenente) appropriato. Iniziò allora dapprima ad apprendere i sintagmi, l’alfabeto della nuova lingua, i segni attraverso cui il significato poteva esser mantenuto e preservato, e gli apparve chiaro essere la linea disegnativa, il colore smaltato, il dato naturale del paesaggio, che in questo caso non è altro che quinta e sfondo, di pari grado con qualsiasi altra entità che non sia il soggetto.
Quindi a esprimerli, farli parlare (ciò avviene grazie all’introduzione del soggetto occidentale), l’io che si oppone al mondo, il “significato” che riesce a trasferire tutto il suo senso grazie al dominio assoluto dello spazio dentro cui viene ora calato, retto da una prospettiva rigorosissima e di inoppugnabile forza fisica.
Se osserviamo il dipinto Scena di cavalli tutto quanto detto finora si palesa con una chiarezza disarmante: tutto viene scandito da un precisissimo tracciato disegnativo e ordito con un tessuto cromatico di smalto e porcellana, e il paesaggio è solo simbolo di uno spazio rarefatto in cui deve ancora avvenire qualcosa. Poi entra in scena il soggetto (e quale soggetto! se prima di tutto lo si deve intendere in senso ontologico nel binomio soggetto-oggetto, non si deve qui trascurare il suo significato simbolico, cioè che cosa rappresenta il cavallo come tòpos rappresentativo nell’arte occidentale, più che mai in questo inoltrarsi nel secolo del Grand Tour, degli spostamenti e della velocità), s’impone con la sua forza (di cui di nuovo il cavallo torna ad essere simbolo primario) e accampa la sua natura fisica, reale, assoluta padrona dello spazio e del mondo.
Nasce così uno dei più mirabili esempi di contaminazione e insieme coerenza linguistica, e un nuovo genere che si saprà imporre all’interno della consolidata e all’apparenza incorruttibile tradizione artistica cinese, grazie a uno stile che fonde la filosofia empirica occidentale con l’estetica della più raffinata società orientale del XVIII secolo.
Se oggi ci poniamo davanti all’orizzonte artistico per scorgervi una traccia memore dell’arte di Castiglione, questa la si deve cercare proprio nel suo segno linguistico, quel segno potentemente connotato ed espressivo, latore di precisi significati, incarnato dalla tecnica disegnativa.
Emerge così evidente l’opera di uno degli artisti più rappresentativi del panorama contemporaneo, Omar Galliani, in cui l’abilità tecnica del disegno del maestro settecentesco sembra ricevere un’attenzione dedicata e preziosa: innalzato nuovamente al ruolo di elemento fondante una nuova lingua, approda allo stesso grado di ricchezza e capacità semantica. Non è un caso che oggi il pubblico più attento alla sua produzione sia costituito proprio dalla moderna società cinese.
Note e riferimenti bibliografici:
1): Brandi C., Diario cinese, Editori riuniti, Roma, 2002, p.59
2): Caroli F., Arte d’oriente. Arte d’occidente, Mondadori Electa, Milano, 2006
3): Panigada R., Marinacci M., Il percorso dei sensi e la storia dell’arte, Swan, Milano, 2012, cap.1, sezione I
4): Marinacci M., Il polittico Stefaneschi, Marietti editore, Genova – Milano, 2009
Nota 5: si veda in proposito il suggestivo testo di Mario Livio, La sezione aurea, RCS libri, Milano, 2003