Meccanismi percettivi e nuovi linguaggi artistici: il caso Mariani
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“Secondo me un dipinto deve assomigliare a scintille”
Joan Mirò
Appena si varcano le Colonne d’Ercole del XX secolo arte e scienza sembra abbiano sempre più necessità di dialogo. Quando poi si sconfina nel contemporaneo, la compenetrazione si fa inevitabile, e ne scaturiscono risultati inattesi e sorprendenti. Così, mentre la ricerca scientifica continua a indagare la fisiologia dell’occhio in cerca di una conoscenza più ampia della natura delle dinamiche percettive, scoprendo, per esempio, la presenza dei criptocromi nella retina umana, che le consentirebbero di percepire il campo magnetico terrestre¹, quella artistica si interessa con sempre maggior attenzione ad aspetti specifici e mirati della percezione visiva.
Dall’800 in poi le teorie scientifiche si sono sempre più attestate nei territori dell’arte, tanto da farne generare esse stesse interi movimenti e correnti, primo fra tutti l’Impressionismo. Nato sulla scorta degli studi di Chevreul², i suoi fondatori “inventano le ombre colorate”³ alla ricerca della verità luminosa, proprio perché consapevoli di poter alzare di un grado cromatico la tavolozza grazie all’acquisizione della “risonanza” dei colori complementari. Per non parlare dei Puntinisti, che si legheranno poi ancor più strettamente alla scienza ottica; o ancora, delle ricerche futuriste legate alla crono-fotografia.
Passando all’epoca contemporanea, tra le innumerevoli ricerche che investono l’ambito percettivo, troviamo particolarmente interessante, per l’oggetto della nostra analisi, confrontarci con una teoria tecnica, prima ancora che artistica, definita dal suo fondatore, Piermarco Mariani⁴, Colorismo visivo. Il termine stesso è stato coniato per indicare chiaramente un indirizzo che intende favorire “la visione del soggetto grazie allo studio della luminosità dei colori”, partendo da una approfondita conoscenza tecnica dei pigmenti e della materia pittorica. Una ricerca di “retroguardia”, anziché di avanguardia, potrebbe essere definita. Ed è infatti così che la intende lo stesso Mariani, in accesa polemica contro l’atteggiamento rinunciatario dei “tanti che affermano «è già stato fatto tutto, non si può far niente di nuovo»”, e vocata a una tecnica che intende riscoprire l’essenza del colore, nello stesso processo di creazione della sua anima che è il pigmento, e che intende esprimere il suo enorme, e in gran parte ancora sconosciuto, potenziale. Un percorso à rebours all’interno della poiesis artistica contemporanea, che sa di detonatore.
Se Merleau-Ponty si dedica completamente a ricondurre l’astrazione alla concretezza originaria, ritrovando in questa direzione il significato di tutta l’arte contemporanea, Mariani sembra invece porsi in senso “ostinato e contrario”, e per questo può a ragione definirsi “artista di retroguardia”.
“La pretesa del Colorismo visivo non è artistica, ossia NON è l’ARTE o la pittura in quanto tale – scrive Mariani – il suo territorio di conquista, non mira a un riconoscimento di valore in quanto tale, ma di validità pratica; di conseguenza non è teoricamente legata a me in quanto artista/pittore o a chiunque voglia seguirne l’intento proposto, ma alla pratica del fare, esprimendosi per i sensi del fruitore”.⁵
Si trova così un altro parallelo con Merleau-Ponty, il quale non cerca un giudizio di valore sull’arte, ma la funzione che l’arte può assolvere in rapporto al nostro modo di vivere nel mondo, e in rapporto agli altri, grazie alla percezione. La pittura, pertanto, che è per lui esperienza metafisica⁶, non deve solo esprimere delle idee, ma fare in modo di suscitare negli altri le percezioni dalle quali soltanto le idee possono nascere.
E’ una dichiarazione che suona strana, nel contesto del contemporaneo, perché sembra si riducano le pretese e si restringa la ricerca, mirando subito, e con precisione, a un campo “minore”, e tralasciando ogni considerazione riguardo a stile, gesto, volontà formale, in quanto semplicemente non in gioco nel discorso pratico. Certo, non si può non sentire un’analogia teorica con Mirò, e la sua famosa frase “l’effetto prodotto da un’opera d’arte è più importante dell’opera stessa”: se togliamo il termine “arte” (cosa possibile da quando Cezanne ci ha insegnato che la realtà e l’arte sono la stessa cosa), sembra in effetti il presupposto teorico del Colorismo visivo.
Scopo primo dell’opera diventa allora l’effetto della rifrazione dei colori, della luce, sul fruitore, e, prima ancora, sull’artista, che, quando realizza l’opera, la studia, la immagina, “la subisce” nel comporla, ne è lo “sperimentatore attivo”. L’intento è di “raggiungere un colorismo espressivo subliminale, ma un subliminale senza messaggio, a differenza della pubblicità, del marketing commerciale, perché presupposto del Colorismo visivo è l’astrazione. Quella più pura possibile (senza alcuna forma riconoscibile) solo impressione di colori; e così subliminale è solo un connotato minuscolo di Colorismo: indica, al di là del discorso, e dell’ipotesi scientifica, solo la forza d’imporsi “a priori” nello sguardo, all’attenzione immediata dell’occhio di chi guarda.”
La Sensibilità. Ecco l’obiettivo del Colorismo visivo. Il terreno della sensibilità visiva innanzitutto, prima della valutazione artistica, e quindi anche di ogni valutazione e riflessione di gusto. Una sensibilità “a priori”, rivolta verso la luce, e da spingere all’estremo negli occhi e nell’opera del fruitore e del compositore tramite l’azione del componimento-opera. In tal senso il Colorismo visivo propone una pratica, un atteggiamento attento e di studio, verso luce e colore pittorico nei loro effetti visivi; un intento espressivo da raggiungere, libero da schematismi, il cui metro per valutarne la riuscita è l’attenzione involontaria di chi guarda, “a priori del giudizio di gusto, come un bagliore, una epoché simpatica”. Ecco allora la ricerca sui colori, e sui toni, giochi sottili ma potenti, al limite della percezione subliminale, e degli equilibri tra le frequenze luminose. “Il buio nel Colorismo non esiste, c’è solo la luce più o meno in ombra”.
Se infatti “l’arte sta all’ombra delle idee”, come pensava Giordano Bruno, Mariani risponde allora che la pittura colorista sta invece “alla luce della visione”, intesa come visione immediata, come pre-visione di un’immagine fantasma, introdotta intenzionalmente dall’autore, ed espressa attraverso campi colorati; campi che sembrano dipinti direttamente dalle frequenze luminose che stimolano la sensibilità dell’occhio. In sostanza si porta all’estremo la dinamica con la quale “prima l’occhio vede e dopo il cervello legge.”
“Su un tavolone zuppo di materiale – afferma l’artista – non si trova solo ciò che si cerca, ma si vede anche altro; questo altro s’insinua prima nella nostra vista, che nel cervello, il quale lo scarta non riconoscendolo come degno d’interesse. La frequenza luminosa stimolatoria del nervo ottico, il cervello non può scartarla, s’impone esattamente come s’impongono per forza nel mio campo visivo altri oggetti, quando ne cerco uno solo di essi.”
Nell’astratto puro che il Colorismo visivo⁷ si propone di comporre, la frequenza luminosa diviene dunque “analogica all’impulso elettrico del nervo ottico, come quando si opera una pressione fisica direttamente sul bulbo oculare” che produce fosfeni.
Piermarco Mariani, Primavera, Estate, Autunno, Inverno, 2006, collezione privata
Analisi iconografica e iconologica
Le Quattro stagioni, o meglio Primavera, Estate, Autunno, Inverno, sono l’opera programmatica con cui Mariani dichiara la teoria del Colorismo visivo. L’opera è pensata come quattro momenti percettivi separati, che si riconducono a un’idea di tonalismo controllato, non più dalla capacità dell’uomo di rappresentare il dato naturale sotto una stessa luce, ma di intervenire su di esso attraverso sorgenti luminose diverse: un rapporto verso la luce, quindi, perfettamente speculare rispetto a quello dell’uomo rinascimentale. E questo perché Mariani è un umanista, che, trovandosi però a vivere nel contemporaneo, ha ben presente l’inversione di prospettiva che pone la storia.
E in cosa consiste l’intervento sul dato naturale, che da Cézanne in poi è “dato” tanto della realtà quanto della rappresentazione, che si scopre parte di quella stessa realtà? Mariani, conscio anche di tutta la tradizione tonale di cui sente la pesante eredità, oltre che del gigante di Aix, risponde: “la rappresentazione dell’esperienza vitale (diremmo intenzionale, con Merleau-Ponty) del dato naturale. Cioè, non la vita rappresentata, ma la rappresentazione viva”, che intende superare largamente l’assunto realista, così come quello fenomenico dell’Impressionismo, e, infine, cercare di muovere un passo ancora, al di là della realtà conquistata dallo stesso Cézanne e dal Cubismo.
Per raggiungere questo traguardo Mariani affina un vero e proprio processo empirico sperimentale in cui i movimenti saccadici dell’occhio son guidati sulla tela da precisi punti cromatici – frequenze luminose. Frequenze luminose che “risuonano” per simpatia (come i due pendoli in Fisica) con le frequenze delle onde cerebrali. Mariani ha voluto così raggiungere quella stessa unità di soggetto-oggetto nella loro relazione indivisa che si ha nella preposta visione percettiva, che è “a priori, subliminale e indivisa come lo è l’esperienza vitale, la Natura, l’Esistere.”
Egli, attraverso questo processo estremamente controllato, tenta di raggiungere un’immediatezza dei sensi tutti, una “sinestesia poetica”, che “cerca una luce nei colori che sia più viva della luce stessa, immediata come un odore che dipinga la vista come un lampo colorato”, e che intende riferirsi al patrimonio esperienziale comune (cosa che l’Arte di per sé non è). E, a questo proposito, le neuroscienze sembrano dar ragione a Mariani: infatti, sebbene la capacità artistica abbia, come la vista, una sua specifica regione cerebrale deputata, è resa molto più “soggettiva” rispetto al senso visivo da una serie di fattori correlati alle sue dinamiche sensoriali.⁸
La dinamica percettiva del pigmento fotosensibile
“L’occhio sente nella frazione di un lampo prima che il cervello veda, l’occhio pre-vede.”
Piermarco Mariani
“La genesi dell’idea iniziale, a cui seguirono auto-esperimenti e osservazioni, mi si manifestò grazie all’aura dell’emicrania oftalmica, e a una generalizzata ipersensibilità alla luce, agli aloni delle fonti di luce, fin agli oggetti. Ne derivai che se potevo comunque percepire quei fenomeni visivi anche in pieno giorno, alla luce del sole e non solo di notte, quando la luce non interferisce, allo stesso modo pigmenti particolari (fosforo, et al.) avrebbero potuto agire con la luce del sole, non a un livello evidente, ma senza che si notasse, a livello di fascino, di stupore, di curiosità, di quel qualcosa di aggiunto che attira la vista.” Sembra in effetti che a permettere questo fenomeno visivo sia la particolare struttura neuronale dell’occhio, che fisiologicamente è una parte di cervello dislocato in una posizione d’avanguardia che si avvale di neuroni modificati e specializzati.
La tecnica del Colorismo visivo tenta di agire all’interno di quella frazione di tempo brevissima e intensa, in cui la percezione è pre-visiva e momentaneamente inconscia, guidata dall’attenzione pre-intenzionale (quindi simpatica, involontaria, obbligata e incosciente) alle frequenze luminose. Ai movimenti saccadici dei nostri occhi, le frequenze cerebrali risuonano simpateticamente con quelle luminose espresse dal dipinto, e percepite immediatamente dagli occhi. “La percezione (è ricondotta ndr) in un lampo luminoso come una struttura esperienziale irresistibile.” Questa frazione d’unità di tempo della percezione è tanto ridotta da non consentire al fruitore una percezione consapevole, e, soprattutto, non gli permette di proiettarvi niente di sé (interpretazione soggettiva): è una percezione visiva “oculare”, a monte della visione cerebrale cosciente, e del giudizio di gusto, della psicologia personale. “È – afferma Mariani – una Gestalt luminosa, un sentire luminoso la luce. Trovarsi ad essere di colpo la trama delle frequenze dell’immagine stessa, nell’identità esperienziale come processo vitale.”
Il Colorismo visivo propone dunque una pittura che, come tecnica e sensibilità, potrebbe trovare un corrispondente nell’Iperrealismo, ma come soggetto rappresentato, al posto dell’immagine della realtà, ha invece le stimolazioni e le suggestioni luminose della retina, e, come ispirazione, l’emotività. “Dipingere la vista con un lampo colorato, portare in una mano il pennello, nell’altra gli occhi, uno mio uno vostro. […] Percepire in un lampo, prima di potersi rispecchiare nell’interpretazione autoriferita. Lo specchio riflettente della percezione sarà spento per un istante da un bagliore colorato”. Con l’opera colorista si vive un’esperienza percettiva unitaria e strutturale, a monte di suddivisioni tra osservatore, osservazione e oggetto osservato. L’intenzionalità artistica indica una chiara volontà di superare le frontiere tra i linguaggi ontologico-fenomenico-epistemico, che spesso risultano impossibilitati a dialogare, per muovere verso un nuovo orizzonte in cui soggetto e oggetto (fruitore e opera) partecipino della stessa ontologia esperienziale.
“La percezione è la luce e la luce è percezione, le frequenze luminose dell’onda elettromagnetica, e le onde elettromagnetiche del nostro cervello, sono egualmente Natura, comune e universale. E’ esperienza presimbolica e preverbale. Senza luce ci troveremmo, invece, nella notte, in cui tutte le vacche sono nere” afferma il motto colorista, memore di Fichte.
Ma ancor maggiore corrispondenza, la sensibilità colorista, sembra trovare nell’Idealismo di Schelling, quando vede la luce “Come la pianta che si chiude nel fiore, così tutta la terra si chiude nel cervello dell’uomo, che è la somma o fiore di tutta la metamorfosi organica”.⁹ L’Idealismo Estetico di Schelling non a caso individua nell’Arte l’attività che ci permette di vivere immediatamente l’armonizzazione completa di spirito e natura. L’arte, come verità e radice di ogni realtà. “Appare evidente che la natura è originariamente identica a ciò che in noi viene riconosciuto come principio intelligente e cosciente”.¹⁰ Allora l’artista è di fronte al compito – per dirla con Nietzsche – di “ vedere la scienza con gli occhi dell’artista e l’arte invece con quelli della vita”. Vita come realtà in divenire, secondo la concezione eraclitea, ben nota al pensatore tedesco.
Ma suonano perentorie anche le parole di Goethe, quando afferma che “il principio fondamentale per la comprensione del mondo è quello della metamorfosi”. La poetica del Colorismo visivo parte in questo senso da un’appropriazione dell’ottica, come espressa da Aldous Huxley: “per rendere la sopravvivenza biologica possibile, la mente ha dovuto incanalarsi nelle valvole di riduzione del sistema nervoso e del cervello”.¹¹ Un assunto che trova un riferimento fondamentale in Henry Bergson (a sua volta debitore intellettuale di Goethe), con la sua concezione di vita come un fluido e continuo “slancio vitale”.
E’ per questo che il Colorismo visivo muove a ritroso: “intendiamo porre la nostra esistenza nella Realtà come struttura fondamentale, di cui, da sempre, siamo inevitabilmente parte costituente, così da intuire immediatamente l’unità inscindibile e omogenea di Natura.
E’ una realtà pluridimensionale quella contemporanea, a cui apparteniamo: una relazione d’unità, che rendiamo di fatto indissolubile, non appena la interpretiamo, rappresentandola. Siamo la percezione, aderiamo sincronicamente alla realtà, in un’unità esperienziale, che è Natura. Siamo, se siamo, in un processo in quanto siamo processo. Ma siamo anche il trasferimento della mente nel sistema nervoso, e nel cervello.” Ciò che viene enunciato da Huxley. E rammentando l’esortazione di Nietzsche a non lasciarsi appesantire da divisioni ideali e simboliche, psicologiche o convenzionali, come quelle presenti nel linguaggio filosofico e scientifico, sempre “umano, troppo umano”, dobbiamo considerare che “la superficie di un fatto è già la sua profondità”. Allora l’arte di fatto, l’arte nel suo fare, senza intermediazioni, diventa proposta esistenziale, l’oltre di un linguaggio conoscitivo comune. L’arte da guardare con gli occhi della vita. Occhi nietzschiani, che non vedono più la circolarità fittizia di causa ed effetto: occhi per cui “le idee sono generate dalle idee.”
Giordano Bruno ipotizzava una sensibilità umana variabile, interrogandosi sulla sua possibilità concreta di essere infinita, come i mondi a cui apparterebbe. Huxley, secoli dopo, poneva a introduzione del suo saggio una poesia di William Blake, che ne richiama il concetto e suona come una premessa al Colorismo visivo:
” Se le porte della percezione fossero sgombrate,
ogni cosa apparirebbe com’è, infinita.”
Note bibliografiche
Nota 1: scoperta che ha fruttato anche un Nobel per la medicina, più volgarmente conosciuta con il nome di “GPS umano”.
Nota 2: Émile Bernard, tra i fondatori del Simbolismo, benché ancora poco riconosciuto, è tra i critici del “metodo” impressionista, riconducendo all’ambito della fisica e non dell’arte la produzione dei pittori impressionisti.
E’ tanto preciso nel motivare il suo giudizio da evocare non solo la strutturazione di Chevreul del cerchio cromatico, ma richiamare anche le opere di teorici americani e tedeschi sulle leggi dell’ottica del colore: Ogden Rood e la sua “Teoria dei colori”, Thomas Young (Milverton, 1773-Londra 1829; medico e fisico, studiò gli assestamenti oculari e le interferenze luminose), Gustav Theodor Fechner (Gross-Särchen, 1801-Lipsia 1887; filosofo tedesco, co-fondatore della psico-fisica), Steinheil , etc.
Bernard riferisce di come gli Impressionisti si basassero su tali teorizzazioni, impostando la loro tavolozza sui sette colori della decomposizione prismatica della luce.
Nota 3: si confronti, per questa tesi, Caroli F., La pittura contemporanea, (pp.35-52).
Nota 4: un giovane ma riconosciuto artista milanese; si veda la sua opera pittorica per l’Ospedale San Paolo di Milano o il Monumento agli Alpini.
Nota 5: dal Manifesto del Colorismo visivo. Tutte le altre frasi virgolettate presenti nel testo senza altre note si considerino riportate da questo. Ringraziamo l’autore per avercene dato visione e diritto alla pubblicazione in anteprima assoluta, manifestando la massima sensibilità al tema oggetto del nostro saggio, e avere con ciò contribuito a un’analisi documentata, e ci auguriamo di qualche interesse, per conoscere quanto la ricerca artistica contemporanea sia attenta non solo alle più attuali scoperte scientifiche, ma a riportarsi all’interno di un orizzonte epistemico di carattere umanistico nel senso più ampio del termine, cioè in quel senso inteso già da Leonardo: “arte è scienza che si fa con le mani”.
Nota 6: si vedano i saggi 2 e 9 usciti sui relativi numeri di Tempoearte.
Nota 7: si può ora intendere perché divenga indispensabile l’apposizione “visivo”, essendo connotato implicito di “pre-cosciente”, “subliminale”.
Nota 8: Ramachandran V.S., Che cosa sappiamo della mente, Mondadori, Milano, 2006
Nota 9: Schelling F., “Esposizione del mio sistema filosofico”, 1801.
Nota 10: Schelling F., Introduzione al Sistema dell’Idealismo Trascendentale, 1800
Nota 11: Huxley A., Le Porte della Percezione, 1954