Venezia e la pittura, la stratigrafia del segno
di Marco Marinacci
“Venezia è un pesce”, recita il titolo di un libro che ne decanta gli incanti attraverso lo sguardo di un suo appassionato cittadino (1), e, come tale, si divincola, sfugge agli occhi rapaci del visitatore, inabissandosi in un labirinto che assume forma di calli, fondaci, canali e interi sestieri.
C’era una volta Venezia, verrebbe da dire, perché come nelle più belle favole, ha anche lei la sua foresta incantata. Invisibile quanto indispensabile. quelle migliaia di abeti che, “a testa in giù”, fanno da fondamenta a tutta la città.
In quest’universo in cui cabala e cultura araba si mescolano come le acque della laguna, per lasciare, una volta ritiratesi, una mappa visibile della memoria che cristallizza in sestieri e fondaci (2), la simbologia si addensa in un’arte che fa della luce il suo primo segno.
Lì, in un connubio che avvinghia aria salmastra ad acqua di laguna, il respiro si fa denso, e l’occhio fissa una linea d’orizzonte, mai netta, sospesa nel confine indistinto del vapore che trasforma il mare in cielo. E così lo sguardo (la prospettiva) fa corpo con la pittura. Non poteva essere altrove la culla dell’idea tonale: la prospettiva trasferita dal disegno in pittura.
In effetti, a ripercorrere quest’idea di luce, le tappe sono ben segnate: se ancora nel ‘400 le strade sono lontanissime, tra Nord e Sud d’Europa, dove alla eidetica determinazione visiva di Jan van Eyck nella Pala di Gand (1432) si contrappone una plastica terrena e ancestrale come quella della Cappella Brancacci, in cui i progenitori non sfuggono al peso, prima ancora che morale, umano, della Cacciata immaginata da Masaccio (1424-28), il ‘500 le vedrà convergere proprio in direzione di Venezia.
Il ponte si chiamerà Piero della Francesca, e sarà colui che, trasferendo la “forma simbolica” della prospettiva (3) – ancora solo intuita ed esperita attraverso mirabili esiti compositivi da Giotto, il quale per primo usa montagne e palazzi per creare quel tanto di spazio tra terra e cielo da consentire all’uomo di esistere (4) – dalla sfera disegnativa alla formulazione matematica (5). Egli potrà in questo modo creare forme (6) verificabili senza dover più adottare l’uso del chiaroscuro; il che permetterà alla luce d’imporsi, e alla pittura di prendere finalmente corpo.
Ecco, allora, che le strade s’incontrano, e la storia da qui si fa più lineare: l’idea tonale di Giovanni Bellini, che sarà l’asse portante di tutta la fiducia nella verità dello sguardo sul mondo, la tenuta e la relativa costante verifica, senza cui non avremmo neanche potuto immaginare la fotografia e il cinema; la pittura millimetrica di Giorgione, che sarà la grammatica acribica di tutta una simbologia tanto profonda quanto sfuggente, misura e abbraccio della complessità culturale veneziana, quando i confini labili della laguna incontrano il mare e i popoli che vi giungono (7); e la stesura infinita di Tiziano, che trattiene nella densità del pigmento tutto un mondo periclitante intorno a sé – non per niente a lui e ai suoi eredi, in primis Rubens, per ottenerne visibile dominio, si rivolsero i più grandi regnanti –, alla quale si dovrà rivolgere ogni grande creatore visionario di mondi, dal Monet delle Ninfee al Pollock di Pali Blu.
Ma, come la rosa di Gertrude Stein, Venezia è Venezia è Venezia. E in quell’universo cabalistico dove il segno diventa subito suono, nel quale il battito della risacca è tutt’uno con le linee sottili e saettanti delle creste d’onda, che saranno il punto sul quale la pittura vedutista settecentesca continuerà a sentirsi figlia del pigmento-materia di Tiziano, emerge, nascosta ma eterna, una stratigrafia sempre più netta e decifrabile. E così i tanti volti di Venezia tornano nei resti affioranti di Altino (8), nelle inafferrabili stille di luce del vetro di Murano, nelle anse del Canal Grande e dei suoi “luoghi di memoria”, che non a caso hanno visto nascere l’uso della cartolina.
Se quest’ultima è nota di carattere folcloristico, Venezia mostra, in particolare nel Canal Grande, il suo primo, spiccato “carattere ambientale”. (9) Un “carattere” che insegna a guardare. Non è un caso che il genere della Veduta si affermi e affini in questa città poliedrica e sfuggente, in cui solo la camera ottica, nella successiva complementare trasposizione sulla superficie pittorica, consente allo sguardo di concretizzare la struttura dell’immagine nel segno del colore (vale a dire la pittura). Sarà grazie a questo particolare valore del genius loci veneziano, che un artista quale Bellotto potrà poi conferire al quadro un’idealizzazione che non sarà più mimesis della natura, bensì libertà rappresentativa, mediata dal processo di simbolizzazione che rende alcuni aspetti della realtà rappresentata “trasportabili” in altre realtà. (10)
Da qui anche la vocazione teatrale che appartiene alla città lagunare, e che ben presto si diffonderà per “osmosi culturale” agli altri centri, prima fra tutte Vicenza. (11)
Una vocazione che permette anche il perdurare di alcuni aspetti folcloristici, come il noto Carnevale, e di conservare così intatto un patrimonio e un portato antropologico immenso, non meno importante delle nobili rappresentazioni goldoniane e liriche, tanto importante da essere il terreno di una delle maggiori identità espressive della rappresentazione artistica, che da sola rappresenta una linea autonoma di ricerca epistemica: la maschera.
E così Venezia insegna anche a ricordare. All’inaugurazione della 56ª Biennale d’arte di Venezia, il ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Dario Franceschini ricordava che fu un commediografo e poeta, Riccardo Selvatico, allora sindaco di Venezia, a portare alla nascita della Esposizione Internazionale d’Arte ai Giardini di Castello. Voluta per risollevare le sorti della città lagunare, duramente colpita dalle devastazioni belliche delle guerre risorgimentali, la manifestazione fu subito un successo. L’esposizione chiuse in attivo, e una parte degli incassi fu destinata all’assistenza ai poveri della città: un esempio di sana amministrazione filantropica. Centoventi anni dopo la Biennale torna sugli stessi temi, in stretta sinergia con l’Expo di Milano, affidando al direttore Okwui Enwezor il compito di immaginare “tutti i futuri del mondo”, in un’auspicata collaborazione degli 89 paesi partecipanti, con i 136 artisti presenti, che possa proporre un percorso percorribile verso un futuro partecipato e comune, di cui l’arte si fa portavoce. (12)
Così l’opera di Paladino alla Biennale di Venezia e quella di Pistoletto in piazza del Duomo a Milano tessono un ideale fil rouge tra le due città che ribadisce la maglia compositiva pensata da Vincenzo Trione, curatore del padiglione italiano.
Dall’Arte Povera alle ultime generazioni, passando dalla Transavanguardia alle grandi personalità artistiche del dopoguerra, “l’Italia – dichiara il curatore – intende presentarsi alla Biennale di Venezia con un gruppo di artisti accomunati dal pensare le proprie opere come luogo all’interno del quale si ritrovano a convivere il desiderio di innovare i linguaggi e il dialogo problematico con momenti salienti della storia dell’arte.” Il tutto per un percorso espositivo, che, come ha spiegato alla Biennale, ha l’obiettivo «di delineare i contorni di ciò, che, al di là di tante oscillazioni, rimane il fondamento del nostro “codice genetico” stilistico». Perché «nessuna iniziativa culturale – ribadisce il ministro – può ormai permettersi di essere autoreferenziale ed esclusiva, ma deve coinvolgere le nuove generazioni in un percorso di formazione e conoscenza che aiuti a interpretare e vivere “tutti i futuri del mondo”». (13)
E lo specchio magico di Venezia, teso tra acqua e cielo, nella permeabile stratigrafia di un passato devoto a Mnemosine, riflettendo l’immagine della civiltà della cultura, insegna la strada verso il futuro.
Note:
1) Tiziano Scarpa, Venezia è un pesce, Feltrinelli, 2000.
2) La stessa numerologia che si dipana lungo le strade della città, deve molto alla cultura ebraica, mentre basta ricordare che la stessa parola fondaco è di origine araba, per comprendere l’influenza delle due culture sulla repubblica marinara.
3) Alludiamo al celeberrimo studio di Erwin Panofsky.
4) L’allusione è alla celeberrima lettura che Roberto Longhi darà delle architetture umane e ambientali immaginate da Giotto, le quali, grazie alla loro concrezione spaziale realmente esperita, regalano per prime nella storia della rappresentazione artistica la possibilità e la verifica di uno spazio fisico che contempla l’uomo come sua origine.
5) Esemplari a tal riguardo sono gli ultimi anni del pittore, in cui, chiuso in una quasi totale cecità, grazie a questi studi in cui i numeri prendono il posto del chiaroscuro, il disegno è risucchiato in semplici linee di contorno, tese a creare corpi e volti pronti a rinascere, oltre quattro secoli dopo, negli universi paralleli della Metafisica e del Surrealismo.
6) In questo caso il termine è scelto anche in riferimento a tutta la teoria gestaltiana.
7) L’iconologia dell’opera di Giorgione è ancora in gran parte sconosciuta e misteriosa, probabilmente devota a una cultura esoterica di area ebraica; forse proprio questa sua formazione così originale e approfondita, rispetto a quella vigente nella fraglia veneziana, lo ha portato a essere un testimone d’eccezione e primo erede del lascito di Leonardo in area veneta.
8) Si veda l’articolo dedicato in rivista e il link http://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/notizie/cultura_e_tempolibero/2009/30-luglio-2009/i-geografi-scoprono-antenata-venezia-ricostruita-pianta-antica-altino–1601617833228.shtml?refresh_ce-cp
9) Rinvio al mio saggio Bernardo Bellotto e il volto delle città europee, in Arte-documento 31, a cura di Giuseppe Maria Pilo, Marcianum Press, Venezia, 2015, pp.135-145.
10) Quest’argomento merita trattazione a parte, che riprenderemo quando tratteremo del ‘700. Anticipo solo per ora, per fissare una testa di ponte con l’oggetto di questo scritto, che il primo punto d’incontro tra il codice sintattico e semantico propri della veduta veneziana è rintracciabile per primo in Gaspar van Wittel, in cui l’obiettività operativa dell’impresa documentaria in cui era all’epoca coinvolto (stiamo appunto parlando ormai del XVIII secolo), quella di registrare il corso del Tevere, fu la circostanza che lo aiutò a depurare il genere della veduta dalle angolature del soggettivismo. Per ulteriori approfondimenti, rinvio alla mia tesi, consultabile presso l’archivio della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano – Leonardo, in particolare pp.119 e sgg., e ai capp. I.3 e II.2.
11) Si rimanda all’articolo sulla città e le sue relazioni con il Teatro Olimpico palladiano.
12) Si veda il link dedicato http://www.labiennale.org/it/arte/esposizione/56/
13) Corriere della Sera, Uno sguardo giovane sul futuro, 9 maggio 2015, p.51.