Il ‘900: l’oggetto nell’arte
di Marco Marinacci
L’’800 è un viaggio attraverso lo sguardo. Sguardo sempre più in profondità, verso l’universo interiore, ma, anche, simmetricamente, rivolto a oltrepassare lo schermo della tela, per entrare nel corpo del mondo: una visione di canone ontologico: l’artista realista non domina più, ma sa di appartenere al mondo che egli ritrae. Vi è poi un altro doppio binario, che guida l’arte del secolo: da una parte un universo figurativo che tenterà di attenersi sempre più al dato reale, ma con un’adesione ai valori del simbolico. L’arte dell’’800 è un continuo movimento, quasi una grande sinfonia, tra realismo e simbolismo.
Se dovessimo guardare indietro (naturalmente in prospettiva storica non è permessa altra visione) sembra di poter ripercorrere i primari dei secoli che entrano a far parte della modernità in modo già piuttosto definito, a partire dal ‘400, secolo dell’Uomo nuovo. E poi il ‘500, con la sua elevazione, l’apoteosi dell’umano, e la nascita del Genio. Quindi il ‘600, la sensorialità, con cui l’uomo conquista la conoscenza del mondo che gli si è dischiuso. Il ‘700 che vedrà l’uomo, impadronitosi dei nuovi strumenti, e viaggiare in quel mondo. Infine l’’800, in cui un nuovo senso, uno sguardo investito dei valori dell’essere (si potrebbe parlare di ontologia dello sguardo) entra a prendere possesso e conoscenza del mondo, tanto interiore quanto esteriore.
E nel XIX secolo, quindi, sembra addirittura riproporsi, in una sintesi emblematica, il cammino del pensiero in immagine dell’uomo occidentale. Un cammino di cui, per decretarne il primario per eccellenza, si propone quello aderente all’idea di tragedia, intesa nella sua accezione filologica¹, ovvero quell’idea che conferma la forza narrativa del lògos nelle tre unità di tempo-luogo-azione.
È attraverso lo sguardo dei propri protagonisti, che l’’800 presenta per la prima volta l’unità di tempo. È Gericault, che, con la Zattera della Medusa, presenta il primo reportage di “cronaca” della storia: il racconto di un evento tragico appena accaduto, come sulla copertina di un giornale. L’idea narrativa, d’altronde, appartiene al gene dell’Occidente, così come quella dello “sguardo nel mondo” al momento in atto, tanto che, se dovessimo dare un titolo alla Storia dell’Arte d’Occidente, daremmo proprio “Dovere di cronaca”.
Ma anche unità di luogo – con l’individuazione, da parte di Courbet, dell’immediata corrispondenza locale tra soggetto e oggetto rappresentato, mediante la pittura en plein air, frutto di un lungo cammino rappresentativo che fa sue per la prima volta le idee di prospettiva e di tonalismo. Infine, con l’invenzione dell’attimo luminoso, l’occhio di Monet sancisce la terza legge del dramma²: l’unità d’azione.
Si arriva così al ‘900, il secolo dell’oggetto. Intorno a questo “nuovo” elemento, nuovo in quanto assume un ruolo che non gli era mai appartenuto: quello della particolarissima inversione a “soggetto autonomo” (a partire dalla fotografia che può nascere in maniera automatica come nella polaroid, senza alcun intervento umano di significato creativo), si addensano, come in un caleidoscopio, le tante idee primarie dell’arte del secolo, a costruirne lo spettro, individuato dall’analisi che Flavio Caroli ne dà nel Volto dell’Occidente³.
Il primario per eccellenza del XX secolo – che la storiografia contemporanea ha definito “breve”, in quanto chiuso tra la Prima Grande Guerra e la caduta del Muro di Berlino – è dunque l’oggetto. Ma l’arte, con le sue coordinate antropologiche, allunga la durata concettuale del ‘900, anticipandola a una notte di luglio del 1888, in cui Van Gogh dipingerà il suo Caffé di notte, per farla arrivare all’era internet, che trasferisce l’immagine nel dominio del virtuale.
L’oggetto, che viene a significare design, ma anche mercato, rappresenta il nuovo fenomeno che entra a far parte costitutiva della poetica artistica del ‘900, con una pluralità di modi e una dinamica non sistematica, che merita certamente studi più approfonditi, ma di cui cercheremo qui di tracciare brevemente la portata.
L’oggetto si presenta come alibi del presente, è il delegato dell’uomo, ormai scomparso, di Bacon, Duchamp, Jasper Johns, del New Dada. Ma l’oggetto è anche gioco, come ricordano le mirabolanti invenzioni di Munari, dei fratelli Castiglioni, e dei tanti artisti che si sono cimentati con la dimensione ludica, fondamentale per ogni forma di creatività (come ben sapeva Picasso, quando con immenso sforzo dichiarava il tentativo di tornare a dipingere come un bambino). Un gioco alla base di tutto il più alto pensiero del XX secolo, dalla logica di Russell e Wittgenstein, all’ermeneutica gadameriana.
Oggetto, da noumeno a fenomeno, che inquisisce la sfera spaziale e temporale dell’uomo, e ne assume tutti i valori, tanto da divenire, oggi, una proiezione sempre più vicina, che si sovrappone e si confonde, divenendo quasi un alter ego, come si può riscontrare dai tanti profili personali che invadono la rete, in cui il soggetto, illudendosi di decidere con quale immagine “oggettiva” esprimersi, ottiene solo quella ormai ben nota schizofrenia dell’io, sempre più patologica e diffusa.
Ma è sempre l’arte invece a detenere la possibilità di accedere, e poter proporre sempre nuovi codici, per ritrovare l’identità dell’uomo, la cui dignità è oggi così a rischio: la sfida è quindi ora ìnsita nel riconoscere tali codici. E credo che i nuovi codici vadano ricercati in quelli che partono da una profonda riflessione sull’oggetto (in senso lato, e dinamico, ma mantenendone una definizione chiara, così come abbiamo tentato di assumere).
Ecco allora che sembra molto significativa la ricerca che si precisa intorno al tema della scultura, come valore oggettuale delegato dell’io soggettivo dell’artista, che si pone come uomo per eccellenza, cioè investito dei doveri dell’”essere sulla terra” – direbbe Heidegger – a partire dall’elemento creativo. Da sempre elemento di cruciale importanza per l’adattamento reciproco tra uomo e mondo.
La scultura diventa il primo investimento che l’uomo fa nell’evento creativo, una trasmissione di “idea in materia” che spesso precede il processo mentale astrattivo tipico della pittura⁴. Inoltre, trasferendosi nello spazio, inquisisce le stesse dinamiche dell’uomo nel suo “essere nel mondo”.
Questa “idea in materia”, affrontata da molti, ha due grandi strade maestre: la prima è quella che, a partire da Damien Hirst, coi suoi animali in formalina, significativamente corrosi⁵, così come lo è l’immagine dell’uomo nel presente, arriva, con la sua valenza apotropaica, agli inizi del XX secolo, alla scultura negra di Picasso.
L’altra strada, meno battuta, poiché il tracciato è più complesso e sfuggente, è quella che ritrova nella scultura, non solo un valore plastico, tanto potente da essere trasferibile alla pittura senza perdita di significato⁶, ma le conferisce uno spazio scenico totalmente autonomo⁷, in cui diventa chiaro il luogo dell’oggetto, che torna a essere una proiezione pura, mentre il soggetto umano viene ristabilito nel suo essere osservatore delle cose del mondo⁸.
Note:
1) La stessa religione cristiana affonda le proprie radici in questo primario antropologico.
2)La parola dramma è intesa in senso etimologico: azione.
3) Flavio Caroli, Il Volto dell’Occidente, Mondadori 2012.
4) I primari quasi sempre nascono prima in scultura che in pittura. Si pensi alla prospettiva: essa è già presente nei portali di Wiligelmo, quasi in nuce, e poi si precisa nella formula brunelleschiana adottata da Masaccio, e quindi nel tonalismo – che è un’ulteriore approfondimento dell’idea spaziale della prospettiva – di Giovanni Bellini. E’ un meccanismo filogenetico piuttosto preciso da ricostruire, ovvero al meccanismo della generazione e del parto, che appartiene alla stessa area di pensiero della maieutica socratica, ma per evitare aberranti semplificazioni mi riservo di trattare l’argomento con adeguata documentazione in altro contesto critico.
5) Destabilizzando quell’idea di conservazione dell’immagine nata con la pittura e poi trasferita alla fotografia, così come si annuncia nei timori dei curatori, e si ripercuote immediatamente sul mercato, indicandolo quale elemento principe dell’arte contemporanea – e questa forse è proprio l’aspetto più interessante dell’arte di Hirst.
6) E’ il caso di tutto quel filone, che, dal Novecento di Sironi alla Metafisica di De Chirico, prefigurato ancora prima da Arnold Böcklin, e seguito da innumerevoli altri, fino alle sperimentazioni speculari di Pistoletto, porta sullo spazio bidimensionale della tavola pittorica la rappresentazione tridimensionale scultorea.
7) E’ ancora il caso della Metafisica, ma anche di tutta quell’ampia, e – a torto – poco conosciuta arte figurativa che s’innesta nel solco primario della scenografia, da Julio Paz ad Athos Collura, che conta eminenti precursori, dalla storica collaborazione tra William Hogarth e John Gay, da cui Bertold Brecht deriverà l’Opera da tre soldi, alle scene di Munch per il teatro di Ibsen, a tutto il Teatro dell’assurdo, che ne prenderà a piene mani.
8) Un valore ritrovato che sembra essere suggerito in particolare dall’approfondita riflessione di un artista assolutamente originale come Gianni Brusamolino.