Una miniera per estrarre il (di)segno dei ricordi
Francesca Selvaggio Bottacin
Arrivando sull’intimo pianerottolo di accesso al piano nobile di Palazzo Bomben (sede della mostra antologica dedicata a Safet Zec), da cui si accede alla prima sala, lo sguardo dello spettatore veniva trattenuto da una figura maestosa, e costretto dal proprio naturale istinto a esplorare la splendida chioma d’albero a china, eseguita con quell’attenzione acribica e paziente, che è una delle peculiarità dell’opera di Zec.
La mostra, conclusasi a febbraio, era inserita nell’ambito dell’annuale premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino, che, nel 2014, si è concentrato sugli aspri luoghi della Bosnia Erzegovina, raccontando non solo le ultime vicende geopolitiche di quei territori, ma anche i loro
aspetti culturali, avvalendosi della straordinaria figura di Zec.
L’architetto Domenico Luciani, curatore della mostra La Pittura come miniera, nel presentare la rassegna a Tempo e Arte, ha sottolineato quanto fosse importante, nell’ambito del premio Scarpa, dare voce a personaggi come Safet, la cui poetica non è ascrivibile a classificazioni preconfezionate, ma è in continuo mutamento.
Erano ben 71 le opere esposte lungo il percorso, che esprimevano gli attimi più intensi dei più di quarant’anni di attività dell’artista bosniaco.
Le caratteristiche identificative dell’intera opera di Zec passano attraverso quattro tematiche principali (individuate da: cose, persone, alberi e luoghi), che divengono oggetti della rappresentazione artistica, dando occasione a momenti d’intensa spiritualità mediante l’evocazione dei principali rapporti col mondo, veri costituenti subliminali della vita di ciascun essere umano. La straordinaria capacità di Safet è quella, di prendere un oggetto qualsiasi, o una persona, oppure un luogo apparentemente comune, e fissarli sulla tela con una intensità che li rende memorie collettive
transgenerazionali.
Lasciato alle spalle il grande albero a china dell’ingresso, la prima sala si apriva con una serie di piccole tele, le quali mettevano subito in chiaro i temi cari a Zec. Scarpe vecchie, lenzuola, patate, pane, e una vecchia credenza, oggetti catturati dalla realtà per divenire trascendenze pittoriche. Momenti di riflessione sull’intera esistenza umana, che ne è costantemente (ma di solito distrattamente), circondata.
Insomma, nella prima sezione della mostra trevigiana non erano rappresentate nei quadri figure umane, ma ciò proprio per mettere in risalto quanto potesse emanare il respiro dell’umanità del quotidiano dalla strategia pittorica, il cui messaggio straordinariamente supera quello veicolato dalla natura morta.
Così nella grande tela, quella del tavolo maestoso, quanto nelle altre, dedicate alle finestre: ora la sedia leggermente spostata, ora la finestra aperta, danno l’impressione che qualcuno si sia appena allontanato da quei luoghi… e l’artista lascia libera l’immaginazione, e la facoltà d’immedesimarsi nel fluire del racconto, nella storiografia personale intima di chi vi fosse passato.
Gli esseri umani che mancano nelle opere raffiguranti gli oggetti si incarnano invece nei quadri dedicati alle persone. Nella sala successiva, infatti, se si poteva ancora ammirare la tela del Tavolo da Pittore, ovvero lo strumento operativo, quale trait-d’union concettuale con il soggetto vivente, si veniva presto catturati dallo sguardo penetrante dell’Acquarellista di Parigi (forse l’opera più toccante dell’intera mostra), che ammaliava urgentemente il visitatore.
L’opera, corredata da studi di piccole dimensioni, si può definire autobiografica, ed è lo stesso Safet, che, con un sorriso, racconta a Tempo e Arte la storia di questo personaggio: “Era un uomo che portava il carbone e lavorava vicino all’Accademia di Belle Arti di Parigi. Il suo destino doveva solo concretizzarsi perché nel suo Dna c’era già scritto ciò che sarebbe diventato”. Proprio come è accaduto per l’artista bosniaco, che, nelle prime fasi della sua carriera artistica, seppur in mancanza di disponibilità economiche, sentiva il bisogno di esprimersi mediante la pittura.
La tela dell’Acquarellista, quanto i relativi studi, sono un autentico inno alla condizione di tutti coloro che intraprendono la carriera dell’artista, e che si vedono costretti a “lavare le tele” per riciclarle, pur di soddisfare il proprio bisogno di dipingere, così come faceva l’acquarellista nelle acque della Senna. Ma lo stesso personaggio è anche metafora dell’intera condizione umana, e non più solo di quella degli artisti: la dignità con la quale porge i suoi acquerelli allo spettatore, rappresenta l’umiltà e l’onore che diventano ideali, che ciascun essere umano può fare propri, e attuare secondo tale codice nella sua esistenza mondana.
Nel soffermarsi ad ammirare il pittore parigino, lo spettatore veniva invitato a sedersi accanto al video proiettato nell’angolo della sala. Sembrava così di entrare quasi in prima persona all’interno dello studio di Safet. Con lo sguardo che ogni tanto si gira verso gli astanti, coinvolgendoli, è lo stesso Zec che si racconta, in una bella intervista a cura dell’architetto Luciani, aprendosi a ricordi della sua vita, completamente votata all’arte.
La grande abilità pittorica di Zec, per quanto concerne la ritrattistica, trovava un’ulteriore conferma anche nelle opere delle sale successive. La sezione persone, breve quanto intensa, terminava con due tele emblematiche: un ritratto, da considerarsi quasi un telero per la sua grandezza, e un intreccio di mani.
Il ritratto di donna, Lacrime, le cui dimensioni sfiorano quasi i quattro metri di altezza, è solitamente inserito nell’ambito della decorazione pittorica della sala esagonale della biblioteca di Sarajevo. Come osserva l’architetto Luciani, la bellezza di questo telero risiede nell’“acrobazia mentale assolutamente straordinaria, che l’artista ha dovuto compiere nel corso dell’esecuzione, per ingrandire il volto da dipingere, perché è un impegno eccezionale, che si richiede al sistema occhio-cervello-mano quando si deve ingigantire un volto senza perderne l’energia espressiva”.
Le mani sono invece uno dei “crucci positivi” di Safet. Una tavola, che raffigura l’intreccio tra due mani maschili e due femminili. Esse altro non sono che il primo vero strumento del pittore, che se ne serve per trasmettere al mondo le sue idee. Ma per l’artista bosniaco esse assumono una dimensione ancora più profonda. La laboriosità con la quale affronta ogni soggetto, fa sì che egli assuma anche qualità artigianali, quelle del padre, che di mestiere faceva il calzolaio, e, che, come lui, provava e riprovava fino a quando non si riteneva soddisfatto di un paio di scarpe.
Le mani, dunque, come prolungamento del cervello, che ha bisogno di esercitarsi in continuazione, perché, come dice lo stesso Zec, “è necessario fare e rifare, mettersi alla prova continuamente, sapere, studiare e conoscere, è avere anche il coraggio di ammettere quando qualcosa non ha funzionato, farne tesoro e andare avanti”.
Saper rappresentare le mani non significa, quindi, riuscire a disegnarle in modo ineccepibile, quanto piuttosto trasmettere tutta la propria conoscenza artistica maturata negli anni, riuscire a comunicare, attraverso la pittura, le proprie emozioni, la forza e l’energia dei propri pensieri.
Lasciata alle spalle l’intensità dei volti e delle mani, la mostra proseguiva con la sezione dedicata agli alberi. Tutte e cinque le tele qui esposte mostravano le versatilissime capacità di Safet, nel far passare le sue opere attraverso le più disparate tecniche artistiche.
Zec è maestro nel sollecitare la virtù della pazienza con la mirabile rappresentazione delle chiome dei suoi alberi, dando modo di analizzare la materia in profondità. Ogni singola foglia viene resa con cura certosina, e riprodotta singolarmente con il pennello, ma anche con la china, o ad acquaforte. In ciascuna tecnica utilizzata l’obbiettivo primario è quello di rendere la vibrante profondità della chioma di un albero maestoso mossa dal vento. La sfida non è certo delle più semplici, soprattutto scegliendo di utilizzare la china, ma, fissando queste opere, come in una sinestesia, si può quasi sentire il vento che sposta le foglie.
La stessa certosina pazienza si riscontra anche nell’intermezzo tra le principali tematiche, dedicato alle riproduzioni di Rembrandt, e alla sua Stampa da 100 fiorini, omaggio di Safet al grande pittore.
A partire dal 1992, anno in cui Zec arriva a Udine scappando dalla guerra ormai incombente a Sarajevo, dopo il fruttuoso incontro con lo stampatore Albicocco, l’artista bosniaco si dedica alla sua personale rivisitazione della celebre opera del neerlandese.
Nella mostra, a parete, si poteva ammirare una di queste riproduzioni, la quale si poneva in continuo dialogo con la teca sottostante, all’interno della quale erano stati disposti altri lavori di Safet di formato minore, insieme a una riproduzione fedele della Stampa.
Lungo il percorso della mostra, alcune opere, più di altre, erano una vera e propria finestra aperta sulla vita di Zec. È il caso del tavolo da pittore e dell’acquarellista di Parigi, ma la riproduzione di Rembrandt, ancor più di quei dipinti, è chiaramente inserita nel filo conduttore che lega ogni tassello della vita dell’artista bosniaco: la prima volta che Safet vide l’opera, rivela lui stesso, è all’età di quindici anni. Allora nemmeno sapeva di chi fosse quel turbinio di linee e di luci, che lo aveva subito trafitto al cuore, trasformandosi negli anni successivi in una dolce ossessione.
Se al primo tentativo egli non fu in grado di restituire quelle linee sottili, quelle ombre e quelle luci, negli anni successivi, provando e riprovando instancabilmente, Zec riuscì a ottenere quelle morbidezze, quell’espressione, e la chiarezza tanto sperate.
La caparbietà con la quale Zec si è concentrato negli anni sull’opera di Rembrandt, lo hanno aiutato a migliorare la sua bravura nel disegno e nell’incisione. Proprio come per l’acquarellista di Parigi, era già tutto scritto, andava solo sperimentato ed esercitato costantemente, ma, senza dubbio, quella prima sperimentazione fu, come lui stesso osserva “uno di quei momenti magici, fatali, che mi hanno spinto con forza e, definitivamente, nel cuore della pittura”.
Ancora oggi le sue continue rivisitazioni dell’opera del neerlandese sono per Safet il suo gesto contemporaneo, il suo modo di misurarsi instancabilmente con i grandi maestri del passato, con una consapevolezza diversa. Il suo lavoro, infatti, punta all’incessante mutamento dell’opera di partenza, aggiungendo continuamente linee, e quindi buio nella tecnica dell’incisione da lui impiegata, fino ad arrivare, un giorno, al buio totale. Come in un palcoscenico teatrale, Zec sta infatti piano piano spegnendo i riflettori sulla scena sino al momento in cui arriverà a oscurare completamente, lasciando però accesa la la figura del Gesù, quale sorgente di luce originaria.
La sequenza dedicata alla Stampa da 100 fiorini, infine, consente all’artista bosniaco di poter lavorare anche su tutte le altre tematiche a lui care: è un continuo esercizio di disegno delle mani, degli abbracci e dei volti che si riscontrano in tutte le altre sue opere.
Giungemmo così all’ultima sezione della mostra, quella dedicata ai luoghi: stanze, case, alberi, paesi che fanno tutti parte della vita di Safet. Come recita la frase del pittore all’inizio della sezione, infatti, “nel creare queste loro rappresentazioni, cerco di trasmettere il mio amore nei loro confronti”. Ancora una volta, non si tratta di proporre nuovi soggetti, ma dare nuova luce a quelli che appartengono alla sfera della quotidianità. Luoghi sulla tela immortali, e più che qualsiasi altro soggetto prima rappresentato, intrisi delle emozioni di Zec.
Non a caso, la scelta curatoriale ha voluto affiancare opere il cui soggetto è il medesimo, ma eseguito in tempi molto distinti tra loro. È il caso delle due rappresentazioni della camera della madre dell’artista, dipinte a vent’anni di distanza. Lo scarto temporale ha portato con sé un mutamento non solo nella tecnica di esecuzione, ma anche nell’energia posta in essere, finendo col restituire due messaggi molto diversi.
La rappresentazione dei borghi tipici della Bosnia, e in particolare delle colline accanto a Sarajevo, risulta particolarmente emblematica in tale prospettiva. Le opere dedicate a Bentbaša, infatti, ricoprendo un vasto arco temporale (dal 1970 fino al 1998), trasmettono sensazioni completamente diverse. Tra il primo e il secondo momento creativo, infatti, Safet ha vissuto una tra le più cruenti guerre dell’ultimo secolo, e, attraverso i luoghi a lui più cari, ha trasmesso con lirica efficacia la drammaticità degli eventi subiti.
Il vero soggetto di queste opere, dunque, è il ricordo, talora felice, quindi inserti di quotidianità dai colori sgargianti, come il biglietto del cinema arancione presente nella Casa sul Mare; talora drammatico come nell’opera dal titolo La finestra aperta, che denuncia, mediante l’uso di alcune pagine de La Repubblica del 1995, la tragedia di Srebrenica.
L’utilizzo di carte di giornali autentici, e fogli presi da libri vecchi, si può considerare come uno dei tratti distintivi preferiti dell’opera di Zec.
Se vero è che le caratteristiche della pittura di Safet Zec sono molteplici, e difficili da ricondurre a un unico ambito stilistico, è altrettanto vero che la sua poetica può indubbiamente riconoscersi nel realismo, o, quantomeno, ricondursi alle sue tematiche.
La realtà, infatti, prende possesso della tela, si imprime in essa dando agli oggetti della quotidianità nuova luce e nuova dignità. Realtà che s’impadronisce talmente del supporto pittorico, da divenire essa stessa supporto, quando le tele vengono completamente ricoperte di carte di giornale e di libri: memoria scritta che diventa memoria pittorica, base sulla quale iniziare a dipingere.
Inoltre, se per alcune opere la scelta delle carte da utilizzate è pressoché casuale, in altre non si può affermare lo stesso, come nel caso del volto di donna appartenente alla serie Lacrime, o ne La finestra aperta, lavori in cui compaiono stralci di giornali posti lì, quale denuncia forte nei confronti della difficile situazione bosniaca degli anni Novanta, vero e proprio messaggio scritto in appoggio al pittorico.
Safet rivela inoltre come, per lui, iniziare a inserire una pagina di un libro o un pezzo di giornale lo aiuti anche a superare l’impasse della tela bianca, che notoriamente perseguita gli artisti delle arti figurative, quanto il foglio immacolato rappresenta l’horror vacui degli scrittori.
È cosa notevole come l’opera di Zec riesca sempre a donare grande dignità agli umilissimi materiali utilizzati, esprimendo attraverso di essi una poetica preziosa, di gentile semplicità, ma sempre dotata anche di tematiche consistenti, siano esse di carattere storico, esistenziale, o puramente ontologico.
Scopo dell’artista è quello di scavare, proprio come un minatore, nel profondo dell’anima, e tradurre con i pennelli, china, e colori, il linguaggio misterico della quotidianità, facendone emergere il valore mediante il privilegio dell’estetica.
Solo così la fugacità dell’attimo rappresentato sulla tela, sia che riguardi alberi, cose, persone, o luoghi, seppure rappresentato nella sua “normalità”, può divenire messaggio universale.
Fissando l’ultima opera, La madre, emergeva spontaneo nel visitatore, a conclusione dell’emozionante viaggio attraverso la il percorso della mostra Bomben, il parallelismo con la prima, Uomo.
Infatti entrambi i quadri sembravano essere lì apposta per accompagnare la frase di Jorge Semprùn che chiudeva la mostra: “non farmi domande, a chi volesse sapere cosa sto pensando di quanto ho appena visto, ma non ti dirò niente, e non perché non voglio dirti niente, è perché questi lavori sono di quelli che impongono il silenzio, come quelli dei più grandi si guarda e si deve tacere”. Tanto il pensatore, quanto la madre di Safet sono infatti rappresentati immersi nei loro pensieri, non guardano lo spettatore, sono assorti, forse nei loro ricordi, alcuni dei quali forse popolano anche la mente di Zec, e danno energia e sensibilità alle sue mani, per riempire le tele.