Metafisica e gnoseologia: tra vertigine e opportunità artistica
Riccardo Panigada
Emerge dalla necessità di distinguere l’”Essere”, inteso come pura entità immanente, estrapolandolo dalla fenomenologia dell’esistenza. Ma perché si dovrebbe sentire questo bisogno? Semplicemente in quanto l’imperfezione del mondo fenomenico produce angoscia, e l’unica consolazione per l’uomo è quella di ritrovare proprio all’interno del contesto dell’inquietante vita reale l’indicazione certa dell’esistenza della perfezione. Consolazione massima qualora si riuscisse a convincersi che la realtà transitoria è illusione, mentre si può confidare nell’aderenza della propria anima al mondo della perfezione. Ma chi riuscirebbe a convincere gli uomini a non tenere in alcuna considerazione il mondo reale per affidarsi completamente a un ideale mondo imperfettibile?
Ebbene ci fu un uomo dal coraggio incredibile: riuscì ad affermarsi come il filosofo di maggior rilievo del suo tempo, sostenendo che il mondo reale fosse una pia illusione degli uomini, una copia di una realtà molto più vera, anzi assoluta, di cui gli uomini comunemente non si rendono conto, ma alla quale fanno invece continuo riferimento, quando immaginano.
Con il coraggio determinato dalla forza logica del suo pensiero, Platone, il più brillante allievo di Socrate, padre fondatore della logica e ispiratore della logica aristotelica (ancora oggi alla base del pensiero speculativo scientifico), riuscì quindi a convincere i suoi contemporanei che ciò che vedevano non esisteva veramente, se non come “brutta copia” di una “realtà-verità” immateriale e trascendentale.
La sede di residenza indicata da Platone per tale “realtà-verità” era l’”Iperuranio”, posto al di sopra del cielo osservabile, vi dimoravano le idee, le quali denotavano in termini assoluti le qualità (proverbiale divenne la “cavallinità”), che consentivano agli uomini di distinguere gli “oggetti” della terra (per esempio i cavalli), in quanto “copie” fenomeniche delle idee a esse corrispondenti nell’Iperuranio.
Se il pensiero Platonico è intriso di orfismo, il modo con cui egli tratta la materia è totalmente affrancato da dogmi di carattere religioso: si potrebbe dire che le risposte all’inquietudine esistenziale emergente nell’uomo a causa dell’imperfezione e finitudine della propria natura, in una prima fase trovate dagli antichi immaginando un riscontro mitico, prendono con Platone la forma maggiormente consapevole del percorso razionale. Platone infatti fornisce una spiegazione razionale per rivelare la capacità di distinguere gli oggetti, e, nonostante le diversità soggettive e contingenti di questi, per ricondurre alle rispettive categorie tutti gli oggetti tra loro analoghi. E questo senza dover far ricorso a entità soprannaturali mitologiche, ma semplicemente, facendo leva sulla comune facoltà umana astrattiva dell’ideazione, indicò una possibile origine, il denominatore comune, e il motivo delle imperfezioni soggettive di tutti gli oggetti terreni.
Già diversi presocratici avevano cercato una spiegazione plausibile al destino umano di non riuscire a fissare mediante un riferimento certo il punto di congiunzione tra ciò che il pensiero riesce a individuare come “essere”, “essenza”, e ciò che si svolge invece come continuamente inafferrabile e mutevole prerogativa fenomenologica dell’esistenza. Anassimandro, dopo che Talete aveva indicato l’acqua-umido come origine della vita, ritrova la sua spiegazione nell’“Indeterminato”: un astratto principio che avrebbe governato l’origine e la continuità autoriproduttiva della Natura (ἄπειρον); Anassimene, suo allievo, insoddisfatto, sente la necessità di tornare a spiegazioni riconducibili a un vero e proprio elemento naturale dal quale potesse partire l’origine della vita biologica (l’aria); mentre Parmenide negò l’esistenza di alcunché al di fuori dello “Sfero” dell’Essere (ma senza indicare alcuna spiegazione plausibile per ciò che riguardava gli aspetti fenomenologici dell’esistenza). Anzi, Parmenide commise l’errore, rimproveratogli da Socrate e da Platone, di asserire che del non-essere si poteva predicare solo che non è. Ma predicando qualsiasi cosa (anche una pura negazione) a proposito del non-essere, inevitabilmente, denotandolo, lo si prende in considerazione, cosa impossibile da farsi se effettivamente corrisponde al nulla.
Più costruttivamente Eraclìto (in modo antitetico rispetto a Parmenide, caduto in aporia nel momento in cui tentò di ammettere una sorta di mondo fenomenico in seno all’essere senza intaccare la perfezione dello Sfero dell’essere) pone invece l’accento sull’importanza del confronto tra essere e non essere da cui si raggiunge il concetto del divenire. L’ineluttabile “scorrere” di Eraclito sancisce l’impossibilità di definire il presente: lo svolgersi dell’esistenza di tutte le cose è presieduto dal λόγος (=discorso, ragione intrinseca), una funzione identificabile forse in una sorta di “pensiero cosmico”, dal quale il filosofo attinge conoscenza attraverso la sua capacità di osservare profondamente le cose e i fenomeni rispetto al tempo e al movimento, tracciando le linee della prima fenomenologia della storia del pensiero filosofico.
Ma le problematiche inerenti all’essere, al tempo, alle capacità speculative del pensiero umano, e alla fenomenologia dell’esistenza devono attendere Hegel e Heidegger per venire trattate (non certo risolte) in modo esauriente.
La metafisica (etimologicamente intesa μετά τα Φυσικά) quando indagata dal pensiero continua a portare allo stesso paradosso: o arriva a porsi come alternativa assoluta e inconciliabile con la realtà contingente, o la rende comunque totalmente dipendente da fattori idealistici (basti riportare la famosa affermazione hegeliana “ciò che è ideale è reale”, che, una volta rovesciata, significa: “ciò che è reale deve ineluttabilmente corrispondere a una idealità necessitante”).
Ma si potrà affermare allora che la sostanzialità del pensiero è tale e quale alla materia?
A questo punto si rendono necessarie alcune precisazioni, al fine di continuare serenamente l’esposizione.
In questo testo non si intendono escludere termini da considerare “proibiti” adottando un’autocensura, determinata dal fatto che di tali termini si sarebbero appropriate “de facto” alcune tradizioni culturali. Considerando sempre l’origine etimologica delle parole utilizzate come indicatore del loro significato filosofico primario e costitutivo (la parola “anteriore” è sempre indubbiamente “parola ulteriore”), ci si può ritenere liberi, infatti, di utilizzare le parole appartenenti al vocabolario per quello che sono veramente: patrimonio culturale comune. Semai potrà eventualmente emergere, da una trattazione critica, che qualche altro uso “canonizzato” risulterà eventualmente riduttivo, o, talora, improprio.
Per esempio, prendendo in considerazione il termine “gnoseologia” (dal verbo greco γιγνώσκω=io conosco, nel senso “vengo a sapere e tengo il dato in memoria”) si rileva una prima fase essenziale per l’apprendimento. L’apprendimento e la conoscenza si esauriscono tuttavia in questa fase, se si è di fronte a una rivelazione non perfettibile ed esaustiva della conoscenza medesima, come nelle iniziazioni ai misteri. Gli angeli gnostici, capeggiati dal controverso Lucifero, testimoniano il significato del termine: (…) “Salute, o Satana,/O ribellione,/O forza vindice/De la ragione!//Sacri a te salgano/Gl’incensi e i vóti!/Hai vinto il Geova/De i sacerdoti”(G.Carducci, A Satana).
Infatti la rivelazione di Lucifero non è esattamente il fuoco di Prometeo. Prometeo ha portato in dono agli uomini uno strumento tecnico-operativo (il fuoco), emblema del progresso, col quale si può forgiare, costruire, sbagliare, distruggere, migliorare, apprendere per tentativi ed errori, dal quale insomma estrapolare un “metodo” per apprendere. Lucifero avrebbe invece rivelato agli uomini una sorta di sapere teosofico-razionale, in cui si mostra il paradigma per giungere alla “verità”, e fissandolo, pericolosamente per la religione cristiana, come fonte massima del sapere. Non a caso, agli inizi degli anni ’90 don Giussani, riferendo il proprio pensiero a Giovanni Paolo II, ancora osservava: “Non l’agnosticismo, ma lo gnosticismo è il pericolo per la fede cristiana”.
Indubbiamente entrambe le figure, quella di Prometeo, e quella di Lucifero pongono in risalto l’inquietudine umana dovuta al fatto di non possedere adeguati strumenti per raggiungere una conoscenza “soddisfacente”.
E Prometeo e Lucifero lasciano in eredità agli uomini due speranze differenti di conoscenza.
Dallo strumento donato da Prometeo deriva l’epistemologia (dal termine greco επιστήμη, a sua volta da ἐπὶ–ἴσταμαι=io mi pongo al di sopra, procedo), ovvero la conoscenza guadagnata passo passo per tentativi ed errori, mediante la progettazione di metodi conoscitivi. L’importanza dell’aspetto gnoseologico, quindi, all’interno del metodo epistemologico, riguarda, per esempio, l’acquisizione dei dati utili a rappresentare il campo d’indagine, ma non a interpretarlo, e spiegarlo.
Mentre i fondamenti della gnosi (dottrina della conoscenza esoterica), che non verrà trattata in questo testo esulando dal fine del medesimo, si basano unicamente su “stati affettivi” di carattere mistico.
Rimanendo quindi nell’ambito di competenza dell’epistemologia, restano ancora aperte due strade: quella empirica, e quella metafisica.
Anche quella empirica necessita di attività teoretica (rappresentazioni mentali utili a osservare risultanze emergenti dal processo gnoseologico, e risultati derivanti da accadimenti o da interventi umani, e a progettare e pianificare altri interventi). E si applica agli oggetti materiali, quando ha fini pratici sperimentali e diretti alla realtà oggettiva esterna; inoltre si può applicare attraverso l’osservazione dell’attività del pensiero, o mediante esperimenti mentali al pensiero medesimo, quando si abbiano fini pratici indiretti, ovvero analitici dell’attività teoretica stessa, quale strumento utile alla conoscenza pratica.
La strada metafisica emerge invece dalla necessità di distinguere l’essere, in quanto pura entità immanente, estrapolandolo dalla fenomenologia dell’esistenza.
Se all’essere non può contrapporsi il non-essere (poiché semplicemente denotando, e predicando qualcosa in rapporto al “nulla”, il significato della parola cambierebbe di segno e “si darebbe in positivo”, creando antinomia), l’unica possibilità di definire l’essere (di cui si può avere – seguendo il postulato delle “idee pure” kantiane – rappresentazione mentale puramente trascendentale) è quella di attribuirgli facoltà di contenere e superare la semplice sommatoria di tutti gli universi possibili in senso sostanziale, spaziotemporale, e qualitativo.
Ma la trascendenza non è familiare a tutte le menti, e la metafisica in sé e per sé non può che fornire una unica informazione utile all’epistemologia nell’indagare il rapporto tra mente e φύσις (= natura: si preferisce il termine φύσις che include, rispetto a σῶμα –non solo il corpo ma anche l’intorno in cui il corpo è immerso, con cui il corpo dipende, da cui il corpo è strettamente correlato, e continuamente penetrato): quella di segnalare che vi sono delle menti dotate di capacità trascendenti di diverso grado.
Dunque l’uso di termini quali: gnoseologia ed epistemologia, non implica necessariamente di far riferimento né alla gnosi, né alla metafisica nella sua accezione puramente trascendentale, termini che non riguardano le aree di conoscenza che possono interessare gli approcci metodologici all’indagine del rapporto tra mente e natura.
Ma la capacità di pensare in termini metafisici da parte della mente dell’uomo, in grado di scotomizzare ogni intorno al soggetto pensante, incluso lo stesso corpo del soggetto (pur essendo insufficiente a dimostrare il fondamento religioso, quanto il fondamento di qualsivoglia metafisica), nonché la gnoseologia (non certo la gnosi), in quanto matrice naturale immediata di approccio alla conoscenza, sono gli unici margini ancora aperti alla creatività artistica lontana da dogmatismi e stilemi.
Tempoearte rivolge infatti la propria attenzione a quegli autori la cui ricerca è ascrivibile all’arte nella sua accezione propria (espressione umana libera, originale, e continuamente passibile di progredire nel contesto della cultura); senza occuparsi, quindi, di quelle forme di cosiddetta arte fatta di stili ormai esausti, o i cui eccessi formali pretendano di coincidere con i contenuti.