Il Settecento del Gran Tour: un viaggio dal Bello al Sublime
di Marco Marinacci
Si è conclusa da pochi giorni la cinquantacinquesima Biennale d’Arte di Venezia, Il Palazzo Enciclopedico, e la città lagunare torna a polarizzare una ricerca che era stata di tutto un secolo: il Settecento.
Un secolo che non si può leggere per stili o per categorie kantiane “a posteriori” (illuminismo, neoclassicismo, romanticismo), ma in cui bisogna immergersi inseguendo tanto l’idea di viaggio quanto quella di sapere enciclopedico.
Il viaggio va inteso come percorso dell’uomo – e dell’arte che ne riproduce l’inesausta ricerca – spinto da tutta una serie di istanze insieme, che non possono essere ricondotte a pure polarità duali di pensiero e volontà artistica (Illuminismo – Vedutismo o Neoclassicismo, Pensiero irrazionale – Romanticismo); verso l’Ottocento, che vuol dire l’universo contemporaneo.
Il metodo enciclopedico rivendica invece una volontà di strutturare il sapere attraverso delle “categorie di pensiero” che in realtà possono essere sempre ricondotte a “canoni classici”, ma che non rinuncia a un “sistema di conoscenza aperto”, la cui continuità progettuale è forse oggi riconoscibile in massima parte nella ricerca ermeneutica (alla base, tra l’altro, della filosofia di questa rivista).
In effetti nell’arco di un lustro, tra il 1751 e il 1757, si concentra la matassa con cui è tessuto tutto il secolo, il cui filo è tirato, da un capo, dal pensiero illuminista dell’Encyclopédie, e, dall’altro, da quello romantico del Burke (si veda saggio n.6). Il primo va seguito à rebours nell’arcolaio dell’arte, e lo possiamo così vedere collegarsi, prima, allo spesso filato del razionalismo seicentesco, e poi intrecciarsi con la grande trama del pensiero umanista, dipanato e sgrossato da artisti rigorosamente razionali come Gaspar Van Wittel, Luca Carlevarijs e Antonio Canal.
Ovvero i “genitori” di tutti quei vedutisti, i quali, con coraggiosa costanza e metodo ferreo tentano di trattenere, ricomponendola in vedute sempre più “allargate”, una realtà che a ogni passo, nel nuovo secolo, appare più ampia e fuggevole (tanto che si arriverà all’attimo impressionista, identificato con la stessa idea di contemporaneità), e si avvia velocemente alla frantumazione, ormai inarrestabile, dello specchio che riflette ancora il sogno rinascimentale (che vuol dire modernità), in un mondo ormai teso verso territori molto più estesi e oscuri.
Il secondo viene invece attirato proprio da quei territori, e una nuova tela viene tessuta da titanici visionari come William Blake e Francisco Goya, per essere spiegata come vela verso quella che Jean Paul Richter chiamerà “l’Africa interiore”, l’oscuro continente sommerso contemporaneo.