Viaggio attraverso l‘800: dal romanticismo al simbolismo
di Marco Marinacci
Con l’Ottocento si ribalta la prospettiva dell’uomo occidentale, e anziché fissarsi sul visibile, lo sguardo penetra sempre più l’infinito interiore: si entra nei territori del contemporaneo.
Oggi si tende a proiettare la “nascita” dell’arte contemporanea (tenuto conto che la categoria storica del contemporaneo è sempre in trasformazione, ed è legata in maniera solidale a ciò che possiamo definire “coscienza antropologica”) non più nel momento dell’Impressionismo, ma nell’epoca romantica, tesi che sposiamo, per il sostanziale ribaltamento di concezione che l’uomo ha di sé, rispetto alla precedente epoca moderna.
Qui – non sarà mai detto abbastanza – occorre precisare che il Romanticismo non nasce in Francia, come vorrebbe gran parte della storiografia filo-francese (il che vuol dire “mercato contemporaneo internazionale dell’arte”, per intenderci, cui naturalmente collaborano le grandi istituzioni e imponenti sistemi di cultura, che ahimé, tocca ammetterlo, funzionano molto meglio oltre le Alpi), ma vede la luce in Inghilterra, grazie ai cieli di Turner e Constable, che usano il pennello per tirare di fioretto tra le nuvole della bassa Inghilterra e del Suffolk (le più belle del mondo, come già aveva notato Canaletto), facendo a pezzi la gabbia prospettica del veneziano e trasformando già l’astratta geometria euclidea in “matematica dei frattali”. E sarà “gorgo”, “vortice”, “vertigine”. Quindi l’epopea romantica si sposta in Germania, con le spaesanti, lunghissime inquadrature di Friedrich, che deformano la gabbia in un urlo concentrato. E diventa “sublime”, “spleen”, “agonia e salvezza”. Solo dopo approda in Francia, con Delacroix e Gericault, e sarà “pittura di storia”. Ma è forse proprio da questa, che l’arte inizia il viaggio nel contemporaneo, e nel XIX secolo.
Con i primi maestri del Vedutismo, Van Wittel, Carlevarijs, Canaletto, il visibile era stato indagato e inquadrato in una forma prospettica che rifletteva simbolicamente il punto di asintoto di quell’idea di “controllo” dell’universo che corrisponde alla visione moderna, quella, per dirla in termini antropologici, dell’uomo rinascimentale (inteso come modello culturale nato con l’Umanesimo).
Ma già i secondi, da Marieschi, a Guardi, a Bellotto, più di tutti, il visibile trattenuto nella gabbia “totalizzante” e “astraente” della camera ottica entra in crisi, e inizia a fare i conti con la Storia: ne sono testimonianza i bellissimi quadri di Bernardo Bellotto, che riproducono la Kreuzkirche di Dresda nel 1750, integra e netta come nel “rasoio ottico” dello zio, Antonio Canal, e poi nel 1765, che riporta tutti i “segni della Storia”, con le macerie e l’abbacinante mole della torre, intrisa ormai di una luce già presaga di quella verità che verrà “riscoperta” e “teorizzata” esattamente un secolo dopo, nel 1865, quando Monet, in una assolata Colazione sull’erba, condenserà in un attimo luminoso la bellezza del reale.
Quando la Storia prende corpo, è lì che inizia il “salto antropologico”, nel quale l’uomo si accorge di non essere più al centro del mondo, così come geograficamente dato, in quello spazio omogeneo e omomorfo della cui supposta esistenza la prospettiva (come “forma simbolica”) è figlia, e che tutte le scoperte scientifiche avevano ormai dato per sgretolato; un’idea di mondo che però un sogno, come quello umanistico, avrebbe potuto ancora conservare, come “ipotesi” di una realtà che va oltre l’effimero esistere umano, se non si fosse scontrato con un’idea nuova: l’idea di Storia, appunto.
L’uomo si rende conto ormai che il suo orizzonte esistenziale non è più quello del mondo fisico, di cui è consapevole di non essere più al centro, e anzi di non esserlo mai stato, ma quello del tempo, in cui non ha un posto, una collocazione fissa e predeterminata, ma vi entra come “figura errante”.
Una consapevolezza derivata anche da viaggi reali, come il Grand Tour, che hanno segnato la civiltà occidentale traghettandola dall’età moderna a quella contemporanea; una consapevolezza che pone l’uomo in viaggio nel tempo.
Ecco allora accalcarsi nuove iconografie, come quelle di David e Canova, che in una pittura detta infatti “di storia”, rincorrono il passato non per riconquistare e conservare il sogno umanistico come in una teca di cristallo (l’arte non è mai andata indietro, in quanto “traccia” dell’evoluzione del pensiero! Basta guardare all’opera di Canova per rendersene conto: niente di più fragile del gesso, eppure è nella gipsoteca, più che in ogni altra raccolta di marmi o bronzi, che si conserva lo spirito di un nuovo “pensiero in figura”), ma per trovare i confini dell’orizzonte che sta emergendo.
Confini che vengono trovati nella classicità più assoluta, in una civiltà aurea che incarna tutti i valori che dovrebbero esser fatti propri dall’uomo nuovo, una volta fallito lo slancio dell’Umanesimo. Ecco allora la proliferazione iconica dei Preraffaelliti, con un effimero universo trasognato, che declina ogni figura in un nuovo ideale, l’eterno feminino, innanzitutto (che non poteva non ritrovarne la genesi in Botticelli).
Pensiamo a Dante Gabriel Rossetti e alla sua Beata Beatrix, che, come dei versi del poeta fiorentino, incarna un universo simbolico, riconoscibile però solo in quanto precisamente contestualizzato “prima di Raffaello” (e si ponga attenzione alla cosa: ora il contesto, diversamente dai versi del Poeta, è di senso storico). Pensiamo poi all’ideale di Libertà che guida il popolo, che prende corpo nella pittura di Delacroix, quando, appena uscita dai confini estetici e decadenti delle stanze di Sardanapalo, si presenta come nuova dea triumphans, con tutto il vigore della potenza che l’ideale femminile, da ora in avanti, potrà incarnare.
E’ questo il momento in cui nell’arte appare, al posto della prospettiva, un’altra figura simbolica: l’allegoria.¹ Il salto antropologico chiama a riconsolidare le fondamenta del pensiero, perché il viaggio possa continuare, e si torna alle figure primarie, insegnate da una classicità che sembra ora salvifica (è esemplare il ritorno alla Retorica ogni qualvolta vi sia un passaggio di natura antropologica, ovviamente anche in senso negativo, come insegna la triste lezione delle dittature di stato).
Il nuovo orizzonte, viene però anche avvistato, in un Mattino sul Riesengebirge, da un giovane Friedrich appostato in allerta, che lo scorge osservando lo stesso universo infinito cui guarda Leopardi dal suo colle, e contro cui si infrange per sempre tanto la gabbia prospettica quanto il sogno umanistico (non è un caso che si parli, per le due fasi del pensiero del poeta, prima si pessimismo storico, e poi cosmico).
Ma il sipario della Storia è ormai aperto, ed ecco apparire sulla scena del mondo, che non è più il “gran teatro” del Settecento, vere fucilazioni, come quelle del 3 maggio 1808, “fotografate” da un Goya “reporter di guerra”, a distanza di soli 6 anni (il lasso di tempo è significativo, perché man mano che ci si immerge nel contemporaneo, si assottiglierà sempre di più, tanto da divenire un attimo: che è l’Impressionismo, la fotografia, e poi il cinema).
Sarà poi Gericault, con una “presa diretta” sempre più adesa alla realtà storica (e qui sì, troviamo la vera radice dell’arte del XIX secolo, da cui germinerà la pianta del Realismo, prima, e dell’Impressionismo, poi), a narrare momento per momento, frammento per frammento, la vita e la carne (perché ormai l’uomo si sa fatto di carne, e quanto fragile!) di cui è fatta la tragedia (e il senso della tragedia, per l’uomo occidentale, è sempre la stessa, e forse il primario che, più di ogni altro, ne fissa le coordinate del viaggio), quando per la nuova civiltà che si sta affacciando, ripercorre il mito di Ulisse, in una sperduta Zattera della Medusa, in balia delle onde. Forse non è un caso che il quadro stesso sembra prender vita, e perciò essere attaccato quasi subito da quello che sarà detto il “cancro della Medusa”.
E infine Turner che, proprio quando per lui si sta per chiudere il sipario, innalza il suo vessillo, bianco come la tela di una vita che si appresta a ritornare pura anima, su di un Fighting Temeraire portato allo sfascio. Così, con una metafora dell’esistenza, il genere del paesaggio, ora, s’innalza alla stregua della grande pittura di storia.
Ecco allora che nella pittura (ma sarà così in tutta l’arte, nella scultura, in musica, in letteratura) fa la sua comparsa la metafora ², la quale, meglio dell’allegoria (perché, questa seconda, di natura più “distanziante”) si presta ad “accogliere” l’esistenza umana, per trovarle una collocazione nel mondo.
Infine l’orizzonte diventa tutto interiore, e fa la sua comparsa il simbolo.³ Le stesse date sono simboliche, e ricorre, a pietra miliare del nuovo ciclo, un anno, il 1888. Quando Émile Bernard dipingerà le sue Bretoni sul prato (Le Pardon de Pont-Aven), incasellate in tarsie di canone miniato, per contenerne la potenza deflagrante, che comunque eromperà dal corpo femminile, nel XX secolo. Quando Van Gogh, poco più anziano, ma amico e in questo momento “allievo” del “petit Bernard”, dipingerà il suo claustrofobico incubo di un’umanità abbagliata dai colori dell’animo, che colgono impreparato un ignaro avventore e impregnano ogni punto di spazio trattenuto in un piccolo Caffè di notte, con una violenza primordiale, da sempre racchiusa nell’animo umano, che ora si fa materia. Quando, infine, in un aneddotico racconto di un cronista allucinato, James Ensor racconterà l’Entrata di Cristo a Bruxelles. E tutto ormai, il femminile, il mondo delle passioni, la stessa liturgia cristiana (connotata di una sua propria potentissima e autonoma simbologia, che fin qui l’aveva preservata), è divenuto simbolo del nuovo universo esistenziale con cui l’uomo contemporaneo deve confrontarsi.
Inizia così il viaggio dell’uomo occidentale nel variegato, complesso, molteplice universo del contemporaneo (oggi lo chiamiamo “plurale, liquido, globale”), che lo porterà a confrontarsi sempre più con la propria interiorità. Un viaggio che parte dall’allegoria, passa attraverso la metafora, e si inoltra in quella “foresta di simboli” che, come aveva profetizzato Baudelaire, è il mondo su cui ci affacciamo ogni giorno, attraverso le immagini cui appartiene la nostra civiltà.
Un viaggio che si può ripercorrere anche in pochi passi, in uno dei tanti musei che costellano il nostro territorio, e che spesso cadono nella dimenticanza più assoluta. Uno per tutti: la GAM di Milano, nella quale, con una scansione quasi perfetta per piani, si possono rintracciare le tre fasi del viaggio, che si conclude ammirando un bellissimo bozzetto di Van Gogh, ripreso dall’opera-manifesto di Émile Bernard, Bretoni su un prato verde.
Note (non vi sono citazioni specifiche a testi o autori, ma si fa ampio riferimento al pensiero di studiosi, filosofi e storici come Marc Bloch, Martin Heidegger, Hans Georg Gadamer, Enzo Paci, Giambattista Vico, Arthur Schopenhauer, Friedrich Nietzsche, Flavio Caroli, Ernst Gombrich, nonché alla corrente filosofica ermeneutica, esistenzialista e alla lettura storica cristiana):
1) Come “recita” Wikipedia (la fonte non è presa a caso: quando si parla di modelli universali, nuovi canoni antropologici e modelli retorici, crediamo che sia necessario considerare la fonte alla quale si riferisce il pubblico più allargato possibile, che rappresenta appunto il modello culturale alla base della categoria antropologica contemporanea), “l’allegoria è la figura retorica per cui un concetto viene espresso attraverso un’immagine: in essa, come nella metafora, vi è la sostituzione di un oggetto ad un altro ma, a differenza di quella, non si basa sul piano emotivo bensì richiede un’interpretazione razionale di ciò che sottintende. Essa opera quindi su un piano superiore rispetto al visibile e al primo significato: spesso l’allegoria si appoggia a convenzioni di livello filosofico o metafisico. Per chiarire, un esempio tratto dalla Divina Commedia di Dante Alighieri:
Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ‘mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.
Temp’ era dal principio del mattino,
e ‘l sol montava ‘n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test’ alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.
Qui le tre fiere rappresentano tre animali che turbano l’animo dell’uomo: la superbia e la violenza (leone), l’avarizia e la cupidigia (lupa), l’avidità o per alcuni la lussuria (lonza). La parola deriva dal greco antico αλληγορία, composto da ἀλλή + ἀγορεύω, letteralmente “un altro” + “parlare”, vale a dire: parlare d’altro, leggere tra le righe, sottintendere qualcosa che non è espressamente indicato in un contesto determinato. Da ciò si può trarre, pertanto, che l’allegoria è quella figura retorica che esprime un concetto in altro modo (attraverso simboli). Un simbolo è però qualcosa di più concreto, statico, assoluto rispetto all’allegoria: per esempio si può dire che un’aquila sia simbolo di regalità e di forza. Il contesto è basilare nell’interpretazione quando si parla di allegoria (quindi Delacroix e quel momento storico in particolare; Dante Gabriel Rossetti e quel momento artistico, di un’ideale classicità, “prima di Raffaello”): riprendendo lo stesso esempio un’aquila che all’interno di una narrazione scende dal cielo e compie una serie di azioni significative, quell’aquila può rappresentare un’immagine più complessa (può ad esempio simboleggiare l’Impero o una situazione politica particolare). Spesso l’allegoria al massimo grado di complessità, ha un’interpretazione “soggettiva”, cioè legata al tipo di lettura che se ne fa. In altre parole, si può dire che il legame tra oggetto significato e immagine significante nell’allegoria sia arbitrario e intenzionale, mentre nel simbolo è convenzionale: nell’allegoria il significato non può essere decodificato in maniera intuitiva e immediata, ma necessita di un’elaborazione intellettuale. L’allegoria è comunque sempre “relativa”, nel senso che è suscettibile di una discussione critica nella fase di interpretazione e si presta quindi a diverse letture.” E da qui la necessità di contestualizzazione; il fatto che tale contestualizzazione sia di carattere storico, denota il carattere del nuovo modello antropologico che appartiene alla civiltà contemporanea.
2)Sempre per la stessa ragione di cui alla nota 1, riprendiamo da Wikipedia il concetto di metafora. “Dal greco μεταφορά, da metaphérō, «io trasporto», è un tropo, ovvero una figura retorica che implica un trasferimento di significato. Si ha quando, al termine che normalmente occuperebbe il posto nella frase, se ne sostituisce un altro la cui “essenza” o funzione va a sovrapporsi a quella del termine originario creando, così, immagini di forte carica espressiva. Differisce dalla similitudine per l’assenza di avverbi di paragone o locuzioni avverbiali (“come”). Particolare è la metafora del Decadentismo, la quale non si sovrappone al termine, ma ha la funzione di sostituirlo con un altro, di significato differente. La metafora non è totalmente arbitraria: in genere si basa sulla esistenza di un rapporto di somiglianza tra il termine di partenza e il termine metaforico, ma il potere evocativo e comunicativo della metafora è tanto maggiore quanto più i termini di cui è composta sono lontani nel campo semantico.
Aristotele, nella Poetica, definisce la metafora “trasferimento a una cosa di un nome proprio di un’altra o dal genere alla specie o dalla specie al genere o dalla specie alla specie o per analogia”. Fa poi i seguenti esempi: esempio di metafora dal genere alla specie, “ecco che la mia nave si è fermata”, giacché “ormeggiarsi” è un certo “fermarsi”; dalla specie al genere, “e invero Odisseo ha compiuto mille e mille gloriose imprese”, giacché “mille” è “molto” e Omero se ne vale invece di dire “molte”; da specie a specie, “con il bronzo attingendo la vita” e “con l’acuminato bronzo tagliando”, giacché là il poeta chiama “attingere” il “recidere”, mentre nel secondo caso chiama “recidere” l’”attingere”, perché ambedue i verbi rientrano nel toglier via qualcosa”… (1457b).
La metafora si distingue anche dall’allegoria, perché quest’ultima rimanda soprattutto a un piano concettuale, o un’idea, mentre la metafora si riferisce per lo più a una relazione fra due cose o fra due nomi. L’allegoria è stata anche definita come “metafora continuata”, attribuendo con tale definizione alla metafora un riferimento immediato e all’allegoria uno sviluppo narrativo. La metafora trovò grande fortuna nel Seicento, nella cultura e più specificamente nella letteratura barocca (l’arte parte dalla natura, ma la trasfigura).” Ma in questo caso si lega alla categoria antropologica moderna, e che, così come l’uomo è ancora situato in un ideale “centro” del suo sistema di valori, fa sempre riferimento, in un circolo chiuso, al solo proprio sistema di riferimento (sia esso di natura letteraria, e si parla allora di retorica, sia esso di natura musicale, e si parla di temperamento equabile, o pittorica e scultorea, e si parla di poetica della forma aerea). in ogni caso sempre un sistema autoreferenziale, diversamente a quello contemporaneo, che vede come entità esterna agente la Storia.
Tra i più grandi teorici della metafora poetica in età contemporanea vi sono certamente Harald Weinrich e Paul Ricoeur, come ricorda Wikipedia, ma non si può dimenticare, proprio per l’aggancio alla storia (che vuol dire anche testimonianza) una figura come quella di Paul Celan, la cui poesia può essere considerato un vero e proprio manifesto in tal senso.
3) Seguendo lo stesso principio delle due note precedenti, indichiamo la nozione di simbolo offerta da Wikipedia (fonte presa a riferimento non per l’attendibilità scientifica, che chiaramente validiamo, in questo caso, citandone solo estratti attentamente vagliati, ma perché mezzo di informazione di massa che presenta quindi una connotazione culturale di ordine antropologico). Citiamo: “Il simbolo è un elemento della comunicazione, che esprime contenuti di significato ideale dei quali esso diventa il significante. La parola “simbolo” deriva dal latino symbolum ed a sua volta dal greco σύμβολον súmbolon (segno) che a sua volta deriva dal tema del verbo symballo dalle radici σύμ- (sym-, “insieme”) e βολή (bolḗ, “getto”), avente il significato approssimativo di “mettere insieme” due parti distinte. […] Sostengono autori, come Hobbes e altri nel seguito della filosofia inglese come Peirce, e i positivisti e neopositivisti della “logica simbolica”, che il simbolo, nella sua funzione di “stare al posto di” possa scambiarsi con il segno. Charles W. Morris (1901–1979) per esempio, afferma che il simbolo è un segno che ha un aspetto di convenzionalità maggiore rispetto ai segnali poiché chi esprime il simbolo lo usa come alternativa al segno con cui s’identifica.” Ecco il caso dei colori di Van Gogh, quel “rosso, verde e giallo” con cui, afferma il pittore, intende “dipingere le terribili passioni umane”. Colori, quelli di Van Gogh, che, come i corpi-incunaboli di Émile Bernard, sanciscono la nascita del Simbolismo in pittura. Lo si arguisce anche continuando la lettura della voce simbolo in Wikipedia: “I simboli sono inoltre differenti dai segnali, poiché questi ultimi hanno un puro valore informativo e non evocativo”. Ecco il nuovo traguardo che si raggiunge con il Simbolismo: la possibilità di evocare un “mondo altro”, che sia quello delle “terribili passioni umane”; o quello di una rinnovata purezza eidetica circoscritta nel profilo di alcune donne bretoni intarsiate su un prato-tappezzeria giapponese, subito riprese infatti dal genio rapace e intuitivo di Gauguin, nella Visione dopo il sermone, proprio per quel mondo da loro così bene evocato (a lui toccherà andare fino alle isole Marchesi per ritrovarlo); o ancora quello di una nuova liturgia, come nell’horror vacui della cronaca ensoriana.
Proseguendo la citazione: “Hegel distingue il simbolo dal segno che «rappresenta un contenuto del tutto diverso da quello che ha per sé». Mentre cioè nel segno il contenuto è del tutto diverso dalla sua rappresentazione, nel simbolo l’oggetto simbolizzato è simile alla sua espressione simbolica così come accade allo stesso modo con l’analogia. «Il simbolo è più o meno il contenuto che esso esprime come simbolo». (Hegel, Enciclopedia pag.458)” […]Ma il punto in cui si può intuire il passo fondativo che il linguaggio simbolico permette, nella genesi di un nuovo universo di valori condivisi, che è quello che abbiamo chiamato, in altri termini, “il salto antropologico”, è il seguente: “I simboli possiedono un forte carattere intersoggettivo, in quanto sono condivisi da un gruppo sociale o da una comunità culturale, politica, religiosa. Se, come sostiene René Alleau, una società senza simboli non può evitare di cadere al livello delle società infraumane, poiché la funzione simbolica è un modo di stabilire una relazione tra il sensibile e il sovrasensibile, sulla interpretazione dei simboli e sul loro impiego da sempre gli uomini sono divisi. Tale atteggiamento è spesso dovuto al fatto che spesso l’uomo tenta di trovare un significato ad un simbolo anche se questo non ne ha; può evocare e focalizzare, riunire e concentrare, in modo analogicamente polivalente, una molteplicità di sensi che non si riducono a un unico significato e neppure ad alcuni significati soltanto. All’interno del medesimo simbolo vi sono evocazioni simboliche molteplici e gerarchicamente sovrapposte che non si escludono reciprocamente, ma sono anzi concordanti tra loro, perché in realtà esprimono le applicazioni di uno stesso principio a ordini diversi, ed in tal modo si completano e si corroborano, integrandosi nell’armonia della sintesi totale. Questo che rende il simbolismo un linguaggio meno limitato del linguaggio comune ed adatto per l’espressione e la comunicazione di certe verità, facendone il linguaggio iniziatico per eccellenza ed il veicolo indispensabile di ogni insegnamento tradizionale.”
[…] “il simbolo è diverso dalla allegoria che si esprime preferibilmente tramite il linguaggio mentre il simbolo contiene di per sé quello che vuole significare. Un simbolo è qualcosa di più concreto, statico, assoluto rispetto all’allegoria. Per esempio, un’aquila può essere simbolo di regalità, di forza, ecc. Anche un’aquila in volo o in un’altra azione generica spesso ha valenza di simbolo, indipendente dal contesto entro il quale viene posta. Quando invece il contesto è basilare nell’interpretazione si parla di allegoria; un’aquila che, all’interno di una narrazione, scenda dal cielo e faccia una serie di azioni significative può rappresentare un’immagine più complessa (ad esempio simboleggiava il Sacro Romano Impero e in base alle azioni che può compiere nello specifico si può estrapolare una situazione politica specifica). – si veda in proposito la nota 1 – Spesso l’allegoria, nella sua complessità maggiore, ha un’interpretazione “soggettiva”, cioè legata al tipo di lettura che se ne fa. Il legame tra oggetto significato e immagine significante nell’allegoria è arbitrario e intenzionale, a differenza del simbolo in cui è piuttosto convenzionale; nell’allegoria non può essere decodificato in maniera intuitiva e immediata, ma necessita di un’elaborazione intellettuale.
L’allegoria è comunque sempre “relativa” (al contrario di “assoluta”), ovvero è suscettibile di una discussione critica nella fase di interpretazione. Il simbolo quindi con un significato immediato contenuto al suo interno si può dire abbia una valenza metafisica nascosta espressa da un intimo rapporto tra la raffigurazione sensibile espressa nel simbolo e la sua valenza ideale.” E’ questa immediatezza nel trasferire gli universi di senso che appartengono a una nascente fase antropologica, come è quella del contemporaneo, che fanno del Simbolismo il momento pregnante e, per molti versi, inaugurale, del nuovo corso. Come si fa poi presente in Wikipedia, già “Il Cristianesimo” – inteso nel suo corso storico, sia in epoca classica, sia medievale, sia moderna – “ha variamente utilizzato il simbolo o l’allegoria a seconda dei periodi che ha attraversato nel suo sviluppo. Quando il primo cristianesimo sentiva l’impellente necessità di realizzare il mondo promesso dall’annunzio di Cristo o quando come nel Rinascimento o nell’età barocca appariva una profonda frattura tra l’umano e il divino, era la funzione dell’allegoria a prevalere. Quando invece il Cristianesimo risentiva dell’influsso neoplatonico ispirato ad una divaricazione del rapporto tra l’uomo e Dio nella storia e nella realtà terrena, allora era il simbolo a prevalere come più adatto a significare i valori e gli elementi ideali della divinità.” – ma soprattutto per sua stessa natura, essendo, come ben esprime il suo etimo, elemento di unione tra due mondi. Di fatti questa è “la visione simbolica di Dio descritta dalla scuola di Alessandria, con Filone, Clemente e lo stesso Sant’Agostino.
Nella filosofia moderna il simbolo trova espressione non più nella teologia ma nell’estetica classicistica come quella che ha in Hegel la sua primitiva definizione e che prosegue poi fino a György Lukács (1885–1971). Il simbolo qui rappresenta l’opera d’arte realizzata nella sua totale unitaria compiutezza. Nelle estetiche che originano dal romanticismo – da Friedrich von Schlegel (1772–1829) sino a Walter Benjamin (1892–1940) – torna invece l’uso dell’allegoria, non come espressione intellettuale retorica ma come manifestazione di quella separazione, già notata nell’arte barocca, tra l’umano e il divino, tra la forma estetica e il contenuto materiale.
La scoperta vichiana del simbolismo nelle società primitive troverà ampia applicazione nella antropologia culturale e nelle riflessioni romantiche sul mito, per arrivare al simbolismo dei sogni nella psicoanalisi di Freud e nella psicologia del profondo di Jung. Una riflessione specifica sul simbolo è stata condotta da Ernst Cassirer (1874–1945) incentrata sul concetto della “funzione simbolica”. Lo spirito umano è in grado di sintetizzare il molteplice sensibile tramite attività naturali come il linguaggio, il mito, la conoscenza razionale. Cassirer conduce poi un’analisi fenomenologica della logica e del linguaggio comune che lo porta a scoprire nel simbolo quello che egli chiama “un più di senso”, un accumulo di significati, che lo rendono molto più significante rispetto al segno e quindi impossibile da utilizzare nella logica formale ed astratta.”
Questo il motivo principe, come ben segnalato da Jung e Cassirer, per cui il terreno più fertile dove può germinare, crescere e proliferare il simbolo è l’arte.