Luce che penetra il granito: emergono opere d’arte
Riccardo Panigada
Dentro ai sassi ci sono meraviglie. No non quelli apparentemente comuni, ma preziosi, che nascondono splendidi fossili o gemme al loro interno. I sassi, quelli che magari si calpestano percorrendo i sentieri di montagna, grigi dentro e fuori, e che non presentano nulla di speciale a prima vista.
Molte di quelle pietre hanno nel cuore opere d’arte, senza che sia intervenuto nessun pittore a trasformarle, facendole transitare attraverso mente e pennello, fino a fissarle “uguali ma diverse” sulla tela.
Nell’atto artistico, l’autore, o guarda, o dipinge, e, anche se fosse in grado di avere una visione, che gli consentisse di osservare l’oggetto da rappresentare sulla tela, e, simultaneamente, la tela stessa, non potrebbe dipingere continuando a osservare l’originale, perché, come ha rivelato Wittgenstein: “se vedo un oggetto, non me lo posso al contempo immaginare”; e anche Valéry nei suoi Cahiers ha scritto: “quello che penso disturba quello che vedo, e viceversa”. Inoltre, nell’interpretazione del Tchouang-tseu di Jean François Billeter (l’unica supportata da considerazioni filologicamente e filosoficamente corrette), si nota che il fenomeno della “distinzione temporale obbligata” tra livelli profondi della percezione, e pensiero era stato già individuato dal filosofo cinese del IV secolo a.C.: “quando si percepisce non si parla, e, quando si parla, non si percepisce”.
Un artista non avrebbe peraltro alcun interesse a possedere la straordinaria abilità di operare fissando senza posa il modello: il quadro per essere appunto “uguale ma diverso” dall’originale dovrà riprodurre l’oggetto dopo il filtro del ricordo, mescolato all’intimo delle sensazioni, che emergono col gesto pittorico.
Ma cosa c’entrano allora le pietre con le opere d’arte? Molte pietre sono un vero e proprio prodigio: a saperle trattare senza alterarle, e guardandovi dentro , direttamente da esse si scioglieranno teorie d’immagini in sintonia diretta con la percezione e il pensiero artistico puro.
Nel cuore di quelle pietre percezione e gesto artistico (quello implicito nella percezione della natura, mediante un sistema naturale adeguato come il cervello umano), si presentano simultanei nella loro compiutezza.
Si tratta, allora, forse, del momento più prezioso, poiché archetipale della sensibilità artistica teoretica: la percezione della bellezza nell’inutilità di figure astratte e colorate, emergenti dall’interazione fisica tra materia, luce, e apparato visivo umano.
Il “pennello” capace di inquisire le pietre, è quello del microscopio dotato di luce polarizzata, nelle mani di un geologo, che prima le ha tagliate in sezioni sottili dello spessore di 0,3 millimetri, levigatissime, per farle diventare trasparenti.
E’ ancora impressione diffusa che le pietre esistano da sempre nella forma in cui si possono osservare oggi, nonostante si sappia delle trasformazioni che sono avvenute durante le diverse ere geologiche. Il comprensibile equivoco psicilogico deriva dal fatto che le ere geologiche hanno una estensione temporale immane in rapporto al tempo trascorso dalla comparsa dell’Homo historicus.
Ma se si ha occasione di fare una chiacchierata con uno scienziato come Bernardo Cesare, professore di Petrografia presso l’Università di Padova, studioso di rocce metamorfiche, si riprende immediatamente coscienza dei cambiamenti responsabili della formazione dei minerali, di quali fenomeni avvenuti milioni di anni fa siano stati solo recentemente scoperti, e quali fenomeni siano ancora in atto.
Infatti, negli strati profondi del sottosuolo, vi sono condizioni ambientali con temperature e pressioni talmente elevate da indurre nei minerali trasformazioni inimmaginabili sopra la crosta
terrestre.
Ecco cosa può succedere: una intrusione magmatica si inserisce all’interno di rocce più fredde, e, riscaldandole, ne trasforma struttura e composizione mineralogica: tale fenomeno si chiama “metamorfismo di contatto”.
Pressione e temperatura hanno infatti valori estremamente variabili all’interno della crosta e sotto al mantello terrestre (si legga: da qualche chilometro a centinaia di chilometri sotto ai nostri piedi si registrano variazioni da un paio di centinaia di gradi centigradi a oltre il migliaio di gradi centigradi), si stabilizzano così associazioni di minerali diversi, con prodotti finiti estremamente variabili. Un fango, per esempio, può diventare una roccia sedimentaria (argillite) composta di minerali finissimi, per trasformarsi poi in fillade, successivamente in scisto (magari con andalusite o granato), e, poi in altre rocce ancora…
“Quello che si può trovare oggi in cima a una montagna dell’Alto Adige, poteva essere, trentatré milioni di anni fa, a circa quindici chilometri sotto la superficie terrestre – spiega Bernardo Cesare – così mi sono appassionato e specializzato in quelle “cose piccole” che si chiamano inclusioni; si tratta spesso di residui di fluidi o di magmi della grandezza di venti o trenta micron, e sono vent’anni che studio rocce che affiorano nella Spagna meridionale, che, per le loro caratteristiche molto particolari sono uniche al mondo”.
Studiando le minuscole inclusioni di magma all’interno di minerali emersi in superficie nove milioni di anni fa da eruzioni vulcaniche, Cesare ha scoperto (avvalendosi anche della microscopia a luce polarizzata) nuovi aspetti di quale sia stato il processo di formazione dei marmi granitici. Un approccio che nessuno aveva utilizzato prima, e che apre una nuova linea di ricerca di base in geologia.
Ma come si fa a far passare la luce attraverso una pietra opaca? basta tagliarla in fettine dello spessore di trenta micron, con appositi macchinari, ma solo la sensibilità della mano dell’uomo, raggiunto un determinato livello, sarà in grado di abbassare lo spessore fino al limite richiesto.
Il controllo durante la lavorazione avviene per mezzo del microscopio a luce polarizzata, che consente di valutare gli spessori in base ai colori d’interferenza.
“Per esempio – prosegue infatti il professor Cesare – a 30 micron di spessore il colore di interferenza del quarzo deve stare sul bianco, perché se tendesse al giallo significherebbe che lo spessore è ancora un po’ troppo elevato. Se poi il campione è destinato anche a indagini di microscopia elettronica, va ulteriormente lucidato, e per questo esistono macchine che utilizzano materiali speciali: costosi panni, e sospensioni di diamante o allumina, in cui vi sono microparticelle di dimensioni anche inferiori al micron”.
L’analisi mediante microscopio a luce polarizzata consente di riconoscere molti dei minerali contenuti nelle sezioni sottili senza dover ricorrere a tecniche più sofisticate o costose.
Ma girando il vetrino portaoggetti sotto l’occhio di quel microscopio, le interferenze si costruiscono, si distruggono, a seconda della struttura del reticolo cristallino dei minerali, e, dalla luce bianca policromatica che attraversa la sezione sottile, i cui componenti gli hanno imposto di viaggiare a diverse velocità, possono emergere ad angolazioni diverse splendide differenti colorazioni.
La sensibilità artistica di Bernardo Cesare non poteva rimanere indifferente a tutto questo… egli ha inoltre scoperto che utilizzando, quando opportuno, un certo ritardo fisso nel percorso della luce polarizzata, poteva ottenere risultati artistici entusiasmanti, indipendentemente dalla utilità scientifica che potessero avere.
Ora però la palla passa alla neuroestetica, che potrà nel proprio campo cercare di scoprire perché le immagini dei vetrini del professor Cesare con il loro codice naturale segreto ci appaiano così belle…
Per ulteriori informazioni sul professor Cesare e le sue foto: www.microckscopica.org
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