Il Cinquecento: La piramide del Rinascimento e il Genio
di Marco Marinacci
Quando ci si inoltra nei territori dell’arte del ‘500 il primo arsenale interpretativo di cui necessitiamo è quello utile a comprendere come evolva, nel passaggio del secolo, il fenomeno che prende il nome di Rinascimento. Ma cosa si intende con il termine Rinascimento?
Cercando di superare l’acceso dibattito circa il rapporto che lega il momento della Rinascenza alla precedente epoca medievale, nel quale i teorici della discontinuità (elaborata da Jacob Burckhardt e sostenuta, almeno inizialmente, da storici come Eugenio Garin), e teorici della continuità tra le due epoche (Konrad Burdach e poi Étienne Gilson) si contrappongono, sosteniamo che non si possano prendere a riferimento date precise. Né il 1492, che farebbe coincidere la scoperta del Nuovo Mondo con il momento preciso dell’avvio del Rinascimento maturo, ma, che, anche per altri motivi più determinanti, per quello che era l’universo artistico umanista, può segnare un decisivo punto di svolta storico (muoiono Lorenzo il Magnifico e Piero della Francesca); né il 1303, in cui Giotto dà vita al grandioso ciclo affrescato della Cappella degli Scrovegni, preconizzazione della poetica espressiva umanistica. Scegliere e fissare date significherebbe perdere il senso del “fenomeno” Rinascimento: il momento della storia che per primo si pone in rapporto diretto con essa.
Fissare date significherebbe, inoltre, salire tra gli spalti di una o dell’altra fazione “contemporanea”, perdendo quella distanza critica indispensabile all’analisi di un movimento che accampa una propria e definita visione storica, quale è stata quella elaborata dagli intellettuali e dagli artisti umanisti, la quale faceva propria una consapevolezza, una ricerca e una volontà di discontinuità rispetto all’epoca precedente. Volontà che costituisce quindi una prospettiva storica autonoma e definita, che impone un “secondo grado critico”, una distanza che può trovare forma in una lettura ermeneutica del fenomeno storico rinascimentale, che riporti le categorie storico- critiche in esso già presenti (continuità e discontinuità) nei termini di una storicità assoluta, prendendo a riferimento altre categorie critiche, pena una interpretazione anacronistica e fuorviante.
Osservando dunque il Rinascimento come attraverso un cannocchiale, lo si vede precisarsi in una forma netta, una piramide del pensiero, la cui base appare ora completamente iscritta nell’Umanesimo, mentre il vertice è costituito dal Genio. Questi i due termini, le categorie cui guardare, per comprendere pienamente il momento della “rinascita”, così come è stata sentita dagli uomini che l’hanno vissuta, tra i quali Giorgio Vasari, che l’ha consegnata alla storia attraverso quel trattato delle Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, puntuale manifesto degli ideali dell’epoca.
Umanesimo vuol dire già di per sé laicizzazione culturale e sociale, concetto che ne implica altri fondamentali, come il passaggio da una visione medievale trascendentista,teocentrica e universalista, a una moderna, immanentista, antropocentrica e particolarista (così il Burckhardt). Ancora maggior peso assume poi, dal lato della prospettiva storica in cui ci poniamo, il diverso senso del tempo, che l’Umanesimo assume, non più scisso in due grandi momenti dalla venuta del Messia (così come ancora lo è per l’Islam, in cui l’anno zero coincide con la fuga di Maometto a Medina, nel 622 d.C.), e rispondente a una chiara visione teologica, ma scandito in epoche distinte per categorie non più religiose ma culturali (oseremmo dire antropologiche), che saranno chiamate “età classica”, “età di mezzo” e “rinascita”.
Ma Umanesimo vuol dire anche senso della storia, intesa come tempo operante per fasi precise e discontinue, alle cui cesure gli umanisti sentirono di dover contribuire, come alla costruzione di una grande muraglia, per essere loro stessi artefici della storia, e non passivi osservatori. Fatto che comportava la coscienza di una propria linea di sviluppo storico da coltivare e perseguire: prendeva così forma il Rinascimento, inteso come ripresa del corso della civiltà, interrotta per lunghi secoli, che finalmente, e solo grazie alla poderosa azione degli umanisti, poteva riallacciarsi alle sue radici. E’ in questo momento che la classicità assurge a immagine mitica e modello ineguagliabile cui far riferimento.
L’elezione della classicità a ideale è fondamentale premessa alla comprensione del momento rinascimentale, in quanto comporta la creazione di un sistema filosofico che la comprendesse e la avvalorasse. Il modello platonico, riletto attraverso l’interpretazione di Plotino, permetteva non solo di riportare il precedente sapere filosofico, derivante da tutto l’arco medioevale e di natura prettamente aristotelica, all’interno del nuovo testo umanista, attraverso una ripresa parziale e mirata, come se si trattasse di una serie di incunaboli trascritti, ma soprattutto si prestava a dialogare con la grande tradizione cristiana, a partire da quella patristica e tomista. Ma, più ancora, il modello platonico portava con sé quella dottrina delle Idee che consentiva di eleggere a ideale ciascun nuovo valore promosso dall’Umanesimo: è grazie a questo nuovo modello che la classicità può essere elevata e identificata con l’Idea di perfezione.
Una classicità prima di tutto intesa in senso letterario, perché passa attraverso l’esegesi dei testi greci, in quanto, prima di istituire un canone proprio, si devono avere modelli a cui riferirsi. Solo in un secondo momento potrà entrare nell’universo figurativo, e lo farà ponendosi anche nei confronti delle vestigia classiche come al cospetto di testi antichi da interpretare. Le grandi spoglie del passato, la scultura e l’architettura, in primis (perché della pittura la Grecia non ha lasciato che il racconto, e la romanità, che pur vanta assoluti esempi pittorici, sarà sempre vista come il delegato secondo del perfetto modello greco), sono quindi riprese secondo una precisa codificazione di carattere “letterario”, mai prima presente nelle discipline artistiche e architettoniche, implicando da parte della contemporanea critica storica la necessità di un’analisi storico-critica che ne tenga puntualmente conto, adattando precise categorie semantiche, per non fuorviare il senso del messaggio.
In ultimo, Umanesimo vuole anche dire un nuovo complesso fenomeno sociale, economico e culturale, cui sono ascrivibili molte e varie categorie, via via assunte dalle diverse scuole critiche, attente di volta in volta agli aspetti stilistici, piuttosto che alle implicazioni sociali. Ma, certamente, un a priori è dato dal nuovo corso del mecenatismo privato, che collabora al processo di laicizzazione, spostando l’asse del potere dalla chiesa alla nobiltà magnetizia, che gradualmente acquista il prestigio e il potere di imporre i propri paradigmi ideologici, aderenti a un nuovo modello di ideale umano, distante da quello della cultura clericale medievale, ma presto fatto proprio anche dalla stessa Chiesa (a parere di alcuni non ancora ben conscia della portata laica di tale rinnovamento, ma più probabilmente perché anche lei figlia del proprio tempo, di cui la nuova prospettiva umanistica è principio primo). Il mecenatismo, soprattutto, si configura da subito come il presupposto essenziale che permetterà all’artista rinascimentale di affrancarsi dalla bottega, per elevarsi, prima, da artigiano portavoce di una precisa ma chiusa tradizione, a libero creatore di un linguaggio originale e personale, quale sarà già il Giotto degli Scrovegni, di cui sarà massima espressione Leonardo, per poi assurgere al ruolo di vero e proprio demiurgo, quale sarà considerato il “divino” Raffaello, e, soprattutto, come il testo di Vasari documenta, Michelangelo. Divenire, in altre parole, “Geni”.
Per genio, che deriva il proprio etimo dal latino geno (genero, produco; il “Genius” è la forza naturale produttrice, poi anche divinità tutelare della nascita; cfr. Devoto-Oli), s’intende colui che è capace di generare da sé non solo un proprio linguaggio, sia esso artistico, letterario, o musicale, ma un vero e proprio universo; si spiega in questi termini l’affermazione di Heidegger: “l’opera d’arte inaugura un mondo”, in cui è implicito il concetto dell’artista quale “Genio”.
Concetto, che, quando messo in relazione agli artisti del Rinascimento, non può esprimere il senso con cui è stato interpretato dall’estetica kantiana (che ha pervaso molta parte della critica storica anche più vicina a noi, basti pensare a quella stilistica), per la quale l’artista geniale è colui che può costituire con la sua opera il modello a cui ispirarsi, o, per altri, in cui il genio è latente; o meno ancora trova riferimenti in Hegel, che lega l’espressione del genio al talento. Gli artisti della rinascita erano in tal senso invece molto più vicini all’idea di dàimon che avevano i Greci, ossia quella di un principio vivificatore della materia. Ogni elemento aveva il suo genio, e “si disser genj l’acqua, il fuoco, l’aria, la terra”, perché sono gli elementi delle cose, che i Greci appellarono atomi. Basti pensare all’importanza che assumerà nella poetica di Leonardo la volontà di esprimere tali elementi attraverso la propria opera, che troverà compimento assoluto, sub specie apollinea, in Raffaello (pensiamo solo al ruolo iconologico che la rappresentazione di tali elementi riveste nel ciclo della Stanza della Segnatura); e sub specie dionisiaca, in Michelangelo, in cui tornerà a essere vero e proprio demone.
Si potrebbe invece intravvedere una affinità con la visione rinascimentale nell’interpretazione del Genio che dà Friedrich Schelling, definendone l’arte come suprema forma di conoscenza, in grado di cogliere intuitivamente l’Assoluto nella sua unità indifferenziata di natura e spirito, perciò collocata al vertice del proprio sistema filosofico. Ma sarà Arthur Schopenhauer a ricondurre il termine al proprio ambito di nascita, paragonando il percorso di conoscenza di cui dà prova il Genio a quello della contemplazione delle Idee, in Platone. L’ultimo, risolutivo contributo portato all’intima comprensione della natura del Genio, è offerto dalla riflessione (e, verrebbe da dire, dall’intuizione poetica) di Friedrich Nietzsche, il quale coglie, da grande filologo ed ermeneuta del mondo greco quale egli è stato, i due aspetti complementari del Genio: l’apollineo e il dionisiaco. Ne La Nascita della Tragedia, scrive: ”Nel Genio dobbiamo riconoscere un fenomeno dionisiaco, il quale ci rivela ogni volta di nuovo il gioco di costruzione e distruzione del mondo individuale come l’efflusso di una gioia primordiale”.
Ma sarà forse Robert Musil, quando dovrà dare corpo al protagonista del proprio romanzo, specchio dell’umanità contemporanea, L’uomo senza qualità – un uomo che sa di non poter più rivestire i panni dell’eroe rinascimentale, se non per vedersi trasformato in anti-eroe – a offrire della nozione di genio il preciso senso del passaggio storico. Musil si ricorderà di un nodo antico, che nel momento della rinascita, aveva vincolato all’uomo l’epiteto “geniale”, che portava quella creatura imperfetta a rivaleggiare con la potenza del divino.
Uno scontro che, sappiamo, gli sarà fatale: proprio nel momento più alto del Rinascimento, estremo volo di Icaro, c’è la caduta, come stanno a ricordare due date che si presentano come pietre miliari della storia moderna: il 1520, in cui la morte di Raffaello decreta la vittoria dell’inesorabile caducità della vita sulla potenza creativa del genio; e il 1527, in cui entra in scena la storia con tutto il suo peso e, con il Sacco di Roma, chiude il sipario sul sogno del Rinascimento.
Il “Genio” diventa così, per l’uomo contemporaneo, vestito troppo pesante, che lo trascina verso il suo dàimon, e, parafrasando Goethe, sembrerebbe rivelarne l’astuzia. Musil ne è ben conscio, e per salvare dal diabolico inganno Icaro, Prometeo e tutti gli altri uomini-eroi che verranno in altra epoca chiamati “geni”, escogiterà un piano ancora più raffinato: liberarli da quel gravame lasciandolo portare all’unica figura che lo potesse reggere: il cavallo.
Il Genio nasce, per Nietzsche, da una visione apollinea, come quella cercata e inverata da Leonardo, e più ancora da Raffaello, che porta poi ad un’esperienza dionisiaca non distruttiva della negatività dell’esistenza (quali sono invece la noia, l’apatia o il rifiuto per la vita quotidiana), ma generatrice di una volontà positiva di costruzione individuale. Grazie a una sorta di sublimazione dell’apollineo attraverso il genio, che con la creatività trasforma la realtà umana in qualcosa di attraente e desiderabile, afferma il filosofo tedesco, ci si può riconciliare con la vita. Il genio trapassa così dall’apollineo a un fenomeno dionisiaco. In questa luce assume a esempio nuovi e più ampi significati la poetica del giovane Michelangelo, che trova forma nel Bacco, o quella della fase matura, concentrata nell’atto dell’Apollo-Cristo, che dà avvio al Giudizio universale.
Figura simbolica, ma anche idea platonica, anzi, l’Idea per eccellenza, perché già sottoposta, e sopravvissuta, al vaglio del nominalismo (celebre il motto di Antistene “vedo il cavallo, non la cavallinità”). E proprio perché sopravvissuta, viene trasformata in archetipo: simbolo permanente dell’istinto e della forza propulsiva. Non per niente viene fatto proprio dalle avanguardie di tutti i tempi: basti pensare al Donatello scultore del Gattamelata, che sente di dover delegare alla figura equestre la possente “entrata nella storia”; o anche a Giulio Pippi, che non sostenendo il peso dell’eredità di Raffaello, da Romano qual era, si rifugia a Mantova, dove solo la ippogonia del primo salone di Palazzo Te gli permette di trovare ancora riparo in un Rinascimento sognato e idealizzato. Per non citare i vari Caravaggio, Goya, Gericault, i quali, quando il peso della vita si faceva eccessivo, per rappresentare l’umanità, che essa fosse Saulo, i regnanti di Spagna, o l’artista medesimo, si aggrappano a quella muscolarità possente, a quegli occhi e a quel collo allungato, tesi verso un dàimon nascosto, al fiato caldo che fumiga vicino a una fornace di gesso. Fino ai Futuristi, i quali, pur indicando la bellezza del futuro nell’automobile, quando dovranno scegliere la figura cui delegare la carica simbolica del rinnovamento, non avranno dubbi nell’eleggere il cavallo. Poi, anche qui, due date decretano il valore assunto nella contemporaneità dalla figura animale a discapito di quella umana, e ne sanciscono il passaggio di testimone: il 1888, in cui Nietzsche si getta al collo di un cavallo frustato dal suo vetturino, fosca preveggenza degli atroci crimini che il XX secolo vedrà perpetrati sui più deboli, e il 1937, in cui quella triste prefigurazione trova conferma nel nitrito lancinante che si fonde coi toni grigi di Guernica.
Ma il Genio, nel Rinascimento ha ancora volto umano, dietro il quale sta un’anima, la cui natura basta un’unica frase, a palesarla: “un uomo può fare ciò che vuole, purché lo voglia”. Un motto che Leon Battista Alberti, padre e teorico dell’Umanesimo, soleva ripetere, sufficiente a fissare solidamente i princìpi del termine “genio”, che nasce dall’evoluzione della nozione di uomo che proprio l’umanesimo partorisce, cioè quella di ànthropos. Uomo a tutto tondo (non è un caso che Donatello possa, grazie a questa conquista, tornare al tutto tondo in scultura), nutrito di valori morali ed etici, derivati direttamente dai testi classici. Uomo, che, subito dopo – e siamo già nel Rinascimento – si scopre anche poietés, artefice originale, e non espressione subordinata della società.
Platone nel Simposio afferma che l’artista, il poietés, è colui che porta a essere ciò che non è. Massimo Donà, filosofo contemporaneo, s’interroga su chi sia il più grande poietés, e tenta una risposta: il Tempo. Perché fa essere ciò che non è: ovvero trasforma in ciò che è (il presente), ciò che non è più (il passato) e ciò che non è ancora (il futuro).
Il Genio si presenta dunque come entità demiurgica capace di dare origine all’essere, alla pari del Tempo, in quanto non solo crea l’opera, ma da sé crea gli strumenti (linguistici, oltre che euristici e tecnici) per la propria arte. Basti pensare alle sperimentazioni tecniche che Leonardo sentirà di dover affrontare, pur conoscendone i rischi che inevitabilmente spesso saranno alla base del deperimento della propria opera, per dar vita al proprio messaggio; così come al vero e proprio percorso maieutico della poìesis di Michelangelo, che troverà espressione nella famosa ”arte del levare”.
Il Genio quindi, proprio perché analogo ontologicamente al Tempo, non può soggiacervi, ma al di fuori del suo dominio, si pone in un dialogo che travalica i secoli. Questo il motivo per cui Dante parla a noi (se ci sappiamo porre in ascolto) come all’uomo del suo tempo. Il Genio trascende ogni sfera temporale, o, meglio, è lui a determinarla, a decidere l’orizzonte all’interno del quale il suo messaggio si proietta. In questo senso si può affermare che Leonardo, Michelangelo, Raffaello, non sono i geni del Rinascimento, ma sono loro stessi il Rinascimento, al suo apogeo. Così, in quanto canone e riferimento assoluto, Monet sarà l’Impressionismo, e Picasso l’avanguardia del XX secolo.
In questo senso è lecito affermare che un’opera come la Pietà Rondanini, non solo sia la scultura più d’avanguardia che il Rinascimento ci abbia consegnato, ma sia da considerarsi in tutto e per tutto arte contemporanea, poiché in dialogo costante con la sfera temporale, che comprende noi, e altre generazioni a venire (si può guardare alla poetica scultorea di Arturo Martini, Marino Marini, o anche più in là, fino a Giacometti, e allo stesso Modigliani, per ben comprendere l’attualità del messaggio della Pietà Rondanini).
Ma se il vertice del Rinascimento coincide con la figura del Genio, è vero anche il contrario: il Genio non può che avere origine dal primo momento “autodeterminante” del corso della storia (in quanto deliberata espressione della volontà degli umanisti di dare origine a una nuova stagione dell’uomo). Sarà questa congiunzione astrale a dar vita al primo slancio dell’Uomo verso l’Alto, non più con ali di cera, ma con la potenza delle Idee.
Per l’artista passare dall’essere espressione libera, poietès della società, a diventarne massima vocazione, “volontà autodeterminante” di una “società autodeterminante”, è un passo, o, meglio, un volo, quello che sapranno fare i Geni del Rinascimento.
Un volo che porterà l’artista a stagliarsi come libero creatore nel cielo di una rinnovata società laica, che si sente libera a sua volta dal rapporto gerarchico che il Medioevo aveva instaurato con il divino, ma in rinnovato dialogo con essa. E’ questa nuova forma di dialogo, che viene tracciata dal neoplatonismo, e diventerà espressione del nuovo compito che il lògos assume nel pensiero rinascimentale: quello di trasferire le Idee dal mondo divino a quello umano, la vera cifra del Rinascimento, la chiave di volta per comprendere il fenomeno storico della “rinascita”.
Da quelle Idee deriva la tensione verso il volo in Leonardo; e il senso di peso, quel “terrore” che non è terribilità, ma attrazione terrena, paura di tornare alla materia, in Michelangelo; e, infine, di nuovo l’afflato verso l’alto, di cui Raffaello lascerà nell’ultima sua opera, la Trasfigurazione, i più straordinari e ineffabili segni.
Il Rinascimento si presenta quindi come il primo periodo della storia umana consciamente logocentrico (intento dichiarato già all’origine, basti pensare all’Accademia neoplatonica), che esplicita la vera natura della rivoluzione antropologica in esso presente. Solo grazie a questo assunto ideologico è possibile identificare e inquadrare il percorso del “pensiero in figura” umano (si legga arte figurativa) nei tre grandi momenti storici definiti classicità, medio evo, e modernità; e comprendere poi che vi corrispondono tre differenti e precise concezioni ontologiche, tre diversi modi dell’uomo di rapportarsi al mondo che lo circonda, passando, rispettivamente, da una visione cosmologica, a una teologica, per giungere infine a porsi in quella prospettiva antropologica, che fissa il centro nella modernità. Una modernità nella cui ampia cornice, ricordiamo, si pone la contemporaneità, cui dobbiamo sentire di appartenere anche in questo senso.
E’ dunque una nuova espressione del lògos a dar vita a quel momento unico della storia dell’uomo che prende il nome di Rinascimento, in cui il pensiero umano, formatosi sotto il grande arco della visione cosmologica, e poi strutturatosi nel solco della tradizione teologica, viene proiettato nella modernità.
Una proiezione che è volontaria e consapevole appartenenza al mondo moderno (dal latino modus, ciò che è presente), di cui l’uomo rinascimentale è fiero artefice, tanto che, come prima “forma simbolica” del pensiero rinascimentale elegge la prospettiva, perché fissi e precisi le coordinate spaziali del nuovo mondo in cui egli si trova a essere il centro. Ne è perfetta espressione l’immagine dell’Homo ad circulum, con cui Leonardo, esemplarmente, traccia la base precisa della piramide umanistica nel quadrato, e il vertice che cade in proiezione nel punto baricentro esatto dell’uomo, lo elegge a regola aurea dell’universo. L’uomo eletto a portatore di quei valori, dei quali ciascuno è potenziale espressione.