Escher: la mente matematica che intuiva teoremi e li scriveva con l’arte
Riccardo Panigada
Se non si può certo dire che Maurits Cornelis Escher non abbia avuto successo in vita come artista, il valore scientifico di Escher non venne però mai completamente riconosciuto durante la sua esistenza, così come purtroppo è stato per quasi tutti i personaggi di grande genio interdisciplinare.
Bisogna infatti aspettare il 1979, anno della prima edizione del GEB (Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante) di Douglas Hofstadter, per vedere adeguatamente
valorizzata da un matematico l’epistemologia di Escher, sette anni dopo la sua scomparsa.
Andò così perché, nonostante il grande incisore olandese avesse conoscenze matematiche di tutto rispetto, per il fatto di arrivare per puro intùito a tassellare il piano con i suoi sorprendenti disegni, in cui chàos e ordine dissolvono l’uno nell’altro senza soluzione di continuità, con suo stesso rammarico egli venne sempre trattato “con una pacca sulla spalla, come si fa con un amatore” in ambiente accademico.
E non c’è da meravigliarsi, perché troppe doti intuitive disturbano sempre gli ambienti dottrinali in cui si è soliti privilegiare quasi esclusivamente i processi razionali logico-deduttivi. Basti pensare Benoit Mandelbrot, nonostante i suoi notevoli titoli e incarichi accademici, a causa delle sue straordinarie capacità intuitive (che gli consentivano di risolvere problemi di trigonometria solo immaginandosi le figure nello spazio), non aveva certo vita facile nella Parigi in cui il gruppo Bourbaki procedeva in quegli anni a una rigorosa sistematizzazione della matematica, in opposizione alle teorie cantoriane.
Ma oggi le medaglie Field vengono spesso vinte per studi di topologia la cui strada venne aperta proprio da Cantor e dalle geometrie non euclidee.
Guardando le opere di Escher non si può ignorare che il piano che ospita quelle sue mirabili pareidolie chiamate “disegni”, nei quali ci si avvale di linee che creano illusioni ottiche fuorvianti di quella che
viene chiamata “prospettiva”, è sede che interagisce con la fisiologia delle colonne della corteccia visiva, le quali David H.Hubel e Torsten Wiesel (Nobel per la Medicina nel 1981) hanno dimostrato essere sedi del riconoscimento dell’inclinazione dei segmenti di retta, e delle ampiezze della curvatura di tratti lineari, che costituiscono gli elementi primari di qualsiasi immagine sia poi integrata nella corteccia associativa. Illusioni prospettiche, quindi, pareidolie nella pareidolia del disegno, illusioni allusive alla ambiguità percettiva intrinseca alla fisiologia della visione, sviscerata fino alle sue modalità primarie, efficaci quanto approssimative, poiché tutto viene poi elaborato a livello corticale in simultanea con il confronto mnestico e (con ogni probabilità) nozioni congenite derivanti dalla filogenesi e da memorie epigenetiche parentali.
Siccome la corteccia associativa riceve stimoli da tutte le altre aree sensoriali del cervello, e dati dalla memoria, un’immagine è sempre calcolo ed emozione. E in cosa consiste allora la ricerca di Escher? Perché egli destabilizza, annulla i confini tra spazio euclideo e spazio “distorto”? disorienta facendo traslitterare lo sfondo in immagine, e viceversa? usa il contorno di una sagoma animale, per scoprire che aderisce in modo perfettamente con il contorno della sagoma di
un animale di tutt’altra specie?
Non è solamente estro geniale, sagace ironia, desiderio di stupire. Escher va oltre: egli mostra che la biologia è disegnata da un’insospettabile codice matematico ricorsivo ed economico in quanto autosimile, che Mandelbrot codificò con l’operatore frattale.
E così lo spazio, oltre alla limitata esperienza sensibile, può trascinare la forma in un’avventura itinerante, in cui essa appare simultaneamente atemporale e temporalizzata, poiché
si avvicina da una sorgente puntiforme, sviluppandosi attraverso spirali che si risolvono in un percorso verso il presente dei nostri occhi, in forme sempre più familiari per il nostro cervello, via via che si osserva verso le aree periferiche del quadro “Galleria di stampe”. La chiusura completa dell’origine centrale di tale immagine da parte di due matematici dell’Università di Leida (H. Lenstra e B. de Smit) ha dimostrato che la figura inventata da Escher – come si legge nell’assai pregevole catalogo della mostra prodotta e organizzata da Arthemisia – “rientra nella geometria delle mappe conformi o isogoniche, ossia griglie, che pur sottoposte a deformazione, mantengono gli angoli inalterati”.
Come dire: dal nulla all’essere, dall’essere al nulla; soggetto emergente hic et nunc, e spettatore di se stesso in una dimensione altra, inesistente, o non-più-esistente, ma percepibile nella simultaneità, invece che nella memoria.
Tutto questo viene illustrato da M.C. Escher con inquietante ma serena
chiarezza, senza dovere ricorrere a simboli, semplicemente estrapolando dalla memoria dell’avventura esistenziale episodi e forme che si risolvono in quadri di stupefacente naturalezza, realizzati da chi ha saputo vivere, facendo tesoro di ciò che appare ai sensi. Se le colonne della corteccia visiva vengono attivate nei primi mesi di vita, dall’orientamento delle linee percepite dai neonati nell’ambiente circostante che la loro vista può esplorare, è come se Escher nella primissima infanzia avesse potuto divertirsi a girare sulle montagne russe, sensibilizzando al massimo tutte le sue colonne corticali, e di lì fosse iniziata la sua passione per il volo, e per i suoi voli immaginari e surreali da disegnare.
Evidentemente, mentre Mandelbrot risolveva problemi di geometria analitica rappresentandosi figure nello spazio, Escher fa qualcosa di simile, ma per risolvere i problemi che scaturiscono dalla sua immaginifica curiosità interiore: l’artista si percepisce come soggetto fisico, attore e spettatore, integrato nell’ambiente al punto che soggetto e ambiente si identificano nella spirale formata dal puro linguaggio teoretico della matematica, che avvicenda nel dinamismo infinito del divenire essere e non essere, l’uomo, e l’ambiente esterno, la cultura che vi è rappresentata e la cultura e la creatività di chi ha fatto il quadro.
E così anche “Giorno e notte”, disegno in cui il paesaggio olandese viene sorvolato, ed elaborato da un’ordinata agentività corticale associativa, per assumere una valenza estetica, che trascende la fruibilità della sua disarmante, semplice, bellezza, e condurre verso quell’insospettata pregnanza percettiva, aderente al limite delle potenzialità concettuali: il sublime del reale nella sintesi dell’intùito formale, quasi superando il dogma dell’estetica di Wittgenstein, secondo cui un oggetto non può essere percepito e intuìto simultaneamente.
Evidentemente cervelli dotati di capacità teoretiche al limite del verosimile, come quelli di Escher e Mandelbrot, possono essere presi quale esempio per dimostrare la correttezza della tesi del concetto rappresentativo di Arnheim, che, in presenza di grandi capacità teoretiche di elaborazione creativa e logico-razionale, può essere alla base di grandiose, inquietanti, ordinatissime complessità.
Notevole la mostra organizzata quest’anno da Arthemisia a Treviso, al museo di Santa Caterina, che ha offerto l’opportunità di avvicinarsi con atteggiamento storiografico alla formazione artistica di M.C. Escher, ammirando la collezione Federico Giudiceandrea, l’ingegnere illuminato, che, innamoratosi dell’artista epistemologo di Leeuwarden, ha raccolto una quantità incredibile di opere e pezzi di altri autori strettamente collegati ad Escher, e indispensabili per comprendere pienamente l’evoluzione filosofica e artistica del suo pensiero.