La sorprendente fecondità del vuoto

Riccardo Panigada

Se dividiamo un sottilissimo pezzetto di legno a metà poi ancora a metà, e poi ancora a metà, e così via, a un certo punto ci troveremo in mano qualcosa di indivisibile (a-tomon)”. Così sostenne Democrito, contro la tesi dell’infinito potenziale, ovvero quella tesi, la quale dimostra mediante un teorema di geometria, che un segmento di retta è potenzialmente divisibile all’infinito.

In effetti, gli elementi della geometria ideati, o, meglio, idealizzati dal genio di Euclide, sono solo un prodotto della nostra mente. Poiché nel mondo reale non esiste una linea priva di spessore, e, quindi, sembra proprio che, per quanto riguarda il mondo fisico, Democrito avesse ragione.

In apertura e nel corpo dell’articolo quadri di Elisabetta Nalon

Ma poi i fisici moderni sono riusciti a disintegrare quell’atomon, e a osservare che dentro di esso vi erano protoni a loro volta composti da quark, e che questi ultimi, non potendone conoscere l’identità energetica, non si potevano classificare altro che attribuendo loro “colori” e “sapori” per poterli distinguere l’uno dall’altro…

In realtà quello che i fisici contemporanei, nonostante la loro mirabile capacità di descrivere le forze mediante formule matematiche, non sono ancora riusciti a capire è che cosa siano le forze, quale sia la loro natura. Ovvero sappiamo che si cade sulla terra a 9,8 metri al secondo quadrato, ma non si sa per nulla in cosa consista ciò che ci attrae verso il centro della terra (che chiamiamo, grazie a Newton, forza di gravità), così come non si conosce la natura delle forze elettroforti, ovvero quelle che tengono coesi nel nucleo dell’atomo i protoni tra loro, a dispetto della loro carica positiva, che dovrebbe farli schizzare l’uno lontano dall’altro.

Si è qui arrivati a utilizzare la parola “forza”, la quale implica il termine “energia”. E in età contemporanea, la scissione dell’atomo, la quale libera una quantità enorme di energia, sembra aver determinato il crollo la tesi di Democrito, ma così, forse, non è del tutto, in quanto Einstein, ci ha appunto insegnato che materia (gli atomi) ed energia (le forze che governano la materia) in fondo non sono che due facce della stessa medaglia…

Ma torniamo all’antichità: diversi secoli prima di Democrito, Esiodo apre sua la Teogonia con lo splendido verso “In principio era il caos”. L’immaginario collettivo dell’uomo moderno non può che venire colpito da quanto l’intuizione esiodea costituisca una predizione della teoria del big bang. Ma anche il caos (o, in altre parole il big bang che ha generato le stelle e, grazie alla fusione di queste tutti gli atomi della nostra tavola periodica), deve ben avere avuto un origine. Allora bisogna tornare alla teoria e alle sue formule perché sono solo gli astrofisici che sono in grado oggi di spiegarci che l’energia che ha generato la materia è stata prodotta da un’anomala fluttuazione del vuoto.

Come dire prima non c’era niente, e a un certo punto si è prodotto l’Universo. Ora la parola da inquisire è “niente”, in latino nihil. Come facciamo a capire questa parola se non indica nulla, cioè nessuna cosa (in latino nulla res)? Evidentemente dobbiamo ammettere che il nostro cervello di sapiens eredi della cultura classica ci consente di avere una notevole capacità teoretica, e perfino metafisica.

Ma questo nihil è dunque qualcosa che ci è completamente estraneo, o anche il niente in qualche modo costituisce la nostra natura umana biomaterica?

Potrebbe sembrare che porsi tale domanda sia una questione oziosa, visto che il niente non potrebbe aggiungere alcuna valenza alla nostra natura. Eppure tornando al concetto di “vuoto”, e alla suo paradossale ruolo di padre dell’universo, potrebbe essere anche diversamente.

Se si è dominati da pensieri intrusivi, e si fa una gran fatica a cacciarli, la capacità di fare il vuoto mentale, astraendosi dalle pressioni conscie e inconscie che governano la mente, è noto che procura grandi benefici alla psiche. Ecco quindi che il niente ci è diventato necessario e terapeutico.

Ma ci sono anche altre occasioni in cui bisogna fare tabula rasa. Per esempio quando si deve interpretare un ruolo per cui sia necessario astrarsi completamente dalla realtà ontologica di noi stessi, ovvero dall’immagine che abbiamo di noi e dalle dinamiche del nostro quotidiano, permeate, più o meno consapevolmente, da pregiudizi (un antico greco direbbe dalla doxa – da cui il termine “dogma” -, cioè dall’opinione comune, dalle credenze del volgo).

Anche in questo caso allora abbiamo tutto da imparare, dalla cultura classica, come del resto ha già osservato Freud, ma anche Nietzsche: “Avremo fatto un grande acquisto per la scienza estetica quando saremo arrivati non soltanto al concetto logico, bensì all’immediata certezza intuitiva, che lo sviluppo dell’arte è legato al dualismo dell’apollineo e del dionisiaco […]; tra l’arte figurativa di Apollo, e l’arte non figurativa di Dioniso, i due istinti tanto diversi tra loro, procedono l’uno a fianco dell’altro per lo più in aperta discordia, e, tuttavia, sempre reciprocamente eccitandosi a nuovi parti, per perpetuare così la lotta di quel contrasto, che la comune parola “arte” supera soltanto in apparenza; fino a quando in virtù di un miracolo metafisico della “volontà” ellenica, compaiono insieme accoppiati, e in questo accoppiamento generano da ultimo l’opera d’arte, tanto dionisiaca quanto apollinea, la tragedia attica” (cfr. F. Nietzsche, La nascita della tragedia).

E il Nostro nella medesima opera ricorda che “Schopenhauer indica addirittura come contrassegno del talento filosofico il dono di vedere in certi momenti gli uomini e le cose come puri fantasmi“.

Insomma, la nostra mente (termine mediante il quale rimandiamo a uno spazio astratto dalla materia, quindi metafisico) potremmo dire che non ha consistenza, quindi che non sia fisicamente niente eppure sappiamo che c’è, e che quindi ci siamo anche noi, in seguito alla tautologia del “cogito” cartesiano (tautologia in quanto il pensiero che afferma il “sum” è intrinseco alla mente). Cioè affermiamo di esserci grazie a qualcosa che fisicamente non c’è.

Ed è all’interno di tale tautologia ontologica che si generano tutti i paradossi conseguenti alla determinazione di una scissura tra fisico e mentale (rispettivamente la res extens e la res cogitans del razionalissimo dualismo di Decartes). Infatti, per esempio, i sogni spesso rivelano di noi più di quanto non riveli il nostro comportamento, ed è solo quando siamo in stato di rilassamento mentale, ovvero non pensiamo a nulla mentre siamo rilassati sotto la doccia, che veniamo colti da “lampi di genio” che ci fanno spesso superare “impasses” le quali ci sembravano prima insormontabili.

Sono infatti i neurofisiologi a spiegare che quando siamo concentrati su un problema, e abbiamo, a causa della fatica, l’impressione di far lavorare intensamente a quel problema il nostro cervello, in realtà stiamo invece facendo fatica solo perché caparbiamente ci stiamo opponendo all’attività spontanea cerebrale, che produrrebbe molte più proficue sinapsi in stato di rilassamento o “vuoto mentale”.

Bisogna allora rassegnarsi (con buona pace anche di tutti i riduzionisti che pretendono di arrivare un giorno a dimostrare che la mente “scaturisca” dal cervello) ad accettare di buon grado l’ipotesi che la mente non sia altro che intrinseca tout court all’attività cerebrale, forse analogamente a quanto si possa dire che l’energia sia intrinseca alla materia.

Infatti, solo accettando l’ipotesi che la mente sia un aspetto di quel laboratorio stipato di ormoni, che è il cervello si può ben comprendere quanto l’equilibrio globale (omeostasi) dei messaggi ormonali dipenda dallo stato di equilibrio della mente.

E che, quindi, gli stati della mente maggiormente produttivi e proficui sono quelli che avvengono in uno spazio attanziale rilassante e rilassato, in cui paradossi e metafore si presentano come occasioni creative, e non sotto forma di strutture da risolvere razionalmente.

Solo chi ha il buonsenso di accogliere “nella natura di tutte le cose” la compresenza pacifica dei concetti di vuoto, di infinito (attuale e potenziale), con tutti i conseguenti ossimori, paradossi, e altre metafore che ne derivano, avrà quindi non solo la possibilità di vivere e produrre in equilibrio, ma, esercitando la psicanalisi potrà anche alleviare le cure del prossimo.

Così, per esempio, un’artista e precocissima psicologa padovana, Elisabetta Nalon, la quale, arrampicandosi sugli alberi da bimba vedeva se stessa inclusa nel paesaggio. E non ci si può esimere a questo punto di osservare tornando alla fisica, che anche lo sperimentatore deve considerarsi parte inclusa all’esperimento…

Oggi Elisabetta, rievocando il suo immaginario di bambina, dipinge splendidi quadri di alberi, tutti appaiono all’osservatore immersivi e pieni di colori vitali. Ma la mano dell’artista è anche evidentemente guidata dalla cultura psicanalitica acquisita più tardi, mediante la quale oggi conduce in percorsi terapeutici riabilitanti persone che soffrono di gravi psicosi paranoidi.

Infatti, rileva la dottoressa Nalon “per Freud pensare per immagini è la forma arcaica di pensiero più vicina ai processi primari dell’inconscio, per cui una terapia che parta dalla creatività grafica stimola un pensiero figurativo volto alla scoperta di un collegamento tra corpo e affetti” (cfr.: Incontri di primavera – Un gruppo di studio sulla sensorialità, Edizioni Bette, Padova 2024).

Inoltre, se il disegno si realizza in una superficie estesa, “lo spazio è la misura geometrica dello stare nel luogo, che definisce le sue parti […]. Il luogo e lo spazio implicano: Essere qui – Essere là – Essere tra. […] Sull’essere tra si è avviata una fase importante del gruppo espressivo, in quanto, dopo l’individuazione dei personaggi, si è passati a un incontro tra loro, nello stesso luogo, e a una successiva interazione. […] La messa in scena dei personaggi ha, infine, calato i pazienti nel ruolo di attori, e anche di registi, operando la trasformazione del percorso terapeutico in racconto. […] In tal modo, forse i componenti del gruppo hanno potuto provare a riprendersi qualcosa che gli appartiene e che è stato sottratto, o che non hanno avuto la forza e la consapevolezza di difendere e trattenere, ma neanche di definire. Questo qualcosa ritorna, per esempio, nel sogno, nella fantasticheria, nell’arte e nella pazzia, rivelando quanti modi ci sono di stare nel mondo. Umanissimi”. (Ibidem)

Non a caso Heidegger ha rilevato che esistere va inteso come ex-sistere, cioè uscire dal nulla. Allora, tonando nuovamente agli antichi filosofi si potrebbe dire che, come rimproverava Socrate a Parmenide non si può affermare che “il non-Essere non è”, in quanto per il semplice fatto di predicare tale proposizione, comunque si verrebbe ad attribuire consistenza al non-Essere, e, quindi, anche il non-Essere sarebbe. Il non-Essere, come entità totalmente astratta, potrebbe quindi venire assimilato al concetto del vuoto, dal quale però si può far emergere l’epifania del divenire, e, quindi, dell’esistere, facendo uscire dal nulla, e venire al mondo, anche quelle persone che si trovino per qualche avventura lontane da una identità.

… e sullo stesso tema: notevoli i “Ricami di colore” di Maria Rosaria Savini, fusione perfetta e totale tra figure muliebri e natura