Kitsch e Vanitas
Sarah Boglino
Clement Greenberg, nel 1939, parla dell’uomo kitsch. Gillo Dorfles, nel 1968, teorizza il kitsch quale fenomeno appartenente a una precisa categoria estetica. Abraham Moles, nel 1979, stila i cinque principi del kitsch (principio di inadeguatezza, principio di accumulo, principio di percezione sinestetica, principio di mediocrità, principio di comodità). I “denti” di Marilù Manzini sono opere d’arte che impiegano il codice del cattivo gusto per porvisi in contrapposizione. Questi ready made sono composti da calchi dentali realizzati da uno studio dentistico a cui l’artista ha applicato lettere dorate, che vanno a comporre brevi slogan, o a riproporre noti brand di moda. Come nel kitsch, essi si fondano su eccentrici accostamenti di oggetti comuni di (apparente) immediata comprensione, tuttavia da esso si distinguono per l’intenzionalità artistica che da questo accumulo genera un significato. Essi, infatti, rappresentano, d’acchito, il corrispondente valoriale dei denti d’oro di appartenenza a determinate classi sociali, che nel tempo, da status symbol, attraverso una cultura sempre più suburbana e massmediatica, son diventati elementi connotativi nei sorrisi dei banditi o delle loro caricature cinematografiche. Tuttavia, siamo nel dominio dell’arte contemporanea, dove il kitsch è di sovente impiegato come elemento spaesante, giocoso, ironico o anche semplicemente come contenitore di ingredienti appartenenti a un immaginario cui attingere facilmente. Lo dimostrano in vari contesti e con diversi approcci artisti oggi noti sulla scena internazionale quali Jeff Koons, Damien Hirst, Rudy van der Velde, Maurizio Cattelan, o per rimanere nei nostri confini nazionali nomi come Luigi Ontani, Antonio Riello, per citarne solo alcuni, maestri nel confondere codici alti e bassi. E una simile, per quanto dissimulata, commistione di registri è rintracciabile anche in queste opere della Manzini, dove i brevi testi a completamento concettuale delle impronte dentali, oltre a richiamare la Poesia Visiva che fin dall’inizio ha fatto parte della produzione dell’artista, rimandano alla tradizione figurativa, come esemplificato da certi teschi parlanti della pittura seicentesca, specialmente quella olandese. Queste “impronte”, vere e proprie metonimie riportanti al “tutto” umano, possono a pieno titolo rientrare nelle Vanitas, ma con una crudezza contemporanea, affilata dal linguaggio mediatico, che spinge a confrontarsi con la verità della condizione transeunte nell’epoca della relatività; ancor più solidale alla dimensione esistenziale, poi, si può dire questo ciclo, dal momento che la serie ha avuto inizio dal dato autobiografico, per estendersi fino all’uomo kitsch, che travisando il rapporto tra brand e sé si annulla a mero supporto commerciale, assoggettandosi all’oggetto. Si assiste, davanti a questa serie inaugurata nel 2020 ma in gestazione dal 2019, a un capovolgimento di ruoli, per cui non siamo noi i primi a bollare di cattivo gusto i denti, ma sono loro a giudicare noi, a riso scoperto. Ci troviamo non più di fronte al sorriso della Gioconda enigmatico ma foriero di conoscenza, quanto davanti a un giudizio asciutto e corrosivo nel suo essere incisivo come un’ekphrasis, capace di mandare in frantumi lo “specchio della menzogna che abbellisce” nel quale l’uomo kitsch sente il bisogno di riflettersi per riconoscersi “con commossa soddisfazione” (M. Kundera, L’arte del romanzo, 1986).